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    La continua presenza dell'educatore come espressione di amore



    Giovenale Dho

    (NPG 1974-05-42)


    Un problema che angustia oggi l'educatore è quello relativo al tipo di «presenza» da vivere accanto ai giovani.
    Si passa facilmente, con l'oscillazione del pendolo, agli estremi opposti. Da una presenza continua, ansiosa ed ossessiva alla accettazione di uno spontaneismo oltranzista, che annulla nei fatti ogni gestione educativa.
    Alla radice non c'è solo disaffezione alla propria funzione o assenza di capacità di impegno.
    Ci sono motivazioni teologiche e istanze pedagogiche di notevole peso.
    Vanno da un senso di maggior ottimismo nei confronti della persona, responsabile e autonoma anche in fase di maturazione e di crescita, dalla percezione dell'esigenza condizionante della libertà nelle scelte personali per la loro autenticità, a tutta quella vastissima gamma di indicazioni metodologiche che passano sotto il tema globale della «educazione come esperienza di libertà» (per citare Freire) e della «non-direttività».
    È davvero indispensabile dipanare questa intricata matassa, se si desidera che il tipo di presenza educativa «con» i giovani, non sia frutto di scelta emotiva, magari suggellata da grosse parole.
    Dunque, ecco il problema all'ordine del giorno: che senso e che spessore deve avere la «presenza» dell'educatore accanto ai giovani, oggi? È ancora significativo e motivato un tipo di presenza continua e capillare?
    Non è forse meglio ritirarsi in disparte, per permettere loro una crescita adeguata?
    La risposta, per essere seria, comporta un deciso spostamento di accento: dall'educatore all'educando. Dovrebbe cioè essere riformulata così: di quale «tipo» di presenza ha bisogno oggi l'educando, per crescere e maturare, in libertà e responsabilità?
    Lo studio che segue offre stimoli davvero preziosi per una risposta, molto informata, all'interrogativo.
    Lo fa partendo dal concreto e approdando al concreto. Muovendosi cioè all'interno delle annotazioni con cui, nello stile di Don Bosco e dei salesiani, è stata definita la «presenza» dell'educatore: la cosiddetta «assistenza». E ci pare un servizio stimolante anche per coloro che sono giustamente poco preoccupati dei problemi «interni» della nostra Congregazione.
    Non solo perché inserendo queste riflessioni in una piattaforma di concretezza si evitano le facili generalizzazioni e gli sbocchi qualunquisti. Ma soprattutto perché di fatto lo stile di don Bosco, in questo campo, ha fatto scuola: sono molti gli educatori e le istituzioni educative che hanno derivato da don Bosco una preoccupazione di presenza, ampia, quotidiana, intensa. E che si pongono perciò l'interrogativo: continuarla a tutti i costi, o buttarla a mare al più presto? Prima di concludere, per dare con onestà il senso dell'intervento, ci pare indispensabile ricordare che la domanda da cui siamo partiti deve risultare una domanda autentica, non retorica. Chi ha già risolto il problema lo perché non crede ad una funzione educativa del genere... o perché ci crede troppo e etichetta con motivazioni pesanti colui che non condivide operativamente la sua linea, discriminando sul taglio della buona o cattiva volontà), non potrà essere arricchito dalla lettura di queste pagine. Una soluzione affrettata pone se stesso, le proprie scelte, come unità di misura.
    Questo articolo capovolge i termini: il giovane al primo posto; e l'educatore al suo servizio.
    Certamente non sono tutti risolti i problemi, nell'affermazione che una «presenza continua dell'educatore testimonia l'amore». Purtroppo ogni educatore conserva, nel proprio servizio, il peso dei condizionamenti psicologici e sociologici di cui soffre. Solo una persona «libera» può veramente educare con pienezza alla libertà: testimoniare l'amore incondizionato di cui il Padre ci ama. Il tema è di capitale importanza. Ci ritorneremo presto.


    UNO STILE DI PRESENZA DELL'EDUCATORE

    Don Bosco ha parlato e insistito moltissimo su un tipo particolare di presenza continua dell'educatore: l'«assistenza». Le sue indicazioni hanno segnato un'impronta nello stile educativo di molte istituzioni. Per comprendere con precisione la portata del fatto è indispensabile riandare pensiero di Don Bosco.

    Per d. Bosco l'amore è «presenza» educativa

    Il punto di partenza dell'azione educativa di Don Bosco non lo troviamo in nessun punto di vista o principio teorico, ma nella carità pastorale, nel suo amore ai giovani.
    È nella prospettiva della sua carità verso Dio e verso i giovani che egli percepisce come «amore» voglia dire presenza; presenza nella vita del giovane, presenza amorosa ed animatrice del suo sviluppo e progresso morale, spirituale e culturale; presenza stimolatrice del suo progressivo impegnarsi nella realtà umana e cristiana.
    Quello che cogliamo noi da una lettura anche superficiale della vita di Don Bosco è che egli educò attraverso un suo stile di relazioni personali. «Un'autentica relazione personale significa sempre che io sono completamente presente all'altro, che sono pienamente con lui; che partecipo della sua esistenza personale, perché ho interesse per lui. Partecipare significa letteralmente "prendere parte di". Così la relazione suppone che il abbia parte nella vita dell'altro, nella sua esistenza e nel suo modo d essere al mondo».
    Sono espressioni di uno psicologo esistenziale che sembrano calcate sulla prassi e sulle espressioni di Don Bosco.

    Dalla «presenza» all'assistenza

    Don Bosco è sempre stato, da buon piemontese, un uomo con i piedi per terra. Il suo «buon senso» realista, la sua grande conoscenza della debolezza umana (egli crede vivamente alla realtà del peccato originale) e la profonda vicinanza empatica con i suoi giovani (quelli «reali», quel] che lui conosceva per nome...) gli fecero vedere la necessità di «guidare» questi giovani, di «assisterli», di difenderli dal pericolo di esperienze deformanti.
    Il suo intuito psicologico gli fece comprendere che è educativamente più utile evitare al giovane che cresce una esperienza negativa, che sforzarsi poi di cancellarne gli effetti. La sua presenza-partecipazione amorosa assunse allora quelle forme ed espressioni che, nella realtà concreta de suo tempo e dei suoi giovani, gli si rivelavano più utili allo scopo.
    I suoi scritti, le sue raccomandazioni, riecheggiano continuamente quella sua presenza vigilante, che egli ha voluto erigere a principio metodologico: il principio dell'assistenza assidua e continua.
    «... nulla di quanto accadeva sfuggiva alla sua attenta osservazione, ben sapendo di quali pericoli potesse essere causa l' agglomeramento di giovani di varia età, condizione e condotta. E non interrompeva questa sua vigilanza neppure quando ebbe chierici e preti assidui nell'assistenza, volendo egli per primo stabilire, col suo esempio, il metodo così importante di non lasciare mai i giovani da soli».[1]
    È una metodologia che conserva la sua validità nella situazione educativa di oggi?

    LE NUOVE PROSPETTIVE CIRCA IL RAPPORTO EDUCATIVO

    È proponibile, realizzabile, utile «oggi», nell'attuale situazione culturale il tipo di presenza educativa che con Don Bosco abbiamo denominato «assistenza»?
    Per poter dare una risposta a questa domanda che, a mio modo di vedere, pone un problema centrale, è necessario richiamare e tenere presenti alcuni tratti salienti che, in vasti settori della nostra cultura, incidono sul modo di concepire l'educazione, in particolare il ruolo dell'educatore ed il rapporto educativo.
    Tre mi pare siano le istanze principali che dobbiamo tenere presenti:
    a) L'esigenza di un rapporto interpersonale autentico;
    b) La crescente coscienza dell'esigenza di libertà creatrice;
    c) Lo spirito «gruppale» con la sua dinamica e le sue esigenze.
    Sono istanze che scopriamo sia a livello di esperienza vissuta (i giovani le vivono, le difendono), che a livello di riflessione pedagogica.

    L'esigenza di rapporto interpersonale autentico

    Possiamo affermare che uno degli aspetti a cui i giovani oggi sono più sensibili è appunto l'autenticità del rapporto interpersonale. Sentono il bisogno di viverlo come incontro di persone, che si pongono una di fronte all'altra con una presenza totale, una presenza che raggiunga nell'altro (e offra di sé) la totalità della ricchezza personale e non semplicemente delle qualità, dei tratti o degli aspetti parziali.
    È in fondo, l'esigenza di un rapporto dialogico, dove per dialogo si intende l'atteggiamento di accettazione e di rispetto «incondizionato» della persona. Qualsiasi «condizione» posta alla persona per accettarla è percepita come un giudizio negativo, una critica, una barriera, un «non essere presente», uno schermo difensivo.
    I giovani sentono fortemente il bisogno di essere accettati, soprattutto dagli adulti, per quello che sono, come sono, e non per la loro conformità a determinati schemi culturali o modelli di comportamento.
    Esigono che l'adulto si presenti loro con una presenza chiara, personale. Sentono in chi comunica con loro attraverso un «ruolo» e non è totalmente presente alla loro vita, il «personaggio» legato all'istituzione, che gli impedisce di essere se stesso e di accettare loro incondizionatamente. Più o meno consciamente vivono l'esigenza di qualcuno che di fronte a loro «non solo esprime quello che pensa veramente, ma che il suo pensiero coincide esattamente con i suoi sentimenti più profondi... nel desiderio di "percepire veramente quello che egli è, senza maschere"».
    Accettano l'adulto come persona, come amico, come «uno di loro», purché non sentano lo schermo del «ruolo» che divide e rende la sua presenza «parziale» e quindi difensiva. Di fronte al «personaggio» (sia esso padre, madre, insegnante, sacerdote) anche essi rispondono con una presenza parziale e difensiva. È un insieme di istanze formulate spesso in modo oscuro, emotivo, unilaterale e a volte utopico; ma non per questo lasciano di porre all'educatore il problema dello stile della sua presenza.
    Il problema è oggi ampiamente dibattuto in sede teorica, sia psicologica che pedagogica, appunto perché si tratta di esigenze reali che ci obbligano a ripensare i termini in cui è posto il problema del rapporto educativo.

    L'esigenza di autonomia e di autenticità personale

    È un'istanza strettamente collegata con la precedente; esprime il bisogno (spesso compulsivo) di essere «se stessi», realizzarsi pienamente, senza intralci.
    Ho detto «spesso compulsivo» perché questo bisogno lo si vede oggi esplodere in forme irrazionali e violente che fanno pensare ad una «compressione» precedente e cioè alla coscienza più o meno oscura che lo sviluppo-realizzazione è soffocata da molteplici forze.
    Da una parte abbiamo, tutti, ma specialmente i giovani, la sensazione che a causa del freno dell'ansia e dell'incertezza, non riusciamo ad aprirci a tutta la realtà, e che quindi la nostra vita si sta costruendo su di una base parziale, angusta ed insufficiente, dove le nostre possibilità creative restano per la maggior parte soffocate.
    D'altra parte, una serie di stimoli culturali ci rendono sempre più chiara la percezione degli innumerevoli condizionamenti che provengono da ogni parte dell'ambiente.
    «Una delle più grandi tragedie dell'uomo moderno, dice Paulo Freire, per non dire la maggiore, consiste nel fatto che egli è dominato dalla forza dei miti, guidato dalla pubblicità organizzata, sia essa ideologica o no, per cui sta rinunciando sempre più e senza accorgersene, alla sua capacità di decidere. L'uomo viene espulso dall'orbita delle decisioni. L'uomo semplice non coglie i compiti che gli spetterebbero perché una élite glieli presenta già interpretati e glieli consegna come si fa con una ricetta prescritta dal medico per essere soltanto applicata».[2] I giovani sono quelli che più acutamente rivelano il disagio in cui li mette questa situazione. Lo rivelano nella radicale sfiducia in se stessi di fronte ad un mondo inferiorizzante. Lo rivelano spesso nella sensazione dolorosa di sentirsi costretti dalle pressioni sociali, dalle proprie forze inferiori inconsce, che intaccano la propria responsabilità e la propria colpa. Tutto viene scaricato su qualche «capro espiatorio».
    Assistiamo parallelamente, nei giovani, alla nascita di una crescente aspirazione ad una «liberazione», aspirazione che si rivela come una delle prospettive e delle costanti della nuova cultura.
    È un bisogno ancora spesso indefinito che non riesce ad incanalarsi in una direzione ben definita, e, per questo motivo, è a volte esagerato ed ipersensibilizzato. Ogni limitazione, norma, legge o esigenza esterna, è sentita come abuso ed oppressione; la coscienza, almeno incipiente delle innumerevoli manipolazioni, fa scattare le difese di fronte al minimo sintomo di pressione o intromissione.
    In moltissimi casi tuttavia è un meccanismo «parziale» e «selettivo» che risente della tecnica del «capro espiatorio»: mentre reagiscono, per esempio, anche all'ombra di pressione da parte degli educatori, della Chiesa, sono poi passivamente succubi della pressione del loro gruppo; mentre «colano il moscerino, trangugiano il cammello».
    La riflessione su questi dati di fatto, che ogni giorno possiamo toccare con mano, ha condotto i pedagogisti a postulare, per l'oggi e per il domani, una educazione capace di portare i giovani ad un permanente atteggiamento critico, liberato dall'istintività compulsiva e calibrato dall'oggettività, come unico mezzo che permetta all'uomo di realizzare la sua vocazione naturale all'integrazione, superando il semplice «adattamento», per assumere i temi e i compiti specifici del suo tempo.
    Ciò che permette all'uomo di «liberarsi» veramente è la sua coscienza critica, che lo rende capace di essere nello stesso tempo «soggetto» ed «oggetto», e cioè né passivamente succube di eventi fatali (coscienza «magica» secondo P. Freire), né illuso di poter dominare dal di fuor a sua volontà, tutta la realtà (coscienza «naturale» secondo Freire).[3] Per sintetizzare, è facile vedere che l'esigenza di una liberazione profonda è sentita come un'istanza fondamentale del nostro tempo. Di fronte a questa esigenza, l'educazione non potrà prescindere dal considerare i processo di liberazione come una delle sue dimensioni basilari.
    Si sente il bisogno di una educazione basata su di un tipo di «comunicazione non autoritaria», «centrata sull'educando», sul suo processo di maturazione, di «presa di coscienza», di liberazione.

    L'istanza della dinamica di gruppo

    Per la nostra riflessione è importante che consideriamo le due istanze precedenti con le caratteristiche che esse assumono quando sono vissute nella situazione di gruppo.
    È patente il cambio di prospettiva che è avvenuto nella nostra cultura nella nostra mentalità: un rifiuto della massificazione e la riscoperta de rapporti più ristretti e più impegnativi di piccolo gruppo, e della responsabilità comunitaria o gruppale. I giovani lo sentono e lo vivono come via per uscire dall'isolamento (in un modo o nell'altro sempre presente nella situazione di massa) e per conquistare la propria libertà.
    Il fenomeno della formazione dei gruppi è in continua espansione, dalle forme meno strutturate e spontanee, a quelle più sclerotizzate e regolamentate; con le forme e gli obiettivi più svariati, più o meno chiari, più o meno validi.
    Sempre però è viva l'istanza di raggiungere e conservare l'identità del gruppo, l'autonomia della propria ricerca, nelle proprie scelte e decisioni (nella propria scala di valori), l'autogestione della propria azione. Diventa gradualmente più forte (o almeno, se ne parla molto) il senso democra tico, il rispetto per le persone e per i loro diritti fondamentali.
    Questa situazione incide necessariamente sulla posizione stessa del problema pedagogico, che, guardato in questa prospettiva, non può essere la comunicazione a senso unico, che un educatore fa ai suoi educandi, di un contenuto culturale elaborato da altri... Il contenuto e la metodologia dei problemi educativi non possono essere elaborati solo dall'educatore, nel suo studio e nella sua biblioteca. Non possono essere elaborati se non col gruppo, a partire dall'esperienza del gruppo stesso e di ognuno dei suoi membri.
    Ora, di fronte a questa realtà, come si configura la «presenza» dell'educatore nel gruppo dei giovani?
    Certamente, non tutti i gruppi di giovani vivono con lo stesso grado di coscienza e di vivacità questo problema. Ma per l'educatore rimane il fatto che si tratta di una istanza da tenere presente ad ogni modo e di cui deve suscitare la coscienza nei suoi educandi, ponendosi di fronte ad essi in una «presenza» adeguata.
    Si ripropongono qui sotto altra forma, alcuni dei problemi già considerati. L'educatore, se percepito come uno che agisce sul gruppo dall'esterno di esso, dall'alto («noi» e «lui»), viene, molto facilmente, rifiutato apertamente o accettato passivamente, a seconda della reattività del gruppo, ma la sua incidenza educativa sarà sempre povera e per lo più formale. D'altra parte, è possibile una sua integrazione «reale» nel gruppo, finché egli è percepito come rivestito di un «ruolo» che lo rende «differenziato», che lo lega ad una istituzione e che perciò non gli permette di accettare «incondizionatamente» le scelte e le decisioni del gruppo? La sua accettazione di una realtà istituzionale non è forse più determinante del suo comportamento che non la sua volontà di accettare incondizionatamente le persone ed il gruppo?
    D'altra parte ancora, si possono porre alcuni problemi di non facile soluzione:
    * È possibile (nel senso psicologico) per un educatore rinunciare al suo ruolo, per essere tra i suoi educandi autenticamente «uno di loro»?
    È inutile che un capo o un dirigente inviti i propri dipendenti a considerarlo come uno di loro, perché le differenze «reali» esistenti difficilmente possono essere neutralizzate con rapporti interpersonali che abilmente cerchino di ristrutturare la percezione del dipendente. «Diventare uno del gruppo, perdere la qualità percettiva del leader deve essere un processo autentico, fondato sull'esperienza effettiva del gruppo, che non può essere surrogato con tecniche di deformazione e dissimulazione».[4]
    * Quando poi l'educatore riuscisse a fare autenticamente questo passo, quale significato conserverebbe ancora l'essere educatore, se egli non si sente responsabile di un «messaggio» di cui, «non a nome proprio» è portatore?
    * Oppure questo «suicidio» dell'educatore sarà strumentalizzato per ottenere il consenso e la collaborazione del gruppo?
    Allora il rapporto interpersonale permissivo dell'educatore verrebbe utilizzato «per imporre in modo più efficace determinati valori», mistificando così il gruppo, facendogli percepire una libertà che è solo soggettiva e illusoria «e che ha in realtà grossi ed invalicabili limiti oggettivi, non riconosciuti, proprio perché non dichiarati».[5]

    Educatori come animatori

    Un tentativo di sintetizzare le varie istanze di libertà, autenticità che rapporto interpersonale e la vita dei vari gruppi presentano nei rapporti con l'educatore, lo si può forse vedere nella presentazione che oggi si dell'educatore come «Animatore».
    In questo concetto si vorrebbero unite le qualità di chi è insieme portatore di un messaggio di valori ed un autentico membro di gruppo; di rinuncia a qualsiasi forma di manipolazione o di comunicazione autoritaria, ma non si limita a favorire ed incoraggiare una crescita delle persone o del gruppo dall'interno, disinteressandosi della comunicazione un contenuto. Il suo compito è quello di interpellare il gruppo, accettando nel tempo stesso che il gruppo lo interpelli; stimolare i membri del gruppo ad interpellarsi a vicenda.
    Egli incoraggia i membri del gruppo ad incontrarsi e a prendere coscienza della propria esperienza, ad analizzarla, interpretarla sistematicamente, e arricchirla di nuovi contenuti. Non impone la sua esperienza né i suoi valori (anche se li sa oggettivamente validi) ma cerca di renderne gruppo cosciente, lasciando poi al gruppo stesso ed ai singoli la libertà incondizionata di scelta.
    È l'immagine del rapporto educatore-educando che emerge dalle vari istanze che ho cercato di indicare.
    È una immagine utopica?

    ATTUALITÀ E SIGNIFICATO DELLA PRESENZA DELL'EDUCATORE

    Quello che dalle considerazioni precedenti emerge chiaro non è solo né principalmente, l'esigenza di un cambio profondo nella metodologia dell'intervento educativo, quanto una nuova prospettiva, un nuovo tipo o modello di uomo da formare: un uomo cosciente, realista, interiormente libero, capace di cercare, di affrontare la situazione di mutamento accelerato, creativo, capace di lavorare per ottenere delle situazioni miglior in base a valori assimilati e vissuti, capace di collaborazione e partecipazione, nel suo gruppo e nella società.
    La metodologia deve essere messa a punto in relazione alla sua efficienza per il raggiungimento di questi fini.
    Ora è facile percepire quanto il tipo di presenza e di rapporto interpersonale dell'educatore sia importante nel creare le condizioni in cui il giovane può maturare adeguatamente nella libertà, nella costruzione della sua personalità su dei valori oggettivi e nella sua integrazione comunitaria. Il problema che, come educatori, ci poniamo è questo: ha un senso parlare di «assistenza» nello stile e secondo i principi del sistema di Don Bosco oggi di fronte alle esigenze educative mutate così profondamente? O si tratta di un tipo di presenza dell'educatore che deve considerarsi superato perché inefficace, o peggio controproducente?

    L'anima della presenza educativa

    Le critiche che possono derivare dalle istanze contemporanee sono, molto spesso, fatte quasi esclusivamente:
    * sulla base di un presupposto relativistico ed agnostico per quanto riguarda i valori (che viene spesso identificato con la libertà)
    * ed in gran parte basate sull'analisi del rapporto educativo fatto quasi esclusivamente in termini di distribuzione di potere.
    Non si può perdere di vista in questa valutazione, che Don Bosco parte da presupposti diversi e così qualificanti che il non accettarli mette automaticamente l'educatore al di fuori del sistema educativo da lui proposto. In primo luogo egli parte dalla visuale della fede i cui valori illuminano totalmente la sua vita e la sua missione che, per lui, l'opera dell'educatore deve tendere fondamentalmente a testimoniare quella «iniziativa assoluta che è la redenzione». Per questo egli si sente inviato e per questo anche, nel suo pensiero, l'opera educativa è così strettamente legata al ministero sacerdotale ed alla vita sacramentale. La sua è una presenza «religiosa». In secondo luogo Don Bosco pone come fondamentale l'atteggiamento d'amore. La presenza dell'educatore è una espressione di amore, di autentico amore-carità. Il suo significato, il senso dei vari elementi esterni della «presenza dell'educatore», rimane del tutto svisato qualora, nella valutazione di essi, venga lasciata da parte questa dimensione essenziale. La presenza tra i giovani è una presenza d'amore.

    Presenza d'amore e presenza religiosa

    Mi pare importante percepire il legame profondo che esiste, nello spirito della pedagogia di Don Bosco, tra «presenza d'amore» e «presenza religiosa».
    Prendendo spunto dalla riflessione di un teologo protestante, interessato ai problemi del rapporto umano secondo gli studi di C. Rogers, vorrei tentare, a titolo di ipotesi, di esprimere un aspetto, a mio parere caratteristico del legame tra presenza d'amore e presenza religiosa.
    * Un presupposto psicologico: nel processo di strutturazione della personalità, crescita nella libertà, la capacità di aprirsi a tutta la realtà, di prendere in considerazione oggettivamente tutti i valori e di operare delle scelte veramente vitali, ponderatezza e coerenza, sono indissolubilmente legate al grado di considerazione positiva, di fiducia e di accettazione che la persona ha di se stessa.
    * Un presupposto psico-pedagogico: nella persona che si sviluppa, questa autofiducia è resa possibile dalla percezione della fiducia che hanno in lei le persone significative del suo contorno umano: dalla presenza personale, totale, amorosa che hanno nella sua vita.
    * Un presupposto ontologico-teologico latente in ogni educazione che voglia e veramente tale consiste nel fatto che non è solo l'educatore che ha fiducia ed accetta il giovane, ma è il giovane stesso che è degno di fiducia ed accettabile come essere umano!
    L'educatore, in modo più o meno implicito, agisce nella linea che porta il giovane a prendere coscienza della sua «accettabilità» e ad avere realistica fiducia in se stesso. Questa intenzione implicita diventa esplicita e riceve una fondamentazione teologica quando l'educatore assume come suo punto di partenza la manifestazione che Dio fa di se stesso in Gesù Cristo. «Il Kerigma cristiano tenta di esplicitare questa Parola-dall'alto, secondo cui la creatura è accettabile nell'universo e Colui che le dà la vita è realmente a suo favore. Questa parola di Dio non è espressa in un'idea ma in un avvenimento. Il ministero di Gesù di Nazareth è questo avvenimento originario che promuove la testimonianza della Chiesa a favore di questa Parola-dall'alto».[6] L'educatore dà al suo educando la possibilità di accettarsi autenticamente a partire dal fatto che egli lo accetta com'è, che ha fiducia in lui, che lo ama. Ma accettando e dando fiducia all'educando l'educatore «cristiana non esprime un'opinione puramente personale secondo la quale per lui il giovane sarebbe accettabile. Egli opera un «ministero» molto significativo per il giovane comunicandogli implicitamente, ma in modo comprensibile, che egli è accettabile, degno di fiducia e di amore, perché Padre lo ama ed ha fiducia in lui. È a questo punto che si opera la congiunzione tra presenza amorosa, amichevole, e presenza religiosa nel senso più pieno. Penso che stia qui il nucleo principale del «messaggio» che Don Bosco vuole sia trasmesso dall'educatore attraverso la sua «presenza».

    Il messaggio ed il linguaggio che lo esprime

    Dicendo «stile» di presenza, ci rifacciamo ad un «linguaggio espressivo» delle intenzioni e degli atteggiamenti profondi.
    Don Bosco ha espresso, ha tradotto il suo amore a Dio ed ai giovani in uno stile di presenza, di convivenza fraterna, di vigilanza amorosa. Questo stile è espresso in lui in concreti comportamenti che costituiscono un linguaggio, un veicolo di espressione.
    La realtà (il messaggio) da esprimere attraverso la presenza rimane oggi la medesima.
    Il linguaggio espressivo concreto (e cioè il modo pratico di realizzare la nostra presenza educativa) può essere ancora il medesimo?
    È oggi ancora comprensibile? Non potrebbe qualche volta, per la mutata sensibilità, essere interpretato in modo distorto e quindi essere di effetto negativo?
    Come possiamo e dobbiamo rivivificare tra i giovani di oggi, con le loro esigenze, i loro bisogni, le loro esperienze e la loro visione della realtà, quel «linguaggio comportamentale» che è la nostra «presenza» tra di loro in modo che:
    * sia per loro trasparente il contenuto del messaggio che vogliamo loro comunicare
    * sentano da parte nostra disponibilità, aiuto, incoraggiamento e stimolo, ma anche nello stesso tempo, rispetto per la loro persona e per le loro decisioni e scelte, stima sincera ed accettazione incondizionata?

    Le forme attualizzate della presenza educativa

    Si può dire che, sebbene visto in un contesto più vasto che quello della presenza educativa, questo problema sia stato uno dei punti focali nella coraggiosa riflessione del CGS XX della congregazione salesiana che ha riletto gli aspetti caratteristici dello spirito di Don Bosco armonizzandoli con la sensibilità educativa attuale.
    Riporto alcune indicazioni particolarmente significative.
    * L'atteggiamento di base: rispetto e fiducia.
    «Il salesiano, sull'esempio di Gesù, che ama e cerca l'incontro personale, in atteggiamento di umiltà e di fiducia, e imitando la bontà di D. Bosco, metta alla base delle sue relazioni pastorali coi giovani, il rispetto della persona, l'accoglienza cordiale, attenta e premurosa, la capacità di ascolto, l'interessamento per i loro problemi, desideri, divertimenti, iniziative».
    * La presenza viva e vitale.
    «Il nostro incontro con i giovani non può essere occasionale, anche se pieno di bontà e di premuroso rispetto: dobbiamo arrivare a stabilire con loro una permanente presenza nel loro mondo, come Gesù che "piantò la sua tenda in mezzo noi", come D. Bosco, che formò coi giovani una vera famiglia. E dobbiamo pure dare ad essi la possibilità di vivere il loro mondo anche all'interno delle nostre opere. Noi salesiani oggi dobbiamo quindi ad ogni costo essere fedeli a questa presenza attiva, stimolante, portatrice di vita, adeguata alle esigenze giovanili, rispettosa del loro vera libertà. È così che si riscopre e si rivive il vero senso dell'assistenza salesiana».
    * Lo sforzo di comprensione.
    «Il mondo giovanile oggi ha un volto nuovo. I suoi valori e le sue manifestazioni sono tanto diversi dal nostro modo di concepire e di vivere la realtà. La permanente presenza e convivenza porta i salesiani e i giovani alla necessità di una comprensione mutua, viva e concreta».
    * Atteggiamento e comportamento di dialogo.
    «Il dialogo dei salesiani coi giovani è un richiamo permanente e paziente alla loro libertà interiore, alla loro iniziativa, entro rapporti di comunione fraterna, stimolatrice di vita».
    Forse ci si potrebbe aspettare, a questo punto, una maggior determinazione delle situazioni pratiche, sia di ordine personale che di ordine strutturale, che abbisognano di cambio e di rinnovamento per incarnare questo linguaggio.
    Certamente è una riflessione indispensabile e doverosa, ma penso debba essere necessariamente fatta «sul vivo» perché si tratta di espressioni concrete che difficilmente possono venire assolutizzate nel loro significato che assumono dall'hic et nunc della situazione educativa. Siamo tutti impegnati a farla.
    La nostra carità, la nostra cordialità, la nostra fiducia e la nostra accettazione devono poter essere percepite effettivamente dai giovani; devono essere verificate a livello del loro vissuto e devono pertanto avere un corrispettivo espressivo adeguato a comunicarle.
    È qui che ci si presenta la condizione più importante. Nessuna espressione, manifestazione, atteggiamento esterno può ingannare i giovani se non combacia, se non è in sintonia con i nostri sentimenti ed atteggiamenti profondi. Non è il mantenere un «ruolo» o l'abbandonarlo col pretesto di cameratismo o uguaglianza che modificherà la percezione dei giovani, ma l'autenticità interiore, la congruenza tra il nostro linguaggio, il messaggio che vogliamo comunicare e la nostra esperienza profonda. Possiamo oggi discutere su determinati comportamenti educativi di Don Bosco, ma dobbiamo riconoscere che in lui erano espressioni autentiche e trasparenti di una personalità armonica, di una esperienza vissuta, di fede profonda e di un amore vero e personale.

    Una presenza animatrice

    Nel concludere l'esposizione di alcune istanze attuali circa il rapporto educativo ho accennato come sia possibile vederle sintetizzate nella figura dell'educatore come animatore. Il discorso fatto mi pare che dovrebbe portarci alla conclusione che una riformulazione della posizione attuale dell'educatore ce la debba presentare appunto nei termini di chi è presente nella vita dei giovani come un animatore con tutte le caratteristiche, gli atteggiamenti, le esperienze interiori, che ciò comporta. Per concludere vorrei ampliare il discorso a dimensioni più globali, che dovrebbero dare lo spunto per altre riflessioni ancora più impegnative e piene di conseguenze.
    Abbiamo bisogno di riflettere, di studiare, di osservare, di convivere, e di ascoltare i giovani singolarmente e in gruppi, evitando la condanna sistematica e il rifiuto dei valori loro e dei loro atteggiamenti. Dobbiamo giudicarli e capirli nell'ambito del loro contesto e della loro mentalità. Base di ogni comprensione non sono tanto le idee e i ragionamenti, quanto l'amore.


    NOTE

    [1] Memorie Biografiche, III, 119
    [2] FREIRE P., L'educazione come esperienza della libertà, Mondadori, 1973, p. 51.
    [3] FREIRE P., op. cit., p. 130.
    [4] LUMBELLI L., Comunicazione non autoritaria, Angeli ed., 1973, p. 158.
    [5] LUMBELLI L., op. cit., p. 157 e 165.
    [6] ODEN T.C., Rivelazione cristiana e intuizione psicoterapeutica, in Psicanalisi e fede cristiana, IDOC, Mondadori, 1971, p. 102.


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