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    Il mistero della Pasqua per capire la professione



    Guido Gatti

    (NPG 1974-01-02)

    Continuiamo il discorso sulla professione.
    Una cosa abbiamo ormai chiara, almeno a livello culturale: il giovane «cristiano» va educato a cogliere la realtà in tutto il suo spessore; parzialità e frammentarietà sono la strada maestra per giungere a quel rischio pericoloso che il RdC ha individuato nella «disintegrazione tra fede e vita».
    Ne abbiamo parlato a lungo. Ma forse è utile spenderci ancora qualche parola. Così, dal tema specifico della professione, la riflessione si allarga a tutti i problemi educativi.
    Ogni progetto sulla realtà comporta l'impatto dell'identità personale («chi sono e che cosa voglio») con una lettura totale della realtà («quale vocazione mi viene dai fatti»). Nell'un caso e nell'altro non basta né la sola fede né tanto meno le sole analisi tecniche (con l'alibi, magari, della pretesa scientificità, se essa alla fine significa che non c'è più spazio per altre «rivelazioni»): la «verità» di me stesso e della storia (nel senso più ampio e globale del termine) viene da una lettura «profonda», condotta cioè con il contributo delle scienze dell'uomo, ma risignificata in tutta la sua totalità dalla Parola rivelante di Dio. Fede e scienze non fanno un cammino parallelo, ma si illuminano reciprocamente e si intersecano, pur nel rispetto delle specifiche competenze, al servizio dell'unica verità.
    L. Serenthà, in un'intervista riportata in Note di Pastorale Giovanile 1973/6-7, ha sviluppato con molta acutezza l'argomento.
    Con queste categorie, fede e vita diventano davvero «mentalità di fede nel quotidiano»: l'obiettivo di ogni serio processo pastorale.
    La premessa dà il taglio di questo articolo, a carattere teologico.
    Non è possibile educare a vivere responsabilmente la propria professione, ignorando che la professione è «anche» quanto con molta lucidità viene qui riportato. La verità delle diagnosi di ordine sociologico, che hanno occupato le pagine dei numeri precedenti, vanno illuminate con questa luce «rivelata», per diventare «vere»; se «verità» non è un'astrazione filosofica ma un modo di essere e di progettarsi di una persona concreta.
    D'altra parte non basta questa analisi teologica, per sapere tutto sulla professione (e l'autore lo dice a chiari termini), dal momento che l'eterna Parola di Dio si incarna nella situazione contingente di ogni quotidiano sociale, per diventare «salvezza».
    Come è stato scritto nell'editoriale che faceva il punto sui nostri progetti redazionali (cf 1973/10), solo nell'insieme e nella confluenza di contributi pluridisciplinari anche se di peso diverso, nelle mani e nel cuore dell'educatore sta il «materiale» per un annuncio che sia piattaforma su cui costruire una presenza significativa di un giovane cristiano nell'oggi professionale.

    LA PROFESSIONE, SACRAMENTO DELL'INCONTRO CON DIO

    Il punto di partenza è un testo fondamentale del Vangelo: Mt 25,31-46. È il notissimo brano del «Giudizio secondo Matteo».
    Da esso appare chiaro che, al di là di una fede, concettualmente esplicita, nelle verità rivelate, al di là di una conoscenza formale di Cristo e del suo messaggio, al di là degli atti di culto del cristianesimo ufficiale, il nostro rapporto con Dio e con Cristo coincide perfettamente col nostro comportamento nei confronti del prossimo. «In verità vi dico, ogni volta che l'avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me». Il mio rapporto con i fratelli è quindi sacramento del mio incontro con Dio, il luogo concreto in cui prende forma e corpo il mio «sì» o il mio «no» al suo appello. La dedizione umana è il più vero atto di fede e di culto a Dio.
    Ma il mio rapporto con il prossimo non è soltanto e non è soprattutto l'aiuto fraterno occasionale, l'elemosina, la bontà nel tratto, la capacità di vere e sincere amicizie.
    Una parte notevole di questo rapporto si svolge attraverso la mediazione della professione.
    In articoli precedenti si è già visto fino a che punto la differenziazione e l'organizzazione dei ruoli professionali nella società determina il volto di essa, il modo e le finalità del suo funzionamento, il carattere delle sue strutture.
    Lavoro e professione sono lo strumento più efficace e decisivo con cui io intervengo sugli altri, interagisco con gli altri nella società. Il mio dar da mangiare agli affamati, accogliere gli estranei, visitare gli ammalati, è prima di tutto un certo modo di vivere la professione.
    Chiaro quindi che la professione stessa diventa sacramento del mio incontro con Dio, la dedizione con cui dandomi (o rifiutandomi) all'uomo, mi do (oppure mi rifiuto) a Dio.
    La professione diventa momento decisivo e sostanza concreta della mia vita di fede.

    LA DIMENSIONE PASQUALE DELLA PROFESSIONE

    Se i rapporti degli uomini tra di loro sono sacramento del loro incontro con Dio, vuol dire che in essi opera Cristo, sacramento fondamentale di salvezza.
    Nessun uomo, ci dice la nostra fede, va a Dio se non per Cristo. La grazia e la salvezza di Dio non giungono a nessun uomo, in nessun angolo della terra, in nessun momento della storia se non attraverso la mediazione universale di Cristo e attraverso il mistero della sua Pasqua. Se nel mio rapporto con gli altri uomini incontro Dio, è perché in questo rapporto opera misteriosamente la Pasqua di Cristo, la sua energia di salvezza. Quindi nella professione, luogo privilegiato del mio rapporto con gli altri, io entro misteriosamente in contatto con la Pasqua di Cristo.
    C'è qualcosa che me lo lascia intuire.
    Ed è il fatto che la professione, come ogni altra realtà umana di quelle che contano, di quelle in cui si gioca la mia realizzazione, ha una certa struttura pasquale, quella che il Roqueplo chiama appunto con un audace neologismo: «isomorfismo pasquale».[1]
    Cosa è la pasqua? È la risurrezione del Signore; ma una risurrezione che passa attraverso l'umiliazione della croce e l'apparente sconfitta della morte.
    Il mistero pasquale è l'indissociabile unità della morte e della vita, dell'umiliazione e della gloria nella storia del Cristo. Una simile inscindibile unità di vita e di morte ci è dato ritrovare nella professione.

    La professione come servizio sociale

    Prima di tutto al livello di quello che la professione è in se stessa, cioè nella sua stessa struttura di servizio sociale.
    Essa è insieme realizzazione di sé, accesso a una maturità umana ma anche messa di sé al servizio degli altri, rinuncia a disporre di sé come in un gioco.
    Solo accettando la disciplina costringente di un impiego serio, accettando che le esigenze degli altri abbiano dei diritti sulla mia vita, maturo a una vita adulta, raggiungo un certo livello di autorealizzazione umana, senza della quale resterei per tutta la vita un «vitellone».

    La professione: interrogativi morali

    C'è poi il livello delle scelte morali.
    Quale più, quale meno, le professioni presentano dei problemi morali Il loro esercizio mette alla prova le mie scelte morali di fondo, mette in questione il mio amore per il vero bene, per la vera giustizia. Pensiamo al medico, cui viene chiesto l'aborto, all'avvocato posto nell'occasione di difendere una causa ingiusta, al consulente tributario al servizio di un probabile evasore fiscale.
    Ora l'adesione, con una scelta orientatrice di fondo, da tradursi puntualmente nelle scelte comuni della vita, ad un valore morale, riconosciuto e perseguito come tale, ha in sé una struttura pasquale: è vita e morte nello stesso tempo.
    È vita perché vale-per-me, perché io mi riconosco, mi sento interpellato e realizzato in essa; è morte perché mi chiede un riconoscimento-sottomissione che è la rinuncia a erigere me stesso come misura assoluta dei valori.
    Il culto del vero bene di cui è sostanziato il mio impegno morale è insieme un riconoscere alla verità diritti sulla mia intelligenza e alla realtà diritti sulla mia libertà e sul mio amore.
    D'altra parte, questo riconoscimento e questa rinuncia all'autonomia assoluta è un atto di libertà e porta alla mia più vera autorealizzazione.

    La professione: un fatto sociale

    Vi è infine il livello del peso sociale della professione. È il livello più concreto e definitivo.
    La professione non esiste in una specie di vuoto assoluto sociale. Essa è un elemento decisivo dell'organizzazione e del funzionamento della società. Nella nostra società la differenziazione sociale legata alla professione, la selezione con cui si perpetua questa differenziazione, la concentrazione del capitale, delle informazioni e del potere nelle professioni alte, sono funzionali a una società piramidale, competitiva, autoritaria, alienante e disumana. Ora all'interno di un mondo come il nostro, segnato dallo sfruttamento, dalla schiavitù, dalla spoliazione, la professione si fa liberatrice per colui che la esercita solo se egli la vive come momento di una strategia di liberazione globale.
    Per liberare veramente il proprio ruolo bisogna liberare ed elevare i ruoli bassi, trasformando il sistema. Gestire il proprio ruolo in maniera liberatrice, all'interno di una strategia di trasformazione globale della società, significa gestirlo nella maniera più scomoda e meno adatta al perseguimento di obiettivi di promozione individuale.
    Uno può usare la sua professione come arma di liberazione e di trasformazione sociale solo se, nella lucida previsione delle formidabili difese che l'assetto sociale mette in opera e nella chiara consapevolezza del suo potere integrante, è disposto a mettere in secondo piano il perseguimento dell'indipendenza personale, della carriera, di un adeguato compenso, del prestigio e del potere sociale per assoggettarsi a una seria disciplina di lotta, mettendo in preventivo ostacoli, persecuzioni, emarginazioni...
    Anche qui insomma si ritrova la dialettica morte-vita, propria del mistero pasquale di Cristo.

    IL PROBLEMA DELLA RIUSCITA

    Questa coincidenza non è d'altra parte un fatto casuale e lo scoprirla non si riduce ad essere un giochetto di prestigio mentale.
    Per il credente, l'isomorfismo pasquale rivela la consistenza pasquale delle realtà umane, anche solo profane. Nella struttura pasquale di queste realtà si rivela la Pasqua di Cristo in azione.
    Questo apre prospettive nuove di soluzione al problema della riuscita. Da un punto di vista umano, tutto sembra dimostrare che le idealità di servizio, la fedeltà alle proprie scelte morali di fondo, e questo stesso sforzo di liberazione globale perseguito nell'esercizio della propria professione siano destinati a restare in ultima analisi frustrati.
    Sembra dimostrare questo destino fallimentare tanto il carattere assimilativo ed integrante del sistema, quanto le strutture totalitarie delle alternative oggi esistenti (si pensi al socialismo burocratico di tipo sovietico). Una conferma sembra inoltre venire dal declino delle utopie cui assistiamo. Le prospettive e i progetti che sembrarono attuali qualche anno fa in occasione della contestazione studentesca si direbbero oggi «aggiornati sine die» da una forma di realismo e di ridimensionamento degli obiettivi che assomiglia sempre più allo scoraggiamento e alla resa.
    In questa condizione molti ritornano a pensare alla schiavitù come a una ineliminabile componente della condizione umana, alla liberazione come a un impegno inutile e alla speranza come a una illusione e a una droga. Ha un senso allora lo sforzo umano di ascesa nella storia, l'impegno di liberazione e la lotta per la costruzione di un mondo giusto e umano? O tutto è destinato a fallire irrimediabilmente e nonostante la serietà e la nobiltà degli sforzi per costruire un mondo diverso?
    In questo secondo caso si capirebbero i comportamenti rinunciatari di quei molti attorno a noi, di cui S. Paolo direbbe che «non hanno speranza».
    Si capirebbe il venire a patto con la realtà attraverso compromessi rinunciatari, il fare della professione solo un mezzo per vivere, rimandando la realizzazione di sé, se di una realizzazione di sé si può ancora parlare, agli spazi alternativi del tempo libero.

    La Pasqua come «speranza impegnata»

    Il cristiano, pur non chiudendo gli occhi sugli scacchi con i quali la storia chiude i suoi tempi parziali, trova nella Pasqua di Cristo la certezza di una riuscita finale, capace di ricuperare tutto il positivo della storia, di riassorbire nella sua positività tutti questi scacchi parziali e di giustificare quindi l'impegno di liberazione anche quando sembra umanamente destinato alla sconfitta e alla frustrazione.
    Non si tratta solo di rendersi conto che ogni morte genera una vita, ma di attendersi dalla propria morte, dal proprio sacrificio, dal proprio impegno, un risultato di vita superiore a tutte le premesse, a tutte le logiche della produttività umana, un risultato di vita descrivibile soltanto con le categorie della partecipazione alla risurrezione di Cristo.
    Il cristiano possiede, nella risurrezione di Cristo, la garanzia che il suo partecipare alla morte di Cristo, attraverso un impegno di liberazione che si fa donazione di sé fino alla morte di sé, produce, in forza del mistero Pasquale di Cristo che opera nel mondo come energia di salvezza, una partecipazione alla risurrezione gloriosa di Cristo nella escatologica rivelazione del suo Regno.

    Si semina nella morte per raccogliere nella vita...

    Come può essere descritta questa partecipazione alla risurrezione di Cristo, questa nostra attesa e sperata risurrezione?
    S. Paolo nella prima lettera ai Corinti descrive il rapporto di questa nuova pienezza escatologica di vita, con quella che l'ha preceduta nel tempo della storia, con l'immagine del rapporto che c'è tra il seme e il frutto. Tra i due c'è appunto di mezzo una morte che non è morte ma germinazione: «Quello che semini non viene vivificato se prima non muore... così la risurrezione dei morti: si semina nella corruttibilità, risorge nell'incorruzione... si semina nella debolezza risorge nella potenza» (1 Cor 15,36-43) .
    Questo significa che il nostro impegno umano di liberazione è il seme da cui germinerà, per l'azione di Dio, la libertà del Regno. Tra il seme e il germe c'è una frattura; l'uno contiene rispetto all'altro un «più» inaspettato e sorprendente. Ma tra i due c'è anche una continuità vitale. Il seme muore; ma non è buttato via, è da esso che germina la nuova vita. Senza di esso non c'è il raccolto. Ma il raccolto è più del seme: è frutto d'una moltiplicazione di vita che viene da Dio.
    Il nostro impegno nel profano, animato dalla fede e dalla speranza, crea il germe di una convivenza liberata, illuminata dalla giustizia, dalla pace, dall'amore di Dio.
    È, un po', quello che dice il n. 39 della GS: «e difatti i beni quali la dignità dell'uomo, la fraternità e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra... li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, ma trasfigurati e illuminati allorché il Cristo, rimetterà al Padre il Regno eterno...».
    È come dire che il nostro impegno per realizzare la fraternità, l'effettiva dignità e la libertà dell'uomo sono costitutivi del Regno. Che nella nuova creazione non ritroveremo, trasfigurato e liberato da ogni ambiguità, se non ciò che avremo seminato nella storia col nostro impegno profano e insieme sacro di liberazione umana.

    CONCLUSIONE

    Il credente, illuminato da questa speranza, lavora insieme con i non-credenti al comune compito della liberazione, con una consapevolezza diversa e più profonda, capace di riconoscere in questo compito un significato ulteriore aperto a una speranza che recuperando e liberando dai loro limiti le speranze puramente umane dei suoi fratelli non credenti, le lancia al di là di tutti i loro più consolanti orizzonti.
    Questo non significa che egli abbia in mano una chiave magica per decifrare il futuro storico. Nello svolgimento della sua professione, nel difficile impegno di assumerla come luogo e strumento di una strategia di liberazione globale, nella soluzione dei problemi morali, politici e tecnici che essa comporta, egli gode solo, in più del suo fratello non credente, di una luce riflessa che gli viene da questa speranza e dalla fede nel Mistero Pasquale.
    Egli è alla ricerca, umilmente disposto a imparare da tutti, ma crede che valga la pena di cercare, molto di più di quanto appaia, a uno sguardo puramente umano, sulla realtà della storia.
    Il Mistero Pasquale di Cristo ha, caso mai, indotto in lui un'istintiva fedeltà al criterio pasquale dell'efficienza liberatrice della croce.
    Egli intuisce che il più esigente, il meno comodo, quello che impegna di più a morire a se stessi, è quello che realizza e libera di più. La soluzione che chiede di morire è quella che promette di vivere.
    Guidato da questa intuizione egli assume la sua professione come il luogo di una donazione di sé agli altri, che fruttifica per la vita, di più di quanto sarebbe umanamente misurabile e attendibile, proprio in forza di questa presenza della Risurrezione di Cristo nel cuore della Storia.


    [1] PH. ROQUEPLO, Esperienza del mondo, esperienza di Dio?, LDC, p. 150 e segg. Ad una lettura attenta di questo testo rimandiamo per una comprensione piena dell'articolo.


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