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    I gruppi ecclesiali a fine-corsa: il problema del «dopo»



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1974-05-75)


    «La vita dei gruppi ecclesiali», il testo di appunti sulla dinamica di gruppo in prospettiva pastorale, nato nel contesto della rivista e cui si è fatto spesso richiamo, si chiude con queste affermazioni: «Importante è sottolineare la necessità che, ad un certo punto, il gruppo "muoia", per rinascere trasformato. Muoia il gruppo come gruppo di stretta appartenenza (con attività specifiche, frequenti momenti di coltivata presenza, ricerca delle interazioni, anche per la gratificazione che offrono...) per rinascere come gruppo di riferimento: gruppo cioè di individui fortemente impegnati, a livelli diversi e in contesti diversi, che si ritrovano ogni tanto ad approfondire la propria fede, a celebrare la propria speranza, a potenziare la capacità di amare» (LDC, 1972, pag. 166).
    Molti gruppi ecclesiali sono giunti a questa soglia.
    E si interrogano sul «dopo».
    Le battute riportate sono troppo generiche per rispondere alle urgenze concrete di questi gruppi.
    Per questo, confrontando esperienza e riflessione, ci e parso utile «continuare il discorso».
    Le pagine che seguono vorrebbero essere un dialogo aperto. Il parere e l'esperienza dei gruppi possono indicare prospettive molto concrete, da far circolare a livello nazionale, attraverso le pagine della rivista.


    Morire per vivere: dal gruppo di appartenenza al gruppo di riferimento

    Abbiamo concluso la «storia» di un gruppo ecclesiale in azione con parole dure: è stata invocata la sua morte, per una vita più vera, aperta, intensa.
    Questa affermazione si trova oggi alla confluenza di molte esperienze giovanili. I gruppi più maturi, quelli che hanno percorso la difficile strada dell'esperienza ecclesiale con una tensione continua di crescita, oggi si interrogano vivacemente sul «dopo»: c'è uno sbocco per la vita di gruppo? Una domanda che non è solo un rincorrersi vuoto di parole. Mille «fatti» le danno spessore concreto.
    Ci sono gruppi che sono morti, disciolti come neve al sole, nonostante il ricco tessuto della precedente vita. Ma non morti «verso la maturità». Semplicemente e brutalmente «esplosi» nel nulla. L'enfasi sui rapporti primari li ha lentamente fagocitati. Il continuo ripiegarsi all'interno, edulcorato di grosse parole, ha spezzato il filo della coesione, quando il crescere degli anni e il fascino dell'esterno ha sconvolto il clima che si respirava dentro.
    Altri gruppi invece sono minacciati di morte, sotto il segno della maturità «politica» acquisita. Gli impegni del gruppo, pur essendo pregevoli e «alternativi», sono sempre un po' adolescenziali: difficilmente mordono là dove si fa la storia. Coloro che, grazie all'impegno sociale vissuto nel gruppo, hanno acquisito una nuova sensibilità e quindi la spinta ad una presenza più tecnica e incisiva, prendono spesso a spallate i confini di tolleranza del gruppo. Vogliono far altro. Più oggettivamente serio. Più sul filo della collaborazione di classe. E il gruppo scricchiola, se è minacciato da un pericoloso principio di autoconservazione all'interno.
    C'è una terza situazione da considerare, per completare la rassegna dei «casi disperati». Altri gruppi hanno compreso la legge della vita: aprire i confini per immettere seriamente là dove, nel quotidiano, ci si gioca a pieno titolo la propria identità. Aprire è diventato per molti, purtroppo, «sparire». Il ritorno al gruppo, per riflettere e celebrare l'impegno, si rarefà sempre più, fino ad annullarsi del tutto. Le linee di forza maturate in gruppo sono assorbite nel vago. Si è scoperta la «storia»: ma si è smarrita la personale identità.
    Radicalizzando i contorni, abbiamo descritto proposte di «sbocco» a carattere patologico.
    Quale «sbocco» maturo prevedere, perché l'esperienza di gruppo non resti una parentesi nella vita, un ricordo d'infanzia?
    C'è uno sbocco per i gruppi giovanili ecclesiali?
    Esistono molte esperienze positive, sulla cui falsariga costruiamo la risposta all'interrogativo.
    Con una semplificazione, il titolo del paragrafo offre già una prima risposta. È indispensabile che il gruppo passi dallo stato di appartenenza a quello di riferimento. Accetti cioè di «morire», come momento di consumazione affettiva-primaria, per «vivere», rinascendo a spazio di continua presa di consapevolezza della propria identità, messa in fase di elaborazione quotidiana.
    Ma non basta un'affermazione del genere, per parlare di cose concrete. Crediamo utile arricchire il termine, indicando tre modalità in cui esprimersi: tre nuove «appartenenze», che proprio perché conflittuali possono essere convissute solo se diventano sfuocate. O, meglio, centrate su una coesione tutta sui valori, piuttosto che sui rapporti primari, per permettere, senza contrasti o preferenze, una retta reciproca circolazione.
    Quali, dunque, questi «momenti»? Li elenchiamo a battute:
    * l'appartenenza al proprio quotidiano storico, come momento in cui si vive a pieno titolo l'«impegno politico»;
    * l'appartenenza ad un piccolo gruppo ecclesiale, per vivere e celebrare l'identità cristiana in vera dimensione esperienziale;
    * l'appartenenza reale alla chiesa (locale e universale), per raggiungere quel respiro di universalità che rende «cattolica» l'esperienza ecclesiale.

    Il quotidiano come luogo dell'impegno politico

    L'adulto è maturo nei termini in cui sa farsi carico del proprio ambiente «quotidiano», avvertendo che, a questo livello, è in gioco la personale identità umana e cristiana.
    Ne abbiamo già parlato molto.
    Alla radice, sta la scelta teologica di rifiutare una fede «per il tempo libero», come premessa alla disintegrazione tra fede e vita, affermando invece l'esperienza storica come momento privilegiato di una seria esperienza di Dio.
    Questi grossi presupposti vanno tradotti nella moneta spicciola dei gesti normali.
    Se il gruppo continua ad invocare all'interno, offrendo proposte alternative a quelle del proprio quotidiano, è davvero difficile tradurre le percezioni in fatti. Il poco tempo disponibile sarà speso sul mercato della più alta gratificazione: e quindi all'interno del gruppo.
    È indispensabile rompere, strutturalmente, i ponti con il gruppo, con le sue attività, per gestire quelle «storiche».
    Si fa strada, inoltre, la inderogabile necessità di una solidarietà di «classe»: di una partecipazione piena all'impegno per la liberazione (quella spicciola del proprio quotidiano e quella globale, con una strategia a cerchi concentrici), con tutti coloro che, a titoli diversi, lottano per realizzarla.
    Il nuovo «gruppo» è quello degli «impegnati»: si fa gruppo con coloro che hanno seria buona volontà, in vista della liberazione. Il confine non passa sulle ideologie, ma sulla disponibilità al servizio.
    Il cristiano è presente da «povero»: senza una sua precisa definita ideologia (se non vuole ridurre la sua fede ad una nuova ideologia, ricostruendo integrismi pericolosi, anche se di segno mutato); senza un modello predefinito, da imporre o proporre. L'unica forza è la sua identità, che non può sottacere né edulcorare per una falsa strategia d'intervento tattico. Dalla sua identità prendono corpo molte sensibilità e un insieme di valori-cardine che la dimestichezza con il Vangelo, nella chiesa, gli dona quotidianamente.
    È difficile spingere il discorso oltre. Perché si ripeterebbero cose già dette per altri contesti. E soprattutto perché ci si muove in un terreno ove la chiarezza è tutta da inventare, sulla falsariga di esperienze significative. Ci basti affermare la necessità di condividere con tutti, nel quotidiano, quella solidarietà che è stata maturata nel piccolo gruppo. E la costante preoccupazione di non svuotare la propria identità riducendola ad un «vestito da festa» che si indossa nei momenti formali.
    Non vogliamo però essere troppo utopici. Molte esperienze ci ricordano che è difficile far convivere le due istanze. Non sempre coloro con i quali si vorrebbe collaborare, per un servizio pieno di liberazione, sono disponibili ad accettare una collaborazione che non significhi annullamento della propria identità per assumerne totalmente l'altrui. Lo scontro è proprio sulle ideologie.
    Anche perché nei terreni concreti delle scelte storiche, rimbalzano sempre di più definizioni ideologiche.
    L'identità, per molti giovani cristiani, è spesso molto confusa e tutt'altro che «sicura». Perché ci trasciniamo ancora in una visione di fede scarsa di presa nel profano. E perché le scelte operative sono tanto brucianti da far saltare molte sicurezze culturali sul «che cosa fare». Per superare questi due rischi, giovani cristiani impegnati in un processo storico di liberazione sentono il bisogno di «incontrarsi tra cristiani» sul piano tecnico della elaborazione di un preciso progetto di azione. Non si tratta di «incontri specificamente ecclesiali»; ma di incontri fra cristiani preoccupati di offrire all'ambiente il peso concreto della loro qualificazione. Per fare il punto sulla situazione; elaborare progetti di intervento; «verificare» la vocazione cristiana in «questo» determinato impegno.
    È evidente che questo modo di fare non vuole riaprire la strada ad istituzioni «tecniche» a carattere confessionale.
    La finalità è - e deve restare - un servizio migliore, vissuto con maggior intensità e qualificazione, senza lasciarsi fagocitare dall'istintivo e dall'immediato. È, forse, questa istanza la traduzione operativa della vocazione alla umanizzazione e liberazione che la Chiesa ha in comune con tutti gli uomini di buona volontà, per aiutarli ad essere davvero capaci di superare assolutizzazioni e idolatrie, che renderebbero retorici i sussulti di liberazione.

    Il piccolo gruppo ecclesiale come esperienza di chiesa

    Il cristiano ha bisogno di vivere e celebrare la sua fede a pieno cuore. Ne ha bisogno, come l'aria che respira, per conservare una mentalità di fede, speranza e carità, in un contesto culturale che lo intossica.
    Fuggire dal quotidiano è tradire la personale identità. Non «recuperare» però in un momento privilegiato, conduce inesorabilmente a svuotare la identità.
    I giovani più sensibili e più immersi nell'impegno profano, oggi lo avvertono come esigenza irrinunciabile. È così facile svuotarsi, stemperando nel vago e nel generico ciò che dovrebbe invece dar forza. Non è un ritorno al caldo, come alternativa alla mischia della vita.
    Ma un ritorno per il «servizio»: per un servizio pieno e qualificato, vissuto cioè con il peso profondo della personale identità.
    Se queste riflessioni sono vere, aprono spontaneamente il discorso sulla necessità di «un piccolo gruppo» a chiare tinte ecclesiali, come vera e arricchente esperienza di fede.
    L'accento sul «piccolo gruppo» è motivato dall'urgenza di poter vivere al livello esperienziale la Chiesa, dal momento che le grosse strutture ecclesiali non sono più in grado, normalmente, di gestire questa esperienza. Il piccolo gruppo è il luogo della esplicita riflessione di fede, della celebrazione dell'eucaristia, della crescita nella speranza, dell'esperienza calda di comunione e di amore, dell'attenta verifica sulle scelte storiche operate, alla luce della Parola di Dio.
    Perché l'esperienza ecclesiale in questo piccolo gruppo sia vera va coltivato un doppio continuo movimento: dall'esterno all'interno e dall'interno all'esterno.
    - La vita storica rimbalza all'interno del gruppo:
    il gruppo «vive», collegando le varie esperienze storiche dei membri con la radicale unificante scelta di fede.
    Questa confluenza assicura il pluralismo nel gruppo, perché i giovani giungono da «quotidiani» diversi, con scelte operative diverse, con «vocazioni» diverse. Nel pluralismo si crea quella «difficile comunione» che caratterizza il divenire continuo della chiesa.
    Il materiale che il gruppo macina, in chiave di fede, è estremamente concreto. Perché il «corpo» in cui incarnare la fede e la speranza è la vita di ciascuno nella storia.
    Pluralismo e storicità fanno del gruppo una «chiesa seria»: aperta, inserita, ma esplicitamente protesta a celebrare l'amore del Padre, in Cristo e per lo Spirito.
    - La serietà del processo centripeto (dalla vita all'interno del gruppo) si verifica nel processo opposto:
    dal gruppo alla vita, in stato di missione testimonianza.
    E questo, normalmente, nel quotidiano di ogni membro del gruppo. In casi di particolare impegno, come proposta di gesti concreti che il gruppo intende porre, come «chiesa provocata dalla storia».
    Di fronte a situazioni di particolare peso e di notevole chiarezza, dove il Vangelo e la fede hanno qualcosa di preciso da dire, senza correre il rischio di ideologizzarsi, il gruppo ecclesiale può (e deve) prendere posizione decisa, in quanto comunità ecclesiale, che sente una vocazione storica per fedeltà alla sua identità. Una posizione non solo «culturale»: di denuncia o di affermazione. Ma anche immediatamente operativa, tale da passare all'azione concreta, in quanto «gruppo ecclesiale». Certo non saranno gesti strettamente tecnici, né politici nel senso più pieno del termine (di questi ciascuno è responsabile, a titolo personale-profano). È la chiesa che sente una provocazione alla sua identità, nella realtà in cui è immersa e che decide una presenza viva e vera, particolarmente «profetica».

    L'appartenenza alla chiesa locale

    La chiesa, nella sua più radicale verità, non coincide con il piccolo gruppo ecclesiale.
    È perciò indispensabile evitare la riduzione della totalità dell'appartenenza alla chiesa, alla semplice esperienza del piccolo gruppo. Vanno quindi previsti «collegamenti» organici e «condivisi».
    La parrocchia e la chiesa locale sono il punto di confluenza normale di ogni «onesta» esperienza ecclesiale.
    Alcune piste possono suggerire un cammino:
    * Nella parrocchia trova spazio un «servizio» a tutta la comunità parrocchiale, rispettata in quel pluralismo di appartenenza e di maturità di fede che contraddistingue la chiesa.
    Si pensi, per esemplificare, al servizio che alcuni giovani possono offrire ai «piccoli», per la loro animazione cristiana: è un gesto che richiede strutturalmente il coinvolgimento della «parrocchia».
    * Nella parrocchia trovano spazio momenti di «comunione» con tutti (incontri di preghiera, celebrazioni eucaristiche domenicali, partecipazione a programmazioni...). Nel popolo di Dio nessuno ha diritto di consumare i doni che ha ricevuto, al chiuso della propria stanza. Ogni talento è una responsabilità, da «condividere» con coloro che ne sono privi.
    * Nella parrocchia, infine, trovano spazio momenti di «confronto» (sia come fatto istituzionalizzato: consigli pastorali; che come fatto più spontaneo: incontri di riflessione). La convergenza di esperienze diverse apre a quel «contrappeso di valori», tante volte raccomandato, come correttivo indispensabile all'integrismo e all'impoverimento, legato alla assolutizzazione delle personali scelte.

    Una saggia strategia per eliminare la retoricità

    Le storie di molti gruppi confermano la tentazione della retoricità. Sono partiti decisi ad operare un buon missaggio di queste tre appartenenze; poi, lentamente, hanno tirato i remi in barca e tutto si è concluso nel vago. Abbiamo la convinzione che non basta accettare la proposta, sulle ali dell'entusiasmo. Ci sono rischi incombenti, capaci di vanificare ogni buona volontà non concretizzata in scelte strutturali.
    Per evitare di incapparvi, può essere utile elencarli: averli davanti agli occhi a freddo permette un controllo più facile.

    - Il rischio del riduzionismo
    Si può lentamente giungere a far coincidere una appartenenza con la totalità delle altre, svuotando quindi la globalità del progetto. E, quel che è peggio, slittando verso pericolosi errori teologici.
    Il quotidiano storico è un fatto profano: non coincide immediatamente con la chiesa. Come l'esperienza di chiesa non può «sacralizzare» l' impegno storico nel profano.
    Nell'un caso e nell'altro, è in atto un processo di integrismo: o si fugge dal quotidiano o lo si clericalizza.
    Lo stesso discorso va fatto a proposito della doppia appartenenza ecclesiale: la chiesa è esperienza, ma non coincide con l'esperienza. Quindi non si può ridurre il piccolo gruppo a unica dimensione di chiesa, né rifiutarlo per una falsa pretesa di universalismo ecclesiale.

    - Il rischio della scomunica
    Sulla carta è possibile parlare di piena circolazione di esperienze. I fatti, però, sconfessano presto una teoria così stemperata e impersonale. La ricchezza irrepetibile di ogni persona conduce spontaneamente a privilegiare uno spazio, restringendo l'altro. L'ampiezza del servizio è favorita proprio dalla specializzazione delle diverse «vocazioni».
    Troppe volte, però, su questa piattaforma si giudicano gli altri, sparando scomuniche a coloro che hanno privilegiato opzioni diverse dalla propria. Pluralismo e contrappeso di esperienze diventano parole vuote.

    - Il rischio della disintegrazione
    Le appartenenze ipotizzate sono necessariamente «conflittuali». Saldarle non è impresa facile.
    Anche perché il punto di sutura non è tecnico ma esistenziale. È nell'identità profonda di ogni persona.
    Da qui il rischio della disintegrazione, che porta ad agire a compartimentistagno (senza sutura tra un'appartenenza e l'altra) o, peggio, a marginalizzarne una per permettere il collegamento operativo con le altre (la fede o l'impegno politico diventano fatto «privato»; l'esperienza nel gruppo o l'inserimento nella struttura ecclesiale fatto esteriore, una tassa che si paga, per non aver grane).

    - Il rischio dello spontaneismo
    Una saggia circolazione delle appartenenze richiede il superamento dello spontaneismo, per approdare alle sponde tecniche di una sana programmazione e di una continua revisione sulle motivazioni.
    Vanno previste «strutture» di appoggio, progetti precisi e controllabili, verifiche periodiche.
    Altrimenti, presto, tutto crolla, sotto la spinta delle tensioni che facilmente si scateneranno all'interno di ciascuno, trascinato a far convivere in sé aspetti e indici per definizione conflittuali.

    Verso una «nuova» comunità?

    A conclusione, capovolgiamo il discorso.
    Siamo partiti da un'affermazione «dura»: la necessità che il gruppo ecclesiale muoia, per aprirsi ad una nuova vita.
    Alcuni gruppi stanno scoprendo una strada diversa, che mette radicalmente in crisi l'ingranaggio che abbiamo elaborato.
    Un servizio di impegno nella struttura pastorale, l'assunzione di una responsabilità notevole nei confronti del quartiere, una precisa scelta per í poveri, una identità cristiana maturata a livelli di larga profondità... conducono alcuni gruppi a parlare di «vocazione» alla comunità.
    Il gruppo non muore. Diventa «comunità» di vita: qualche volta, con il pieno tempo. In questa comunità trovano spazio adulti e giovani, provocati dall'unico amore che li ha decentrati verso il servizio. Che dire? È certo un discorso molto importante, questo. È il segno della presenza dello Spirito, che risuscita il fervore pentecostale della Chiesa degli Atti. Nei termini in cui l'esperienza è matura, teologicamente e psicologicamente, essa è un dono: alla chiesa e al mondo.
    Per essa, le analisi tecniche sono inadeguate: la dinamica di gruppo si arrende. Perché la strumentazione umana è incapace di sfiorare il mistero dell'essere in comunione per dono del Padre.
    Non tutti i gruppi che fanno discorsi del genere, hanno però le carte in regola: le grosse parole mascherano vuoti teologici e ansie psicologiche preoccupanti. È indispensabile che il gruppo, prima di ingolfarsi nelle facili disquisizione, abbia il coraggio di guardarsi allo specchio: della fede e della storia. Decida lentamente. A fatica. Per evitare aggressività e dipendenza, sbocchi utopici e alti proclami, che tutto sono, eccetto «liberazione».
    Se queste pagine hanno stimolato il confronto e hanno messo in forse 1e facili conclusioni, non sono state inutili.


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