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    Evangelizzare le pratiche religiose



    Vittorio Morero

    (NPG 1974-9/10-86)

    La preghiera fa il cristiano: è elemento costitutivo della sua specifica identità. Quindi la preghiera è momento indispensabile nella scuola di fede.
    Sul tema abbiamo già scritto una monografia (1972/12) sottolineando soprattutto le istanze educative.
    Ci pare importante, però, in questo contesto riprendere il discorso per costruire un fondale teologico corretto: quale preghiera è «cristiana u?
    L'autore accenna a moltissimi stimoli, riconducendo in una sintesi ben articolata, intuizioni e riflessioni disciolte spesso sulle pagine della rivista.

    C'è nel Vangelo una novità di stile e di sostanza che riguarda anche la pratica cultuale, la preghiera, l'incontro con Dio, la mediazione liturgica. Gesù ha evangelizzato anche questo aspetto della vita religiosa, ponendosi in assoluta alternativa ad un modo idolatrico e pagano di essere religiosi.
    È indubbio che l'evangelizzazione dei sacramenti e della pietà liturgica o extraliturgica discende immediatamente da questo annuncio. S'intende che questo annuncio va conosciuto e attualizzato, anche attraverso un processo autocritico.

    L'ANNUNCIO FONDAMENTALE

    Fondamentale e rivoluzionaria è innanzitutto nel Vangelo la visione nuova del rapporto fra l'uomo e Dio. Nelle religioni contemporanee a Gesù e nella sacralizzazione pagana di oggi, l'uomo arriva alla Divinità in luoghi precisi, attraverso persone qualificate alla mediazione e soprattutto attraverso oggetti ritenuti sacri o magici.
    Gesù annuncia invece un nuovo culto in spirito e in verità. Qualsiasi luogo o tempo o condizione umana, è luogo e tempo d'incontro con Dio. Infatti l'incontro dell'uomo con Dio si realizza nell'avvenimento nuovo della incarnazione. Gesù è l'inviato per l'incontro. Egli è perfino nella sua struttura individuale e personale, nella sua missione, nelle sue opere, il quotidiano incontro di Dio con l'uomo. Entrare infatti nella logica di Cristo, giocando la nostra esistenza sulla sua vita attraverso il dono della fede, significa collocarsi di fronte a Dio in amicizia, in intimità, in dialogo continuo.
    Il primo ad avvertire questo radicale cambiamento è Giovanni il battezzatore. Il suo battesimo di acqua è l'ultimo segno di una religiosità che si ferma alla sola promessa, al simbolo, alla mediazione remota. «Quanto a me - così avverte i suoi discepoli - io vi battezzo con acqua perché vi pentiate... egli vi battezzerà con Spirito e fuoco» (Mt 3,11-12).
    Sarà poi Cristo a precisare questa rivoluzione, allorché annuncerà a Nicodemo che è Lui stesso, il Figlio dell'uomo, colui che sostituirà il serpente di bronzo nel deserto, «affinché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» e ai discepoli a Cafarnao promette la sostituzione del cibo della manna col suo cibo.
    Entrare infatti nella logica di Cristo significa conoscere il Padre e conoscere del Padre il disegno unico e irrepetibile: che ogni uomo è amato da Dio e in ogni uomo dimora il suo Spirito che ascolta, invoca, propone, dialoga e prega.
    Sul piano pedagogico cristiano tutta questa novità potrebbe essere riformulata in questa maniera: noi non preghiamo per incontrare Dio, noi incontriamo Dio per essere uomini di preghiera. La fede anticipa la pietà, genera la pietà, orienta la pietà, fa della vita intera un inno di lode al Signore.

    LA PRIMA ATTUALIZZAZIONE

    Senza dubbio dobbiamo ammettere che il cristiano è uomo di orazione, di culto; egli non disprezza i segni della sua religiosità, ma ciò avviene nella prospettiva della fede. Questa prospettiva di fede che deve orientare ogni attività di orazione, non è facile articolarla. Possiamo accontentarci di alcune indicazioni.

    Una priorità

    È innanzitutto prioritaria nella preghiera cristiana la Parola di Dio. È infatti la Parola di Dio la forza che ci svela l'Amore di Dio e ci rende, nella nostra accondiscendenza, capaci di ricevere lo Spirito. «Chi è da Dio ascolta le parole di Dio; ecco perché voi non le ascoltate, perché non siete da Dio» (Giov 8,47). «È lo Spirito che vivifica, la carne a nulla giova; le parole che vi ho detto sono spirito e vita» (Giov 6,63); «In verità in verità vi dico, chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna...» (Giov 5,24). Se dunque nella Chiesa deve esserci una regolamentazione della pietà liturgica ed extraliturgica e insieme una invenzione di preghiera, queste due operazioni trovano il loro fondamento nella Parola da ascoltare. Tutte le volte che preghiamo fuori da uno schema biblico, è facile cadere in un vuoto formalismo o in una sterile fantasia. Qui non si tratta solo di «ortodossia» o dell'esigenza, che pure è importante, di pregare con la Chiesa e quindi in assemblea, ma si tratta di comprendere il primo movimento della preghiera la quale appunto, come quella di Cristo, è ubbidienza consapevole e fiduciosa alla volontà del Padre. Infatti i cristiani pregano per essere illuminati ed entrare nello stesso mistero di Dio con confidenza e speranza. «Non vi chiamo più servi ma amici» e gli amici ascoltano la sua parola.
    Le pratiche religiose di una comunità giovanile oscillano quasi sempre fra questi due abissi: o si è giunti a soffocare l'ispirazione diventando un club di gente stanca, spenta, formalista e furba o si è costituito improvvisamente un agglomerato di originali che rovinano invece di edificare. Per evitare questi due abissi sarà dunque necessario collocare la Parola di Dio in mezzo.
    Preghiera che diventa profetismo. Senza dubbio la preghiera-profezia non si limiterà ad un ascolto anche pio della Parola nel suo suono letterale, ma, proprio perché noi crediamo nell'atto stesso che ci mettiamo a pregare che lo Spirito Santo è in noi, dovremo lasciarci trascinare da questa Parola come dallo Spirito di vita. La profezia è infatti l'interpretazione della volontà di Dio in un particolare momento; è il capire la storia alla luce della parola di Dio e fare con essa quel discorso di cui gli uomini hanno allora bisogno, capace di disincagliare il loro cammino da una difficoltà in cui siano caduti per stoltezza; o di additare la direzione in cui possono procedere, percorrere quella strada che il volere di Dio ha tracciato loro.

    Nessun automatismo

    I segni e le parole della pietà cristiana sono relativi alla persona di Cristo Signore. Non c'è nessuna magia o automatismo soprannaturale nel pellegrinaggio che si sta per fare, nell'acqua del battesimo che si amministra, nella cena eucaristica a cui assistiamo e prendiamo parte. La forza dei sacramenti e delle pratiche di pietà non sta nei segni stessi che compiamo, ma nella forza della presenza di Cristo. Ora siccome la presenza di Cristo e la sua opera salvifica precedono ogni nostro desiderio od ogni nostra fedeltà, la chiesa ha inteso affermare questa presenza salvifica indefettibile del Salvatore parlando di virtù propria dei sacramenti (ex opere operato), come c'è una virtù propria nell'ascolto della Parola di Dio, per virtù dello Spirito promesso.
    Questa verità obiettiva nulla toglie al dinamismo esistenziale di un incontro che dovrà avere sempre un suo futuro di immediato impegno. Neppure nella vita sacramentale il mistero di Dio è intieramente tolto. È necessario prolungare il rito con una pietà interiore e una pratica morale (la opzione testimoniale del cristiano). È la grande lezione dei profeti, quella su cui ritornarono incessantemente. Dividere il soggetto umano, tollerare un omaggio delle labbra e dei gesti liturgici smentiti da tutta una condotta, è per essi un «abominio». Far conto su una efficacia automatica dei sacramenti o di altri atti di culto per l'espiazione dei peccati o per accattivarsi il favore divino è illusione, quando addirittura non è ipocrisia cosciente. Il Nuovo Testamento riprende questa esigenza di verità: termine con cui bisogna intendere la sincerità che non smentisce, con la condotta e i sentimenti interiori, il segno della cerimonia, e insieme l'esigenza di un superamento: il sacrificio interiore deve andare più lontano, deve essere meno generico del sacrificio esteriore. L'Eucaristia non è solo lo spezzare il pane in quel momento, l'assemblea liturgica non è solo la comunione di quell'ora. Ma è un segno sacramentale che si fa storico con configurazioni storiche che possono e devono essere inventate. È per questo che Gesù condanna i farisei con le parole di Isaia (29,13): «Questo popolo mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me» (Mt 15,8-9).

    La vita come culto

    C'è infine una misura evangelica del nostro pregare che va attuata sempre in ogni circostanza e nell'esistenza globale dei singoli e della comunità. Questa misura evangelica è appunto una fede vissuta. Noi preghiamo anche per celebrare una testimonianza già data e una testimonianza da dare. Il vero culto a Dio è la nostra fede. Non si prega per accostare il sacro al profano o per trovare uno spazio sacro di luogo o di tempo nel contesto delle attività umane. Si prega per celebrare queste attività umane nella misura in cui esse hanno realizzato il compimento del Regno o si avvicinano a questo compimento. La crisi della preghiera è senza dubbio in buona parte frutto di una divisione fra preghiera e vita, fra fede e politica, fra celebrazione e impegno, fra dogma e problema, fra eucaristia e comunità sociale. Coloro che sono riusciti in questi anni a congiungere questi frammenti e a fare la sintesi fra vita e preghiera, l'hanno fatto in base ad una scoperta: hanno capito che gli uomini non sono soltanto soggetti di preghiera nella misura in cui parlano a Dio o Lo ascoltano, ma sono coinvolti nella preghiera come manifestazione dell'oggi di Dio, o almeno come attori del mistero che si celebra o si prega.
    Si tratta infatti di una scoperta teologicamente esatta se è vero, come noi crediamo, che il nuovo luogo dell'incontro fra l'uomo e Dio è l'uomo stesso.
    Lo Spirito infatti si diffonde nella comunità e nelle singole persone, a condizione che comunità e persone accettino la volontà del Padre in termini di alleanza e di comunione.
    Non solo, ma la croce di Cristo non è affatto sostitutiva come erano sostitutivi i sacrifici antichi. Esclusiva sì, ma non sostitutiva. Il sacrificio di Cristo ha escluso i nostri sacrifici, ma non ha sostituito l'impegno che ciascuno di noi assume allorché partecipa a quella esclusività, prendendo ciascuno la nostra croce e seguendo Cristo nella liberazione.
    La nostra è una religione che indubbiamente ha una speranza nella Risurrezione e celebra la Risurrezione, ma questa speranza e questa celebrazione si fanno attuali subito, proprio nel momento in cui il cristiano riconosce negli uomini che gli stanno attorno non più dei competitori, delle persone di cui approfittare, ma dei fratelli, degli altri uomini. Massima lode a Dio e a Cristo sta infatti nell'annunciare la volontà del Padre che ogni uomo riconosca il proprio rapporto con Dio come fondamentale per la propria salvezza e il proprio rapporto con Dio in un rinnovato rapporto con i propri fratelli.
    La nuova religione, e quindi la nuova pietà, consiste nell'avere come luogo d'incontro non più un tempio, non più dei riti separati dalla vita di un popolo, ma il rito dello «spezzare il pane». Gesù che aveva condiviso tutto con la sua gente dà fino all'ultimo, dà il suo corpo e il suo sangue. Lascia quindi agli apostoli un segno che è appunto il nuovo modo di vivere il rapporto con Dio. L'Eucaristia è questo nuovo modo. Questo pane spezzato è infatti il segno del Cristo che ha spezzato la sua vita per offrirla al Padre, atto sommo di amore verso l'Onnipotenza di Dio ri-creatore, e per darla agli uomini suoi fratelli. L'Eucaristia è presenza del Signore ma è una presenza che provoca nei cristiani il proprio culto di offerta al Signore e ai fratelli. La comunità che pertanto si raduna per lo spezzare il pane è una comunità che si giudica, si verifica sulla propria possibilità reale a spezzare la propria vita per condividerla con i fratelli.
    «Sono capace di condividere il cibo, la casa, la cultura, l'equilibrio psichico, la salute con gli altri?». L'Eucaristia che celebriamo è soltanto parabola del futuro escatologico o è segno reale di una realtà che si compie nell'indirizzo del Regno di Dio?
    Pratica di pietà secondo il vangelo è dunque pratica di vita, una vita che si fa realmente parabola del mistero ultimo della comunione e della riconciliazione.

    METODOLOGIA DEL VANGELO E PRATICHE DI PIETÀ

    Su questa fondamentale novità di rapporti fra Dio e gli uomini, si stabilisce nel Vangelo tutta una serie di metodi pedagogici circa la preghiera e l'atto di pietà o di religione. Gesù ha insomma esemplificato nello stile e nelle forme la sua nuova visione religiosa del nostro incontro con Dio.

    Dimensione teologale

    La prima cosa da notare nella metodologia evangelica della preghiera è una certa bipolarizzazione fra preghiera solitaria e preghiera riunita. Gesù sovente si ritira da solo in preghiera e si ritira espressamente per pregare. La ragione ultima e precisa di questo stile non è certo da ricercarsi in una fuga dalla realtà come talvolta è stato interpretato questo tipo di preghiera. E infatti Gesù quando prega da solo o si ritira per una preghiera solitaria nella notte, non lo fa per rientrare in se stesso, anzi egli è veramente se stesso e sottolinea questa sua identità di persona proprio nel pieno dell'azione. In genere egli accompagna questa decisione con una interpretazione originale che già era stata in parte esperimentata dall'incontro di Mosè con il fuoco dell'Oreb. È infatti Dio che sceglie luogo, tempo e occasione dell'incontro e Dio vuole un dialogo diretto con l'uomo su cui ha posto la sua elezione. La preghiera solitaria è nel Vangelo il segno di un valore teologale della preghiera. Nell'incontro con Dio non serve nulla se non la propria soggettività, la propria persona di fronte a Dio. Dio prende l'iniziativa. L'uomo non ha meriti, fortune o titoli per questo incontro, l'incontro è voluto dall'amore di Dio che chiama, in una iniziativa di indefettibile fiducia nell'uomo, per il suo amore. Dire allora che la preghiera è l'ora del soccorso, l'ora di ottenere i favori, di presentare la propria virtù religiosa e di ossequio è in contrasto con questo stile. Dio ci chiama alla preghiera nei momenti di gioia e di dolore e ci chiama perché già siamo stati eletti.

    La parabola della riconciliazione

    Ma la preghiera solitaria non esclude anzi vuole e pretende la preghiera riunita. La preghiera conduce all'unità e fa unità. Direi anzi che nel Vangelo c'è un modo di pregare che non ha parole, ma è semplicemente un disegno parabolico che anticipa e raffigura la grande assemblea della famiglia di Dio. La lavanda dei piedi è un gesto di memoria che si accosta per stile e sostanza al convito per la memoria di Cristo. L'accoglienza dei più piccoli è come ricevere Cristo. La guarigione che restituisce l'ammalato alla comunità una vera glorificazione liturgica. Questo tipo di preghiera unitaria e radunata ha fatto scoprire alla inventività della Chiesa l'ordine liturgico dell'assemblea e nei modi della pietà popolare il gusto nuovo dello stare assieme e del compiere assieme azioni comuni, decisioni comuni, scelte comuni. Non per nulla Cristo chiama suo cibo il compimento della volontà del Padre e la rivelazione delle glorie del Padre. Gesù è tipicamente umano nel gusto della festa. Non certo per inclinazione psicologica ma nella sicurezza di una gloria che sente diffusa nel suo cuore e nel cuore dei suoi. Pertanto occorre ritrovare oggi per un senso di fedeltà evangelica queste due emblematiche modulazioni della pratica di pietà. Essa è innanzitutto nel Vangelo una prassi, un compimento e dall'altra una rivelazione gioiosa del dono ricevuto. Si spiega così una certa ripulsa di Cristo verso coloro che vanno al Padre per ottenere una serie di favori, anche temporali, come se Dio fosse unicamente il tappabuchi della nostra stupida sterilità o il distributore di grazie, quando invece «Il Padre sa quello di cui avete bisogno». Diventa così evangelica e antipagana la preghiera che festeggia, che proclama la gioia, che canta la speranza e il dono della giustizia. Cristo va al patibolo cantando i salmi e la salmodia biblica è la rivelazione delle imprese di Dio compiute col suo popolo. La preghiera riunita diventa così una specie di rivelazione continua, fresca, originale e esultante del dono ricevuto attraverso il quotidiano della storia. Bisognerà allora chiederci fino a che punto può essere considerato evangelico uno stile di preghiera che si affida al convenzionale, al ripetuto, all'imparaticcio, al formulario statico e senza vita, quando invece Cristo ha pregato facendo storia e ha insegnato ai suoi una lettura quotidiana dei segni dei tempi, come dono di Dio e come gioia da rivelare.

    Il diritto di parlare liberamente

    Del resto c'è nel vangelo una metodologia di preghiera che è assolutamente confidenziale e semplice. Forse noi l'abbiamo inteso come sdolcinatura sentimentale e quindi abbiamo introdotto un tipo di preghiera melliflua carica di diminutivi e di aggettivi sussurrati, quando invece l'intimità con cui Cristo si riferiva al Padre (Abba) era il diritto di parlare liberamente. A ragione Paolo così commenta l'abitudine della comunità primitiva che nelle sue adunanze concedeva spazio e tempo alla preghiera immediata, persino aggressiva, certamente poco consona con il nostro spirito cartesiano e illuminista. «Noi una volta non sapevamo come dovessimo pregare, ma lo stesso Spirito intercede per noi con gemiti inenarrabili. Voi avete ricevuto lo spirito di adozione a figli, che ci fa gridare: Abba, Padre! Lo Spirito stesso conferma la testimonianza del nostro spirito, che noi siamo veramente figli di Dio».

    Sincerità

    Lo stile della preghiera che Cristo insegna è dunque uno stile disinvolto. Un dialogo con un Dio che si fa nostro Padre avendoci eletti suoi figli, non sarà e non potrà mai essere un atto di falsità verso noi stessi o un capolavoro di diplomazia umana che nasconda il volto dell'uomo. «Il vostro padre vi vede di nascosto... e quando pregate non dite molte parole come fanno i pagani». «Non tutti quelli che dicono Signore, Signore entreranno nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21).

    La profondità del profano

    Per Cristo la preghiera ha a che fare con l'attenzione, con la vigilanza, con la lettura precisa dei segni dei tempi. «Provvedete che il vostro spirito non rimanga sommerso nella ebbrezza del bere e nelle preoccupazioni della vita: fate in modo che il giorno non vi sorprenda inaspettatamente come un laccio, giacché egli verrà sopra tutti in ogni luogo della terra. Siate dunque vigilanti in ogni momento, e pregate di essere in condizione di poter affrontare le cose che si compiranno e di poter sostenere la vista del Figlio dell'uomo» (Lc 21,34-36). È insomma tutto l'opposto di una preghiera narcotico o della preghiera alienante. «In realtà - scriveva nel suo libro "Dio non è così" il vescovo Robinson - non porrei alla base dell'insegnamento della preghiera il chrònos cioè il tempo segnato dall'orologio, ma il kairòs cioè l'attesa dell'attimo che ci indurrà a piegare il ginocchio. La preghiera è l'impegno di mettere tutto ciò che si ha nell'incontro con gli altri, di essere pronti a riconoscere l'incondizionato nel condizionato, di andare incontro a Dio su questa strada, di non abbandonare il cammino». Lo stesso Bonhoeffer, a cui si deve molto per una ipotesi di preghiera veramente e autenticamente secolarizzata, aveva definito l'orazione un addentrarsi più profondamente nel mondo per avvicinarsi a Dio. «Nella mia esperienza il momento della rivelazione coincide proprio con il momento dell'impegno».
    La spiritualità tradizionale pone l'accento sulla «vita interiore», considerandola come l'epicentro spirituale dell'uomo. Ma nella Bibbia non vi è un simile concetto: il centro nel senso biblico non è la vita interiore, ma tutto l'uomo in quanto si pone in rapporto con Dio. Per la Bibbia l'uomo vive tanto dall'esterno verso l'interno, quanto dall'interno verso l'esterno.
    In realtà il sacramento che costituisce in qualche modo il centro del culto cristiano, non ha niente a che fare con una separazione dal mondo. Esso è anzi proprio l'affermazione di «un al di là» che sta nel mezzo della nostra vita, del sacro nel profano.
    Dopo l'incarnazione il sacro è la profondità stessa del profano, così come il secolare non è una parte (senza Dio) della vita, ma il mondo stesso (il mondo di Dio, quello per cui Cristo morì), quando è separato ed alienato dalla vera profondità. Il fine del culto non è quello di ritirarsi dal «secolare» nel «religioso» e tanto meno di fuggire da questo nell'altro mondo; è un aprire se stessi alla scoperta di Cristo nelle cose comuni e quotidiane, alla scoperta di ciò che è capace di penetrare dentro la loro superficialità e di redimerle dalla loro alienazione. La funzione del culto è di renderci più sensibili a quella profondità, di mettere a fuoco, affilare ed approfondire la nostra rispondenza al mondo ed agli altri, oltre i limiti degli interessi immediati (come simpatia, egoismo, ecc.), trasformandola in qualcosa di assoluto: di purificare e correggere il nostro amore alla luce dell'amore di Cristo, e di farci ritrovare in Lui la grazia e la forza per venire riconciliati e per riconciliare la comunità. Qualsiasi cosa cooperi o sia di aiuto a questo fine, rientra nel culto cristiano. Ma ciò che ad esso non serve, per quanto «religioso» possa apparire, non ha niente a che fare con il culto cristiano.

    LA VITA SI FA PREGHIERA

    Questa continuità fra segno liturgico e segno di vita potrà essere garantita dalla capacità di introdurre nell'assemblea la giusta fisionomia del momento storico in cui viviamo. E ciò non per sottrarre all'atto di pietà la sua capacità trascendentale, destinata al regno, ma per sottomettere la storia al giudizio di Dio.
    Sarà quindi necessario quanto prima far entrare nei nuovi formulari liturgici o extraliturgici l'allusione alle realtà temporali e al loro carattere di «segni dei tempi»; dovrà inserirsi in essi una stima singolarissima, ispirata dalla fede, di tutto ciò che viene chiamato profano. Forse non sarà inutile rispettare la fisionomia storico-concreta dell'assemblea che si fa liturgica in modo che essa ritorni al mondo secondo ciò che è stato sacramentalmente celebrato. La Messa ad esempio dovrebbe essere l'appello di Cristo rivolto ad una comunità così come essa è, e, nello stesso tempo la risposta di questa comunità concreta alla comune chiamata.


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