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    Evangelizzazione e realtà profane



    Guido Gatti

    NPG (1974-02-74)

    Evangelizzazione e realtà profane: un tema a dir poco insolito. E infatti, quando si parla di evangelizzazione lo si fa generalmente in riferimento a un triplice ordine di problemi:
    · quello dei contenuti: cioè che cosa annunciare, quale priorità accordare ai diversi elementi del kerygma;
    · quello dei destinatari: chi sono, qual è la loro struttura mentale, i loro interessi, le loro attese, i loro condizionamenti;
    · infine quello delle modalità concrete e della metodologia: come annunciare in modo da essere ascoltati e da convertire, come provocare negli ascoltatori la fede.
    Si tratta indubbiamente di problemi seri e fondamentali. Ora in nessuno di questi problemi trovano posto le realtà profane. Proprio perché profane, sembra che esse non abbiano nulla da vedere con i problemi dell'annuncio di una salvezza che si qualifica come essenzialmente religiosa. Su di esse non ci sono, a proposito di evangelizzazione, domande da fare né risposte da dare; appartengono a un altro ordine di problemi.
    A dire la verità, la scuola, di cui noi ci stiamo occupando, fa in un certo senso eccezione. «Scuola ed evangelizzazione» non è un tema del tutto insolito.
    Ma proviamo a guardare come entra la scuola nella problematica dell'evangelizzazione: non certo con i suoi problemi profani specifici; ma come una occasione privilegiata di evangelizzazione; non con la sua realtà complessa, con il suo carattere di carrefour della cultura profana e di punto nodale di emergenza dei problemi e delle contraddizioni della società, ma solo con la materialità dello spazio che essa offre all'annuncio. Si direbbe che questo spazio la scuola lo alieni per poterlo offrire all'annuncio del vangelo. L'evangelizzazione acquista nel paese «scuola» un diritto d'asilo, ma non un diritto di cittadinanza; essa vi resta estranea, non vi si incarna, non ne assume i problemi, le speranze, il destino.
    La diversa valutazione delle realtà c.d. profane, cioè del mondo, della storia, della politica, della cultura che la Gaudium et Spes impone alla riflessione di fede, dovrebbe comportare a dire la verità, oltre che una diversa impostazione dei rapporti fede-mondo, una riconsiderazione del posto che le realtà profane devono avere nella problematica dell'evangelizzazione.

    LE REALTÀ PROFANE E L'EVANGELIZZAZIONE

    Il nostro tema ha quindi una sua validità e una sua rilevanza.
    Ne troviamo la prova in una affermazione, che credo fondamentale, del documento di base per «il rinnovamento della catechesi»:
    «Chiunque voglia fare all'uomo di oggi un discorso su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell'esporre il messaggio. È questa del resto esigenza intrinseca per ogni discorso cristiano su Dio. Il Dio della rivelazione infatti è il «Dio con noi» il Dio che chiama, che salva e dà senso alla nostra vita; e la sua parola è destinata a irrompere nella storia, per rivelare a ogni uomo la sua vera vocazione e dargli modo di realizzarla» (77; cf 121 e 122).

    Precomprensione della parola di Dio

    Proviamo ad analizzare il contenuto di questa affermazione. Il dover partire dai problemi umani (prendendo quindi sul serio la loro normale dimensione profana), per poter fare all'uomo un discorso su Dio, è detto, non tanto ammenicolo per suscitare l'interesse e l'ascolto, ma «esigenza intrinseca di ogni discorso cristiano su Dio». Esigenza intrinseca significa esigenza legata alla stessa natura di questo discorso. Il documento fa appello, per comprendere questo legame, al carattere incarnato di questo discorso: «Il Dio della Rivelazione è infatti il Dio-con-noi», la sua parola irrompe nella storia. Ogni rivelazione è quindi in un certo senso incarnazione e ubbidisce alle leggi dell'incarnazione. La Parola di Dio non può rivolgersi all'uomo senza farsi insieme parola sull'uomo e parola dell'uomo. La parola dell'uomo non è più perfettamente separabile dalla parola di Dio. La parola di Dio ubbidisce alle leggi del linguaggio umano, ne assume i limiti e le categorie espressive.
    La parola di Dio ci può dire qualcosa, è parola per noi, cioè messaggio, lieta novella, solo se parla il nostro linguaggio, si riferisce alle nostre esperienze, assume queste nostre esperienze, anche profane, come categorie espressive del suo annuncio.
    Ma allora queste esperienze, proprio nella loro profanità diventano il fondamento della nostra comprensione del messaggio di Dio. Il vangelo non diventa significativo per noi, se non alla luce di queste esperienze. Esse gli danno senso. Diventano cioè un fondamento indispensabile della semantica della parola di Dio; una sorta di ineliminabile precomprensione con cui ci accostiamo a questa parola e la facciamo parola-per-noi. Se Dio non può parlare all'uomo che parlando le parole dell'uomo, pensando i pensieri dell'uomo, riferendosi alle esperienze dell'uomo, queste esperienze diventano la chiave ermeneutica indispensabile per la comprensione del messaggio di Dio, perché le parole e i pensieri dell'uomo hanno senso solo in riferimento a queste esperienze. Ecco allora che le realtà profane diventano, come dice il documento citato, «un aiuto a capire Cristo e in Cristo a rendere più vicino e comprensibile Dio». Il sinodo dei vescovi nel documento Giustizia e Pace dice, di realtà chiaramente profane come l'agire per la giustizia e la trasformazione del mondo, che esse «ci appaiono chiaramente come dimensione costitutiva della predicazione del vangelo» (Introduzione) .
    Di questo rapporto semantico tra realtà profane e parola di Dio facciamo solo un esempio ma molto significativo ed attuale. Esso riguarda la c.d. «teologia della speranza o della liberazione». Esse non fanno che utilizzare una esperienza vivissima dell'uomo di oggi, quella delle lotte di liberazione, dell'apertura verso il futuro attraverso la speranza progettuale e la rivalutazione dell'efficacia creatrice e rinnovatrice delle utopie, per rendere comprensibile all'uomo di oggi il messaggio escatologico della bibbia.
    Facendo questo non commettono nessun arbitrio. Si servono di una consonanza intrinseca che esiste tra il linguaggio delle speranze umane e quello della speranza escatologica, e che fa di queste speranze umane una precomprensione obbligata della speranza cristiana, oggi. Comprendere che cosa significa per noi l'invito evangelico a sperare «nelle meraviglie del secolo futuro», vivere l'incontro con Cristo come un'esperienza di redenzione e liberazione è possibile a noi oggi, solo partendo da un'esperienza illuminante delle speranze e della progettualità umana, delle schiavitù terrene in cui si oggettiva il peccato del mondo e delle lotte di liberazione che caratterizzano la storia del nostro tempo. La teologia della speranza e della liberazione evidenziano una corrispondenza strutturale preesistente tra queste esperienze in sé profane e la dimensione escatologica della fede. È questa corrispondenza a fare delle esperienze profane una necessaria precomprensione e una chiave ermeneutica del messaggio. E non è stato forse facendo riferimento ad altre analoghe esperienze profane che la parola di Dio è venuta all'uomo nella storia della salvezza inserendosi ad esempio in altri processi storici di liberazione? Per questo esso è, oltre che divina, anche pienamente umana, solidale con tutta la nostra storia e con tutto il nostro mondo di uomini, al di fuor del quale non ha senso e non può essere capita.

    Luogo privilegiato dell'incontro con Dio

    Ma le realtà profane non sono solo una chiave interpretativa sia pure indispensabile della Parola di Dio. Sono anche l'argomento di cui questa parola ci parla. La Parola di Dio ci illumina a proposito di esse. Non tanto per sostituirsi alla nostra ricerca profana nella comprensione della loro autonoma consistenza e dei loro dinamismi creaturali, quanto per rivelarci il loro ultimo significato e la loro più vera speranza, alla luce delle intenzioni salvifiche di Dio. L'incontro con Dio, che l'evangelizzazione annuncia e in cui si attua la nostra salvezza, si realizza proprio (assai più che nell'ascolto specifico e categoriale di questa parola) nell'impegno profano nel mondo, vissuto in atteggiamento di fede.
    La descrizione del giudizio universale riportata da Matteo (c. 25) ci dice chiaramente che il luogo concreto della mia risposta di fede e della mia dedizione di amore al Dio che si è rivelato in Cristo è la dedizione, in sé profana, al fratello bisognoso. Una dedizione che assai più che in una elemosina occasionale e supererogatoria si attua nel mio impegno politico, sociale, di lavoro, di professione. È nei fratelli più che nei riti religiosi che io incontro Dio. Ma i fratelli li incontro nelle realtà c.d. profane. La parola di Dio mi rivela il senso supremo e la vera realtà di questa mia dedizione umana e del mio impegno profano, ma non si sostituisce ad esso.
    Se crediamo al racconto di Matteo, il rito religioso e l'incontro esplicito e categoriale con la Parola di Cristo, o la conoscenza concettuale di Dio potrebbero anche mancare; ma io incontro Dio magari nelle tenebre dell'errore e della ignoranza, e mi do veramente a lui, se mi do veramente ai fratelli nell'impegno terreno, con una autentica scelta di amore che è anche una scelta di fede implicita, o come si dice oggi, anonima.

    Materia e sacramento del regno

    La GS ci dice infine che «i beni quali la dignità dell'uomo, la fraternità e la libertà, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, ma illuminati e trasfigurati, allorché il Cristo rimetterà al Padre il Regno eterno ed universale».
    Le realtà profane quindi, poiché di realtà profane si tratta (la GS le chiama «buoni frutti della natura e dell'operosità dell'uomo») sono in qualche modo materia del Regno; gli appartengono; entreranno in esso come il luogo concreto del farsi dell'uomo, come il vero corpo della storia umana, diventata in Cristo storia di salvezza. E nulla lascia credere che esse siano per il Regno un lusso supererogatorio, un ornamento superfluo.
    Esse ne sono il costitutivo necessario. La dignità dei figli di Dio, la libertà e la fraternità del Regno escatologico sono, trasfigurate naturalmente e liberate dalla loro ambiguità, la dignità, libertà e fraternità che l'uomo avrà realizzato sulla terra. È come se la GS dicesse che non ritroveremo nel Regno di Dio se non quella libertà, dignità umana, fraternità universale che avremo realizzato nella storia. Le ritroveremo trasfigurate, di una trasfigurazione che sarà frutto di un intervento trascendente di Dio; la loro salvezza non sarà solo il frutto del dinamismo storico dell'uomo ma non le ritroveremo se non le avremo seminate pur nelle ambiguità e nei limiti della nostra condizione attuale.
    Annunciare la salvezza è annunciare un surplus di significato, di speranza, di riuscita, ma annunciarlo proprio delle realtà umane che crescono nella storia, che possiedono quindi un loro peso di eternità. C'è quindi una certa continuità (oltre che una certa discontinuità) tra queste realtà profane e la gloria del Regno: per questo il mondo dell'uomo già «riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo» (GS 38).
    Se accolgo il messaggio, credo che i miei compiti profani hanno un destino di eternità; costruire la città terrena diventa costruire una prefigurazione e una realtà costitutiva nel Regno.

    EVANGELIZZAZIONE E PROMOZIONE UMANA

    Che l'uomo realizzi se stesso nella storia, oppure che, tradendo la sua missione e i suoi compiti di uomo, fallisca questa sua crescita storica nel mondo, non è più qualcosa di indifferente per il vangelo. La salvezza è salvezza della storia; certo al di là delle attese e delle possibilità dell'uomo, ma comunque salvezza di ciò che queste possibilità, liberate da Cristo, avranno di fatto realizzato.
    L'annuncio della salvezza non può prescindere da questa realizzazione o evitare di prenderla a cuore. Non avrebbe senso annunciare la salvezza di una realtà che non ci si preoccupa di costruire, annunciare il surplus di senso, il peso di eternità di un mondo di cui si ignorano o si tradiscono i dinamismi di crescita, da cui ci si tiene comodamente in disparte. L'evangelizzazione scadrebbe in questo caso a verbalismo, equivarrebbe cioè al proferimento di parole senza senso, che tradiscono se stesse nel mentre sono pronunciate.
    Annunciare che l'incontro con i fratelli è incontro con Cristo è cosa senza senso se non viene fatta al di dentro di una esperienza contagiosa di dedizione umana. Annunciare che l'uomo è chiamato alla dignità di figlio di Dio è verbalismo vuoto se non è accompagnato da una azione tesa a dignificare l'uomo, a restituirgli la sua dignità di uomo. Ora è al di dentro delle realtà umane che si fa la dignità dell'uomo e si realizza l'incontro coi fratelli. E non solo al di dentro di queste realtà, ma anche rispettando la loro autonomia funzionale.
    Autonomia funzionale significa rispetto delle leggi interne e profane di queste realtà. Esse sono abbastanza cristiane quando sono abbastanza se stesse, cioè abbastanza umane, capaci di servire e di realizzare l'uomo. «Tutte le realtà che costituiscono l'ordine temporale - dice l'AA - ... non sono soltanto mezzi con cui l'uomo può raggiungere il suo fine ultimo ma hanno un valore proprio... in forza del rapporto che hanno con la persona umana a servizio della quale sono state create».

    Evangelizzazione e promozione umana nella scuola

    Ma veniamo alla scuola. Poche realtà profane sono così decisive per l'umanizzazione dell'uomo, per la maturazione della personalità, per la crescita della società. Non per nulla essa è il primo campanello d'allarme di ogni disfunzione sociale e il luogo privilegiato di ogni rivoluzione culturale.
    Servirsi della scuola per annunciare la salvezza dell'uomo, senza farsi pieno carico dei problemi dell'uomo che emergono in essa, è di nuovo verbalismo alienante. La scuola deve prima essere se stessa, un fatto globale di promozione umana; e poi ma solo secondariamente luogo, magari anche privilegiato, dell'annuncio del senso ultimo di questa promozione umana.
    La presenza cristiana nella scuola, del singolo come della comunità ecclesiale, dovrà essere prima di tutto un prendersi cura dell'uomo e della sua crescita personale e sociale. Essa potrà anche tradursi in un annuncio diretto del messaggio ma solo nella misura in cui questo annuncio sarà la risposta a una domanda che una testimonianza a favore dell'uomo avrà fatto sorgere nei destinatari di questo annuncio. Il cristiano testimonia Cristo nella scuola prima di tutto lasciandosi implicare senza riserve nei problemi umani della scuola; cercando di fare di essa un fatto di promozione umana in atto, una promozione autentica, seria, globale, aperta naturalmente al trascendente nel senso che verrà chiarito in seguito.
    Spesso un annuncio diretto non sarà neppure possibile o opportuno. E comunque esso non avrebbe senso, se non a partire da questa implicazione piena e leale nei compiti profani della crescita umana.
    Far crescere l'uomo vuol dire coinvolgerlo in un autentico amore e in una vera dedizione ai fratelli. Ma questo è già fargli incontrare Cristo anche senza chiamarlo una sola volta per nome; è dargli la sostanza della salvezza anche senza dargliene la esplicita concettualmente perfetta consapevolezza.
    Del resto coloro che con la mia testimonianza di dedizione disinteressata saranno stati coinvolti da me in una autentica esperienza di amore cercheranno essi stessi questa consapevolezza di fede, domandandomi conto, come dice Pietro, della mia speranza. Allora verrà l'annuncio esplicito, non come intrusione verbalistica dall'esterno della vita, ma come parola piena di senso perché agganciata a una autentica esperienza, di cui svelerà il significato ultimo e la dimensione più profonda.
    Ma se questa domanda sul senso divino di questa crescita umana nell'amore non venisse mai (e nel nostro mondo secolarizzato non è un'ipotesi improbabile) non dovrò sentirmi frustrato, perché non avrò perso il mio tempo.
    Prima di tutto perché, se credo davvero, so che l'uomo merita tutta la mia dedizione anche solo come uomo; e poi perché so che esso è già salvo di quella salvezza che io volevo annunciargli, se il mio impegno umano e la mia testimonianza lo ha veramente umanizzato e aperto all'amore e ai valori della dedizione umana.
    Si parla di umanesimo aperto al trascendente come del senso stesso della scuola in quanto realtà profana. Potrà sembrare questo un obiettivo troppo piccolo o troppo umano per delle persone che hanno lasciato tutto perché chiamati a portare al mondo la buona novella. In realtà un umanesimo aperto al trascendente, cioè un umanesimo vero, non soltanto critico delle sue pretese di autosufficienza ma soprattutto aperto agli orizzonti pasquali dell'amore, è un umanesimo che Dio in Cristo ha già salvato.
    L'annuncio di questa salvezza è certamente cosa di grande rilievo e merita attenzione e cure intelligenti ma non può essere l'unico obiettivo né tanto meno la sola misura del successo dei nostri sforzi. Il vero obiettivo è la salvezza stessa, cioè un autentico incontro con Dio nella dedizione ai fratelli e nell'impegno profano nel mondo. Una simile salvezza giunge anche dove non giunge il vangelo, portata dall'azione dello Spirito che opera nel cuore di tutti gli uomini. Annunciare la salvezza è certamente un obiettivo importante ma aprire a questa salvezza viene prima ed è ciò che conta davvero. E aprire a questa salvezza comporta il prendere sul serio fino in fondo i problemi profani della crescita umana nella scuola.


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