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    Che cosa è fede?



    Franco Ardusso

    (NPG 1974-9/10-30)

    La monografia è finalizzata alla educazione alla fede. È quindi qualificante l'interrogativo: che cosa è fede? Soprattutto oggi, in questo tempo in cui ci troviamo stranamente alla confluenza di rigurgiti di fideismo emotivo e di razionalismo freddo. Non più sulle pagine dei trattati teologici; ma nel concreto dell'esperienza quotidiana.
    Giovani, gruppi e movimenti hanno riscoperto un personale approccio alla fede. Non sempre maturo; soprattutto non sufficientemente capace di reggere l'urto del vuoto esistenziale, dell'insignificanza o dell'impegno storico che, su fronti diversi, fanno pressione.
    Che cosa è fede? O, meglio, attraverso quali particolari intonazioni l'assenso personale di fede è davvero un «sì» integrato nella vita e «cristiano»?
    L'articolo di Ardusso potrebbe diventare il filtro attraverso cui far passare l'insieme delle proposte raccolte in questa monografia, per dare alla «scuola di fede» concretezza e serietà.

    Chi è il cristiano? Il cristiano è essenzialmente uno che crede. Il primo termine col quale storicamente vennero designati i cristiani è precisamente quello di credenti (Atti 2,4). Il sostantivo fede e il verbo credere ritornano quasi in ogni pagina del vangelo e delle lettere degli apostoli (250 volte la parola fede e 300 volte il verbo credere). Il vangelo di Giovanni in particolare esprime col verbo credere chi sia e che cosa debba fare il discepolo di Cristo. Nelle lettere degli apostoli i cristiani sono esortati di continuo a rimanere saldi nella fede. Si può comprendere il perché di questa insistenza: Gesù stesso parlò più frequentemente della fede che dell'amore anche se fece intendere con chiare parole che la fede autentica non si limita a dire «Signore, Signore!», ma deve giungere all'amore fattivo per il prossimo. Giustamente perciò un teologo contemporaneo ha potuto scrivere che la fede «abbraccia l'uno e il tutto dell'esistenza cristiana ed ecclesiale» (W. Kasper).
    Ma che cosa significa esattamente credere? Una inchiesta, anche sommaria e affrettata in mezzo alla gente, ci porterebbe le risposte più disparate. Ci sono alcuni per i quali la fede è un vago sentimento religioso per cui si ricorre a un Dio che può venire in aiuto nei momenti difficili, nelle situazioni-limite (il «Dio-tappabuchi» di cui parla D. Bonhoeffer!). Per altri la fede è un insieme di pratiche «religiose» da compiere in luoghi e tempi opportuni. Per altri ancora la fede consiste in un cumulo di credenze (talora distorte) da ritenere o in una serie di precetti da eseguire. In non pochi casi si chiama fede ciò che è espressione di abitudini sociali, di pressione dell'ambiente. L'elenco potrebbe continuare per molte pagine e raccogliere altre variazioni più o meno interessanti sul tema. Vogliamo tentare qui di rispondere, da un punto di vista teologico, alla domanda posta sopra: che cosa significa credere? Risponderemo da due punti di vista. In un primo tempo si cercherà di mettere in luce quale sia la struttura del credere. In un secondo tempo preciseremo quale sia il contenuto centrale della fede.

    CHE COSA SIGNIFICA CREDERE? LA STRUTTURA DELLA FEDE

    Il credere è un atto complesso. Esso implica cioè una molteplicità di aspetti e di dimensioni, le quali, pur dovendo venir analizzate separatamente, costituiscono tuttavia un'unica realtà vivente. Le varie dimensioni della fede che troviamo nella Bibbia si possono così sintetizzare:
    * la fede è fidarsi di Dio, delle sue parole e delle sue promesse;
    * la fede è obbedienza a Dio, è consegnarsi a Dio nel dono totale di sé;
    * la fede è riconoscere ciò che Dio ha fatto per noi (credere che Gesù è morto e risorto per noi);
    * la fede è comunione di vita con Dio già qui in terra e aspirazione ad una unione piena e definitiva dopo la morte;
    * la fede è dono gratuito di Dio (solo Dio può donare Dio);
    * la fede è la decisione radicale e fondamentale dell'uomo.
    Questa varietà di aspetti della fede non deve impedirci di cogliere la sua unità: la fede non è tanto un atto isolato o una serie di atti, ma un atteggiamento di fondo della persona che dà un nuovo e permanente orientamento a tutta quanta la vita. La fede, in altre parole, coinvolge tutta quanta la persona umana nel suo conoscere, nel suo volere, nel suo agire. La fede comporta un'esigenza di totalità.

    Fede è fidarsi di un tu

    Ma qual è la struttura di questa fede, qual è la sua dinamica profonda? Possiamo cercare di comprenderla partendo dalla nostra esperienza quotidiana. Gran parte dei nostri rapporti con altre persone sono infatti regolati dalla «fede». Esprimiamo questa fede dicendo ad un altro (un amico, un esperto, un confidente): «io credo a te-io credo in te», cioè: ho fiducia in te, nella tua persona. Ma questa affermazione ne include un'altra che possiamo così formulare: «io credo quanto tu dici, quanto tu prometti, ciò che tu esigi».
    Già nelle relazioni umane quindi la fede è in primo luogo un atteggiamento col quale noi ci abbandoniamo al «tu» di un'altra persona. Nell'età infantile ci si affida al padre e alla madre. Più tardi ci si affida ad altre persone. Sta di fatto che nessuno può vivere senza una qualche fede o fiducia:
    «... nessuno può vivere senza fede. Si pensi a tutti quei settori della vita che si sostengono sulla base della fiducia. Senza fiducia, abbandono, fedeltà, amore, tutti concetti implicati nella parola fede, l'uomo non può esistere, neppure in quelle cose dove sembra che si possa andare avanti anche senza questa realtà, come nella politica e negli affari. È un'esperienza, questa, di chiunque guardi onestamente alla propria vita... Senza fiducia e lealtà, almeno verso se stessi, senza affidamento, non si può vivere, non si può condurre alcun discorso, non si può neanche concludere un affare. Senza fede non c'è né comunità, né amicizia, né amore, né vita coniugale».[1]
    La struttura della fede cristiana può essere spiegata a partire da questa comune esperienza umana. Il nocciolo della fede sta nella fiducia e nell'abbandono a Dio. Ciò è evidente soprattutto per chi legge l'Antico Testamento: in esso il credere è espresso con un verbo (che ha la stessa radice della parola amen) che significa: «appoggiarsi a Dio» come ad una roccia stabile e solida. Solo in Dio l'uomo può trovare un sicuro punto di appoggio. Egli solo è la roccia incrollabile sulla quale l'uomo può edificare tutta la sua esistenza. Credere è fidarsi di Dio, perché al di fuori di lui nulla è in grado di giustificare una fiducia assoluta. Lo ricordava Isaia al popolo di Israele in un momento storico particolarmente difficile: «Se non crederete, non avrete un'esistenza solida» (Is 7,9).

    Fede è credere in ciò che il tu dice

    Nelle relazioni umane la fede-fiducia (io credo in te) sfocia necessariamente nell'accettazione di ciò che la persona nella quale abbiamo fiducia ci dice (io credo che..., ritengo per vero quanto mi dici e prometti). In tal modo la fede diventa anche un credere i contenuti, le affermazioni, i fatti che ci vengono proposti. Tutto ciò viene accettato non perché ne abbiamo una conoscenza o una esperienza diretta, ma perché ci sono stati «manifestati» da colui nel quale riponiamo fiducia. La competenza, la fidatezza e l'autorità di questa persona sono una garanzia in base alla quale possiamo accettare quanto essa ci propone.
    La stessa cosa avviene anche nella fede: il credere in Dio, il fidarsi di lui, comporta anche l'accettazione di ciò che egli dice, di ciò che egli ha fatto per noi, di ciò che esige da noi.

    Nella bibbia

    Torniamo alla Bibbia per documentare questa affermazione. La fede di Israele include anche la conoscenza e il riconoscimento degli interventi salvifici di Dio nella sua storia. Israele può fidarsi di Dio perché riconosce e accetta ciò che Dio ha fatto per lui liberandolo dall'Egitto, stringendo un'alleanza. Ma è soprattutto nel Nuovo Testamento che viene sottolineata questa caratteristica della fede. In esso, la conoscenza e il riconoscimento di ciò che Dio ha operato per noi in Cristo, l'accettazione della verità del messaggio di Cristo, hanno addirittura la prevalenza sull'aspetto di fiducia, senza che quest'ultima sia cacciata nell'ombra. Già nei Sinottici credere significa riconoscere Gesù come Messia, come inviato di Dio. Negli Atti degli apostoli credere significa aderire a ciò che gli apostoli annunciano, e cioè che Gesù di Nazaret, che gli uomini condannarono alla morte, è risuscitato, è il Messia, è il Signore vivente e sarà il giudice del mondo (Atti 2,14-47). È questa la bella notizia (= vangelo) che gli apostoli annunciarono con entusiasmo e per la quale diedero la vita. Dopo averla ascoltata, gli uomini debbono decidersi, cambiar vita (convertirsi) e credere. Certo non si tratta di un'adesione che sarebbe esclusivamente intellettuale, ma della risposta di tutto quanto l'uomo alla parola che annuncia ciò che Dio ha fatto per noi. Anche il vangelo di Giovanni sottolinea che la fede è una conoscenza, è riconoscere Cristo come Figlio di Dio, inviato dal Padre per dare agli uomini la vita eterna (Giov 8, 24.28; 10,48; ecc.).
    La ragione profonda per cui il NT insiste sulla fede come conoscenza, come ritener per vero, sta nel fatto che la fede cristiana ha tutta la sua ragion d'essere in quell'intervento salvifico di Dio che si è verificato nella vita, nella morte e nella risurrezione di Cristo. La fede cristiana non è l'accettazione di idee più o meno interessanti, ma di fatti storici attraverso ai quali Dio si è fatto conoscere come nostro salvatore. La realtà e la verità di questi fatti storici, che corrispondono a degli interventi divini, sono per il cristianesimo la ragione stessa del suo essere:
    «La fede vive della realtà del suo oggetto, che è l'intervento salvifico di Dio attraverso Cristo; se l'evento salvifico di Cristo non è reale in se stesso, tanto meno è reale per me: non è possibile viverlo come reale».[2]

    Concludendo

    La fede cristiana comprende strutturalmente due elementi essenziali. La fede è innanzitutto un rapporto di fiducia fra persone, fra Dio e l'uomo, (un credere in) che però si articola subito in vari contenuti (un credere che). Il cristianesimo primitivo ha formulato la sua fede non solo con l'espressione «credo in Dio, in Cristo, nello Spirito», ma anche con delle proposizioni che rimandano al contenuto oggettivo e formulabile della fede: «credo che Gesù Cristo è Signore, che è Figlio di Dio, che è risuscitato dai morti, che verrà alla fine dei tempi, ecc.».
    Vanno quindi scartate due concezioni unilaterali della fede. In primo luogo va scartata quella concezione che riduce la fede a un puro atto di decisione e di fiducia, con l'esclusione di ogni contenuto oggettivo. È la fede-omaggio, la fede-salto nel buio. In questa prospettiva si sottolinea giustamente il carattere esistenziale della fede, e si mette in risalto che essa è innanzitutto un'esperienza interpersonale, un incontro fra l'io dell'uomo e il Tu di Dio. La fede è sempre fondamentalmente fede in qualcuno, e non in qualcosa. Questa concezione però, qualora essa escluda ogni contenuto articolabile e formulabile, può portare la fede a perdere la sua identità (una fede incapace di esprimersi) e a degenerare in una vaga fiducia o in un sogno illusorio o in un'esperienza individuale ineffabile.
    Va scartato in secondo luogo un altro modo unilaterale di concepire la fede. È la fede intesa come ritener-per-vero, come adesione a una serie di verità e di contenuti, quasi che nella fede si trattasse esclusivamente di un aumento e di un arricchimento del nostro sapere. È la fede intesa come adesione spersonalizzata a una dottrina, a degli articoli, in cui ci si accontenta dell'esattezza delle formule.
    Alla fede sono essenziali i due aspetti, personale e contenutistico, che le due concezioni sopra ricordate mettono unilateralmente in evidenza. La fede è infatti contemporaneamente un credere a Dio (aspetto personale, fiduciale), e un credere a Dio che manifesta se stesso come salvatore in Cristo e per mezzo di Cristo (aspetto dottrinale).
    Priva di contenuti concreti, la fede si svuota e perde la sua identità. Priva di configurazione personale, la fede rimane un sapere senza slancio e senza vita. Tutto ciò però non equivale a dire che i due aspetti della fede abbiano la stessa importanza. L'aspetto personale, che consiste nel «credere a Dio», nel «fidarsi di Dio», è il principale:
    «Il tessuto connettivo della fede va concepito in modo tale che il riconoscimento di tutti i contenuti concreti della fede si regga sul fatto che il credente si abbandoni totalmente, integralmente e senza alcuna riserva a Dio, il quale gli si rivela e comunica. Ogni affermazione del tipo "io credo che" poggia su quest'altra: "io credo in te"».[3]

    CHE COSA SIGNIFICA CREDERE? IL CONTENUTO CENTRALE DELLA FEDE

    Abbiamo affermato sopra che la fede ha un contenuto che può essere detto e formulato. Qual è questo contenuto? Si può dire in generale che il contenuto della fede abbraccia tutto ciò che Dio ci ha manifestato. Ci si può domandare però ulteriormente se nella totalità della rivelazione si dia una verità centrale, un nucleo assolutamente primario che conferisca unità alla totalità della rivelazione. Nel caso che questo nucleo esista, potremo dire che la fede si dirige in primo luogo ad esso. Al resto si aderisce in vista di una conoscenza più piena di questo nucleo centrale.
    Come è possibile cogliere il centro della fede? Basta individuare il punto terminale verso il quale tende tutto quanto il disegno di Dio sull'umanità disegno che Dio ha fatto progressivamente conoscere nella storia di Israele e in Gesù Cristo.
    L'AT ci mette già sulla strada. Se il popolo di Israele fosse stato interrogato sulla sua fede, non avrebbe risposto con una serie di affermazioni su Dio, sul mondo, sugli uomini. Israele avrebbe risposto raccontando la sua storia nella quale aveva sperimentato concretamente la guida e la fedeltà di Dio alle sue promesse. Di fatto Israele formulò la sua fede in alcune «professioni di fede» che presentano la sua storia come dominata e diretta dagli interventi salvifici di Dio (Deut 26,5-10; Gios 24,2-13; ecc.). Alla luce di tali esperienze storiche Israele venne a conoscere chi era Dio: Dio è colui che elegge, colui che dirige la storia e promette un futuro. In conclusione: l'elemento centrale che dirige il progresso e conferisce unità a tutte le vicende dell'AT è il Dio salvatore che vuole stringere un'alleanza salvifica col suo popolo.

    Cristo, il contenuto della fede

    Anche Gesù non annunciò un messaggio astratto. Egli proclamò con le sue parole e con le sue azioni il regno di Dio, cioè la vicinanza di Dio, ricco di misericordia per tutti gli uomini. Gesù fece intendere che questa vicinanza era legata alla sua persona. Ma solo dopo la risurrezione i suoi discepoli compresero che Gesù non era solo l'annunciatore della vicinanza di Dio, ma era lui stesso Dio che si era avvicinato agli uomini. Per questo il contenuto della fede dei primi cristiani è Gesù stesso (Gesù è Signore, è il Messia, è il Figlio di Dio), oppure ciò che Dio aveva compiuto in Gesù per la salvezza degli uomini (Dio lo ha risuscitato dai morti, lo ha costituito salvatore di tutti, lo ha fatto giudice dei vivi e dei morti).
    Come si vede, il contenuto centrale della fede è la persona di Gesù, la sua azione salvifica, la sua morte e risurrezione che sono causa universale di salvezza. Con Gesù giunge a compimento il disegno divino, già annunciato nell'AT, di fare alleanza con tutti gli uomini, di riconciliarli con sé e tra di loro, di offrire loro la vita, affinché si riconoscano fratelli perché figli di un Padre che per loro amore non ha risparmiato neppure il proprio figlio. È questa la buona novella che nel giro di pochi anni percorse il mondo intero. Essa è espressa talvolta con queste semplici parole: «evangelizzare Cristo Gesù» (Atti 5,42; 8,35).
    L'analisi di tutta la Bibbia ci porta quindi a scoprire che il suo centro unitario è il seguente: Dio vuole salvare l'umanità per mezzo di Cristo.
    Questa stessa affermazione costituisce quindi anche il centro della fede cristiana:
    L'agire di Dio attraverso la persona e la storia di Gesù Cristo è dunque il centro della fede cristiana. Ogni predicazione posteriore è rimandata a questo centro, lo deve esplicitare e riattualizzare».[4]
    La novità cristiana alla quale si aderisce con la fede in fondo non è altro che «Dio stesso nell'atteggiamento del dono di se stesso all'uomo nel proprio Figlio, e cioè l'amore assoluto di Dio realizzato e rivelato nell'esistenza di Cristo... La decisione fondamentale di rispondere con un «sì» all'atto salvifico di Dio nel Cristo è la fede».[5]
    Potremmo anche dire, ispirandoci a S. Paolo, che credere significa «essere in Cristo», fondare la propria vita su Cristo considerato come norma decisiva di tutta la nostra esistenza, immedesimarsi nell'atteggiamento più profondo di Gesù nei confronti del Padre, degli uomini, della storia. Partendo da questo centro, Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio, Figlio di Dio e nostro fratello, la fede cristiana è capace di gettare un fascio di luce sui più profondi interrogativi che ogni uomo si pone nella sua esistenza personale e sociale: chi è Dio? chi è l'uomo? l'attività e la storia umana hanno un significato? quali sono i giusti rapporti tra gli uomini? perché la speranza e non la disperazione? perché seguire la legge dell'amore anziché quella dell'egoismo individuale e collettivo? perché ogni uomo merita il più profondo rispetto?
    La risposta a tutte queste domande è data al cristiano a partire dal centro stesso della sua fede, Gesù Cristo, colui che «fa nuove tutte le cose» (Ap 21,5).

    È POSSIBILE CREDERE? IL LUOGO DELLA FEDE OGGI

    Il discorso sin qui fatto porterà ad una constatazione cui farà seguito una domanda: tutto ciò è molto bello. È anche vero? Ha ancora un senso credere per l'uomo d'oggi che si trova a vivere in un mondo secolarizzato nel quale molte ideologie fanno concorrenza alla fede, tanto che si parla abitualmente di una crisi della fede, soprattutto in mezzo ai giovani?
    La fede ha un futuro, oppure essa appartiene al residuo di un'epoca ormai tramontata?

    Oggi, una crisi di fede?

    Una parola innanzitutto sulla odierna crisi di fede. Essa esiste ed è molto profonda. Si può far osservare tuttavia che la fede non è mai stata facile. Una lettura serena del vangelo è capace di documentare che fin dai primissimi tempi del cristianesimo fede e incredulità sono in lotta fra di loro (si vedano, ad esempio, le prime reazioni all'annuncio della risurrezione di Cristo : Mt 28, 1 7 ; Mc 1 6, 11. 1 6 : Lc 24- 1 3-35 ; Giov 20,24-29).
    La stessa storia del cristianesimo, se non viene letta in modo unilaterale, fa vedere che la chiesa è il campo di battaglia tra fede e incredulità. Si potrebbe quasi dire che lo stretto collegamento tra fede e incredulità è la condizione normale del credente, e che nel cuore di ogni credente permane un incredulo che interroga e obietta. Tutto ciò è normale se si pensa che «La fede non è mai stata semplicemente un adattamento spontaneo all'inclinazione dell'esistenza umana: è stata invece sempre una decisione che chiama in causa il nucleo più profondo dell'esistenza, che esige dall'uomo una conversione di rotta ottenibile unicamente tramite una risoluta determinazione».[6]
    La constatazione dell'incredulità nel cuore di ogni credente va completata con il discorso sulla fede nel cuore di ogni incredulo, poiché anche l'incredulo porta in sé qualcuno che obietta e contesta la sua sicurezza:
    «Chi pretende di sfuggire l'incertezza della fede, dovrà fare i conti con l'incertezza dell'incredulità, la quale, dal canto suo, non potrà mai nemmeno dire con inoppugnabile certezza se la fede non sia realmente la verità... Per dirla in altri termini: tanto il credente quanto l'incredulo, ognuno a suo modo, condividono dubbio e fede, sempre beninteso che non cerchino di sfuggire a se stessi e alla verità della loro esistenza. Nessuno può sfuggire completamente al dubbio, ma nemmeno alla fede. Per l'uno la fede si rende presente contro il dubbio, per l'altro attraverso il dubbio e sotto la forma di dubbio».[7]

    Difficoltà «dall'esterno»

    Queste osservazioni sulle difficoltà di sempre della fede non vogliono far dimenticare che in ogni epoca la crisi della fede assume gli abiti del proprio tempo e particolari atteggiamenti che è necessario prendere in considerazione. Qui è possibile fare solo un accenno alle difficoltà odierne della fede. Alcune provengono dall'esterno, dalla situazione ambientale in cui si svolge la nostra esistenza. Altre provengono dall'interno, dal mondo stesso della fede.
    Tra le difficoltà provenienti dall'esterno possiamo ricordare:

    L'ateismo contemporaneo

    Esso è molto diverso da quello del passato. Gli atei di un tempo erano coloro che credevano di poter dimostrare che Dio non esiste (ateismo positivo), o almeno erano convinti di non poter in alcun modo provare la sua esistenza (agnosticismo). Le due categorie di atei sopra ricordate (a cui bisogna aggiungere un certo numero di «atei pratici») costituivano un gruppo abbastanza ristretto nella società. L'ateismo contemporaneo invece si qualifica come un fatto culturale di massa. Più che un sistema ben definito, esso è una visione del mondo nella quale Dio non entra più a far parte come una delle componenti. Il problema di Dio è considerato privo di interesse. Anzi, molto spesso Dio è considerato come un miraggio ingannevole, frutto di epoche non ancora mature e incapaci di prendere in mano il proprio destino. La religione è ritenuta un mezzo per mantenere l'uomo soggetto alle classi dominanti affinché non si ribelli (si veda tutta la critica al teismo e alla religione di Marx, Nietzsche e Freud). L'ateismo contemporaneo costituisce una tremenda prova per la fede poiché il credente non è più sostenuto psicologicamente e sociologicamente da condizioni ambientali favorevoli allo sviluppo della fede. Esso può tuttavia costituire un'occasione di stimolo e di purificazione della fede da infiltrazioni non autentiche.

    Il secolarismo

    Esso va distinto dalla secolarizzazione. Quest'ultima è di per sé una prospettiva positiva, che può trovare il suo punto di partenza nella Bibbia stessa. Dicendoci che il mondo è stato creato da Dio, la Bibbia afferma che il mondo non è un pezzo di Dio, non è una natura intangibile e neppure un ordine sacro carico di potenza divina o demoniaca. Il mondo è semplice creatura, realtà profana distinta da Dio, messa a completa disposizione dell'uomo e affidata alla sua amministrazione. Questa presa di coscienza della mondanità o profanità del mondo, accompagnata da una disaffezione crescente verso la religione e dal rinvigorirsi dell'ateismo di massa, ha portato non di rado molto più lontano di quanto si potesse prevedere e di quanto il messaggio biblico autorizzi. Si è passati quasi inavvertitamente dalla secolarizzazione al secolarismo. Per il fatto che nel mondo secolarizzato incontriamo sempre di meno le tracce di Dio e sempre più quelle dell'uomo, per il fatto che il progresso tecnico e scientifico non ha più bisogno dell'ipotesi-Dio per compiere il suo cammino, il secolarismo proclama il nuovo vangelo: Dio non esiste! Il secolarismo diventa così una forma di ateismo, cioè un modo di interpretare la vita, il mondo e la storia senza fare appello a Dio e alla fede. Qualcuno riterrà ancora i concetti tradizionali del cristianesimo, ma si affretterà a spiegare che questi concetti, come la creazione, la grazia, la preghiera, la risurrezione, ecc., vanno spiegati in modo totalmente nuovo: sono affermazioni antropologiche che non hanno alcun rimando al di fuori del tempo e della storia. Il passaggio dalla secolarizzazione al secolarismo comporta in tal modo un orizzontalismo totale nel modo di concepire il cristianesimo. C'è un aspetto positivo in tutto questo, un invito ai credenti a incarnare la loro fede nella storia e nel servizio degli uomini, uno stimolo a non confondere la fede con l'immobilismo. Ma c'è anche una grave insidia che tende a liquidare tutti i contenuti specifici della fede, convertendoli in puro e semplice discorso sull'uomo (riduzione antropologica).

    L'atmosfera illuministica

    L'illuminismo è senza dubbi la rivoluzione più significativa dell'occidente. È il tentativo di emanciparsi dall'autorità e dalla tradizione. L'uomo vuole vedere da sé, giudicare da sé, decidere da sé, poiché trova in se stesso il criterio e la norma. Il rifiuto della tradizione è connesso con l'affermazione della ragione: non vale ciò che è santificato dalla tradizione, ma ciò che regge di fronte alla discussione razionale. L'illuminismo apre anche la strada alle interpretazioni razionalistiche del cristianesimo: si riconosce che quest'ultimo è servito a educare il genere umano. Ma il suo compito sarebbe oramai finito, e dovrebbe cedere il passo alla religione della ragione. Tutto il mondo della fede viene liquidato come residuo di una mentalità ingenua, ancorata a credenze sorpassate. L'illuminismo, a ben guardare, non è privo di presupposti e di pregiudizi. Per questo si guarda oggi con senso critico ai «dogmi» ciecamente affermati in questa epoca: fede assoluta nel progresso, fiducia ingenua nella ragione e nella libertà, ecc. Ai nostri giorni si parla di un secondo illuminismo, assai più critico e più modesto del primo. Esso non nutre più sogni ambiziosi, ma si limita ad analizzare problemi delimitati e solubili, scartando come privi di senso le problematiche religiose e metafisiche.[8] Tutto ciò ingenera però una mentalità che viene ulteriormente potenziata dal successo della scienza e della tecnica: ha valore solo ciò che l'uomo può pianificare e dirigere, procedendo per via di ipotesi e di verifiche successive. Non sono prese in considerazione le verità immutabili e il mondo delle realtà non suscettibili di verifica (si fanno rientrare in questo settore tutte le affermazioni della fede).

    Difficoltà «dall'interno»

    Tra le difficoltà provenienti dall'interno della fede stessa possiamo ricordare:

    Una certa crisi di linguaggio

    I concetti religioso-morali tradizionali subiscono nella nostra epoca una svalutazione simile a quella della moneta. La crisi del linguaggio della fede è diventata acuta a causa della distanza culturale che ci separa dai testi fondamentali della nostra fede (Bibbia), e a causa della conoscenza che noi oggi abbiamo dei loro condizionamenti storici e culturali. Di qui è nata l'esigenza di demitizzare il messaggio della rivelazione e di reinterpretarlo in funzione della nuova sensibilità. L'intento è lodevole, ma i rischi che si corrono sono molto grandi: come interpretare in maniera nuova la fede senza ridurne il contenuto? senza far sì che l'uomo diventi l'unità di misura della parola di Dio?

    L'investigazione storico-critica del NT

    I moderni studi biblici ci hanno permesso di conoscere meglio il processo di formazione dei vangeli, ma hanno anche gettato un'ombra di scetticismo e di insicurezza. Un teologo moderno si domanda a questo proposito: «La figura storica di Gesù e del suo messaggio non ci è diventata oggi molto vaga a causa del metodo storico-critico praticato dall'esegesi? Non ci sono molteplici e contraddittorie interpretazioni della persona e dell'opera di Gesù...? La ricerca storico-critica del N. Testamento non ci ha lasciato in eredità nulla più di un mucchio di cocci?».[9] Bisognerebbe qui ricordare l'opera di Bultmann e di tutta la sua scuola, anche se oggi si è molto critici nei confronti di essa e del suo scetticismo esasperato nei confronti delle possibilità di raggiungere il «Gesù storico».

    La scarsa testimonianza dei credenti della chiesa

    C'è una «crisi di testimonianza» avvertita specialmente da coloro che sono maggiormente impegnati nella ricerca di una società più giusta. Costoro denunciano le illusioni di una fede che non morde nella vita e non si impegna nel risolvere i problemi concreti degli uomini.
    Si parla di non credibilità della chiesa la quale si accontenta talvolta di annunciare delle belle parole alle quali non fanno seguito i fatti o di enunciare dei principi così esangui che non fanno paura a nessuno e addomesticano la forza rivoluzionaria del vangelo. Un grave ostacolo sono pure i compromessi della chiesa istituzionale col potere politico ed economico, la sua estraneità alle classi socialmente più povere e indifese.[10]

    Una situazione senza sbocco?

    Il panorama sopra presentato sulla «crisi della fede» ci pone di fronte a un interrogativo che non possiamo eludere: la situazione attuale in cui viene a trovarsi la fede è veramente senza speranza? Non esiste più nessun punto di contatto tra il mondo della fede e l'esperienza umana? Mi pare di dover rispondere che la nostra situazione è critica, ma non senza speranza. Viviamo in tempo di crisi. È necessario ricordare però che la situazione di crisi della fede non ha solo il significato negativo di rovina della fede. Nel suo significato originario, crisi significa una situazione di decisione, di discernimento e di assunzione di responsabilità.

    Purificare la fede

    Innanzitutto è necessario saper cogliere gli innumerevoli stimoli che ci provengono dalla situazione sopra descritta per purificare la fede da infiltrazioni non autentiche. Accenniamo a qualche esempio di interpretazione distorta della fede dalla quale è necessario liberarsi:
    * il concepire le verità della fede come una forma primitiva di spiegazione del mondo da considerare sullo stesso piano dei risultati delle scienze naturali. Contro questa concezione bisogna ribadire che la fede ci parla unicamente di «verità di salvezza», che appartengono a un'altra dimensione rispetto a quella della scienza e della tecnica;
    * il confondere la fede con una determinata rappresentazione del mondo e della società;
    * il concepire la fede senza alcuna relazione col mondo e con la storia che gli uomini vivono. Ciò equivale a dimenticare che la rivelazione di Dio è una rivelazione storica, incarnata, che ci palesa il progetto di salvezza che Dio ha sugli uomini, sul mondo, sulla storia;
    * una comprensione della fede che faccia di quest'ultima l'ideologia conservatrice del sistema vigente o la copertura di precisi interessi economico-politici;
    * una comprensione della fede che ne smorzi la carica rivoluzionaria e liberatrice che essa possiede (una fede del buon senso piuttosto che una fede evangelica);
    * una fede concepita in termini privati, intimistici, poco sollecita di una testimonianza pubblica che la renda credibile e socialmente efficace.

    La ricerca di un perché ultimo

    Il nostro incontro con l'odierna crisi di fede, oltre ad offrirci degli inviti in vista di una fede maggiormente autentica e incarnata, deve procedere oltre. Ci possiamo chiedere se la situazione nella quale viviamo offra ancora dei punti di aggancio per l'annuncio e la comprensione della fede. Ad una prima costatazione si avverte che vengono meno molti dei tradizionali punti di contatto tra fede ed esperienza umana. Ma sorgono anche delle nuove possibilità per allacciare dei ponti tra la fede e il mondo d'oggi. Qualcuno ha potuto recentemente scrivere che «ciò che si attende dalla fede raramente è stato così grande come oggi» (W. Kasper). Il punto di contatto tra la fede e l'uomo contemporaneo consiste oggi nel porre il problema del significato ultimo della realtà, della vita e della storia. È stato giustamente affermato che ogni uomo vive praticamente del suo progetto di significato:
    «Ognuno ha una determinata rappresentazione di ciò che intende per vita felice e completa. ed ognuno soffre se in quello che fa non può più trovare nessun senso. La perdita di senso conduce spesso alle più gravi malattie psichiche... Nessuno può vivere senza una certa risposta alla questione del senso. Forse l'uomo non lo chiama senso, ma cos'altro intende, quando cerca felicità, amore, completezza?».
    L'uomo non vive solo del prodotto delle sue mani, non è solo un essere che produce e consuma. L'uomo è essenzialmente libertà, uno che è capace di scegliere, e dunque uno che deve poter dare un significato alle sue scelte e ai suoi orientamenti e al suo impegno:
    «Il senso delle cose è davvero il pane di cui l'uomo si sostenta, di cui alimenta il nucleo più centrale della sua umanità. Senza la parola, senza il senso, senza l'amore, egli viene messo in condizione di non poter più nemmeno vivere, quand'anche fosse circondato in sovrabbondanza di tutti i conforts terreni immaginabili».
    Ora, la nostra epoca, orgogliosa del suo progresso tecnico e scientifico, è anche un'epoca in cui si avverte acutamente la mancanza di significato. Sono in molti oggi a denunciare questa situazione, la quale, se da un lato si presenta come disperata, d'altro lato può costituire il terreno favorevole per riscoprire il profondo significato della fede cristiana.
    Si potrebbe citare ad esempio l'analisi della nostra società, schiava degli idoli fabbricati con le sue mani, una società che considera tutto come merce da consumare. È una società che consuma ma non sceglie, è sazia, ma non soddisfatta. È una società priva di significato dal momento che «il significato non si può mangiare». Per uscire da questa situazione il sociologo invita ad un compito rivoluzionario urgente: restituire l'uomo a se stesso, farlo passare dall'idolatria al monoteismo. Non c'è un rimando alla trascendenza e un appello implicito alla fede?
    Il filosofo P. Ricoeur, analizzando la società contemporanea, la descrive come società di produzione, di consumo e di piacere.
    «Essa è caratterizzata da un dominio crescente dell'uomo sui mezzi e dall'oscuramento dei suoi fini, come se la razionalità crescente dei mezzi rivelasse progressivamente l'assenza di significato». Mentre cioè da un lato cresce la razionalità della programmazione, dall'altro lato cresce anche l'assurdo, il senso di vuoto, l'assenza di una destinazione e di una finalità: «Noi scopriamo che gli uomini mancano certamente di giustizia, sicuramente di amore, ma più ancora di significato: non significato del lavoro, del piacere, della sessualità. Ecco i problemi sui quali andiamo a sfociare».
    Per questo motivo P. Ricoeur pensa che la fede cristiana abbia oggi un compito che nessun altro può assolvere, il compito di «testimoniare un significato fondamentale». L'annuncio della morte e della risurrezione di Cristo - il centro vitale della fede cristiana - è un messaggio che attesta il sovrappiù di senso sul non-senso, una sovrabbondanza di significato invece dell'assurdo. «Il cristiano è l'avversario dell'assurdo, il profeta del significato. Non per una volontà disperata, ma perché riconosce che questo senso è stato attestato negli avvenimenti che la Scrittura proclama».[11]
    Fa eco a queste parole quanto ha scritto recentemente il neo-marxista R. Garaudy:
    Il vero rivoluzionario, in questo tempo di vertiginosa metamorfosi, non è colui che inventa dei mezzi, ma colui che inventa dei fini». Per questo motivo, egli, pur professandosi non credente, guarda con simpatia alla figura di Cristo, al suo messaggio, a ciò che il cristianesimo annuncia con le categorie di «regno di Dio» e di «risurrezione». Egli vede in tutto ciò una proposta di significato che infonde speranza, spezzando ogni limite costituito dall'egoismo, dalla violenza e dalla morte stessa: «Cristo è venuto per aprire una breccia a tutti i nostri limiti... Ciascuno dei miei atti liberatori e creatori implica il postulato della risurrezione. E più di ogni altro l'atto rivoluzionario. Poiché se io sono un rivoluzionario questo significa che io credo che la vita ha un senso e un senso per tutti». Sempre secondo Garaudy, Cristo avrebbe portato la vera rivoluzione, quella di cui l'umanità ha più profondamente bisogno, la rivoluzione dell'amore: «Una rivoluzione non sarà completa e irreversibile se non quando essa esiga non solo la giustizia, ma l'amore... Senza di ciò, ci sarà trasferimento di proprietà, trasferimento di potere, trasferimento di cultura, ma sussisterà la nera trinità dell'avere, del potere e del sapere, con tutte le dominazioni e le alienazioni che essa implica».[12]
    Un altro marxista, che si è interessato a Gesù, trovando in lui numerosi aspetti degni di essere presi in considerazione, invitava recentemente ad andare al di là dei puri fatti socio-economici, e a spostare l'attenzione sui problemi dei valori e dell'uomo:
    «L'uomo moderno... non comprende più - o non comprende ancora - se stesso: non si rende conto di dover risolvere il problema del significato della sua vita, della sofferenza, dell'amore nella dedizione a qualcosa che trascende tutte le realtà pratiche».[13]
    Ho voluto riportare queste testimonianze, alle quasi se ne potrebbero aggiungere molte altre, come ad esempio i risultati di recenti inchieste sulla fede e su Cristo condotte in mezzo ai giovani, per mostrare che la fede cristiana, proprio nel suo nucleo centrale di fede in Gesù, di fede nella risurrezione, è capace di trovare delle risonanze e dei punti di aggancio con l'esperienza e con i progetti degli uomini d'oggi.
    Anche il rinnovato interesse per Gesù da parte delle giovani generazioni meriterebbe qualche riflessione. Si tratta certo di un fenomeno ambiguo e commercializzato. Sovente abbiamo a che fare con un Gesù estremamente impoverito, ridotto a misura d'uomo. Ma per intanto è significativo che gli uomini di oggi, smaliziati da mille ideologie e da tutto il sospetto che è stato gettato sul cristianesimo, trovino in ciò che Gesù ha detto e fatto una proposta valida e interessante.
    Tocca ai credenti scoprire nei propri contemporanei questi appelli, a volte inconsci, rivolti alla fede. Tocca ad essi far vedere, con i fatti più che con le parole, che la fede non è qualcosa di alienante o di infantile o di antiquato. C'è in ogni uomo una segreta attesa della rivelazione del Dio di Gesù Cristo. Si può quindi cercare di stabilire delle corrispondenze tra i vari punti della fede cristiana e le aspirazioni fondamentali dell'uomo, mostrando come il messaggio cristiano risponda ai problemi radicali implicati nell'esistenza umana e nelle relazioni dell'uomo con gli altri, col mondo, con la storia, col futuro.

    È RAGIONEVOLE CREDERE?

    Con questa domanda entriamo nel vivo di un problema molto difficile. Si tratta di rendersi conto del modo con cui la fede si innesta nella struttura psicologica dell'uomo. Le riflessioni fatte nella terza parte possono generare un clima di simpatia verso la fede cristiana, delle disposizioni d'animo favorevoli nei suoi confronti. Ciò però non significa ancora che la fede cristiana sia vera.
    La fede, abbiamo detto, coinvolge tutta quanta la persona umana nel suo conoscere, nel suo volere e nel suo agire. Essa è un affidarsi in modo incondizionato a Dio, alla sua parola, alla sua promessa, alla sua azione. Ma questo affidarsi pone il problema della verità di questa nostra decisione fondamentale. La fiducia non può sussistere senza presupporre la verità di ciò o di colui di cui ci si fida, per cui ci si impegna.
    Per dirla in altre parole: l'atto di fede è un atto libero posto da un soggetto umano il quale ha delle esigenze di onestà intellettuale e di rettitudine morale nei confronti degli atti che pone, specialmente quando tali atti, con quello della fede, costituiscono un impegno radicale di tutta la persona e un orientamento fondamentale di tutta l'esistenza.
    La fede è certo innanzitutto dono di Dio: è lui che ci apre gli occhi per vedere e tocca il nostro cuore affinché comprenda (Atti 16,14). Tuttavia nell'atto di fede non è Dio che crede in noi. Siamo noi, soggetti umani, che crediamo dopo che ci siamo resi conto delle ragioni che fondano la nostra fede. Ciò vale già anche per i rapporti umani di fiducia. Si crede a una persona perché essa è degna di fede, è attendibile. Essa ci ha fornito dei segni, dei motivi, che giustificano la sua credibilità, e quindi anche la ragionevolezza del nostro crederle. Osservazioni simili valgono per l'atto di fede nei confronti di Dio e di Cristo: noi crediamo dopo che abbiamo percepito tutta una serie di indizi o di segni che ci conducono a un giudizio certo. Le persone che 2000 anni fa hanno creduto in Cristo sono giunte alla fede in lui progressivamente: ascoltarono le sue parole, osservarono il suo stile di vita, i prodigi da lui compiuti, e soprattutto furono testimoni della sua risurrezione. In base a queste osservazioni si resero conto che Gesù meritava fiducia, e che Dio aveva avvalorato la sua testimonianza risuscitandolo di tra i morti.
    Per noi oggi è impossibile una osservazione diretta di ciò che Cristo fece e disse. La nostra fede si basa sulla testimonianza degli osservatori diretti della vita e della risurrezione di Cristo. Possiamo fidarci di loro, della loro testimonianza consegnata nei vari scritti del N. Testamento? Bisognerebbe scendere sul terreno della storia, documentarsi sui vangeli e sulla loro storicità, analizzare le pretese di Cristo, la fondatezza dei suoi miracoli, domandarsi come i seguaci di Gesù sarebbero stati capaci di superare la terribile delusione prodotta dalla morte di Cristo (lo scandalo della croce) se non fosse intervenuto un fatto nuovo a farli passare dalla disperazione ad un'offensiva vittoriosa e conquistatrice.

    «Tu chi sei?»

    Dato che credere vuol dire fondare la propria esistenza su Cristo, tutte le questioni relative alla ragionevolezza della fede culmineranno nel grande interrogativo posto un giorno dal Cristo stesso: «Che ve ne pare del Cristo? Di chi è figlio?» (Mt 22,42). È questo l'interrogativo col quale dovettero confrontarsi i primi discepoli. Questo è ancora l'interrogativo di fronte al quale viene a trovarsi colui che oggi legge i vangeli. Si tratta cioè di affrontare quello che è stato chiamato «il problema di Gesù». È un problema che presenta delle particolari difficoltà sia da un punto di vista storico sia da un punto di vista psicologico. Non possiamo qui affrontare tutte queste difficoltà per risolvere le quali è necessario uno studio serio e senza pregiudizi dei vangeli e del cristianesimo primitivo. Mi limito qui a fornire alcune indicazioni per una corretta impostazione della ricerca che deve condurre a rendersi conto della fondatezza della fede in Cristo.
    C'è una prima osservazione da fare. Quando si affronta il «problema di Gesù» ci si trova di fronte a un problema particolare, diverso, ad esempio, da quello della storia di Cesare o di Napoleone. I grandi personaggi della storia passata possono essere studiati con interesse dallo storico. Ciò che essi hanno fatto e detto ci può interessare moltissimo, ma non ha per noi un valore vitale. Gesù invece ci viene presentato dalla testimonianza evangelica come colui che con la sua morte e risurrezione è causa di salvezza per tutti gli uomini. Gesù pretende di dare al tempo e alla storia umana il significato ultimo. Gesù vuole avere a che fare con tutti gli uomini, che di fronte a lui dovranno assumere una decisione di accettazione o di rifiuto. Tutto ciò fa sì che Gesù si differenzi profondamente da tutti gli altri personaggi della storia passata. Lo storico non può assumere un atteggiamento assolutamente neutrale nei confronti di Gesù, perché egli ci mette di fronte ad un avvenimento che sollecita da noi una risposta, una presa di posizione e una conversione. Per questo Gesù apparve già ai suoi contemporanei e continua ad essere anche oggi un segno di contraddizione.
    Per una corretta teologia dell'atto di fede e in particolare per risolvere «il problema di Gesù» bisognerà prendere le proprie distanze da due tentazioni alle quali si trova continuamente esposta la fede: il razionalismo e il fideismo.

    Un atteggiamento razionalistico

    L'atteggiamento razionalistico è proprio di colui che vuol fondare la fede su prove e dimostrazioni simili a quelle che si possono ottenere con gli esperimenti compiuti in un laboratorio. È l'atteggiamento di colui che riduce la verità a verificabilità, a verità scientifica, e considera il vedere, l'udire e il toccare come modello di ogni conoscenza. L'atteggiamento razionalistico si trova ancora in coloro che considerano come valida solo quella forma di conoscenza che è basata su una dimostrazione razionale rigorosa. Applicata al campo della fede questa mentalità pretende di dimostrare scientificamente che Dio si è rivelato in Gesù Cristo partendo dai segni esterni della rivelazione (miracoli, profezie, risurrezione) così come essi possono essere colti con metodi storici e scientifici. In questa visuale i segni della rivelazione sono trattati come argomenti scientifici rigorosi di fronte ai quali chiunque non sia stupido o disonesto dovrebbe arrendersi come ci si arrende di fronte all'evidenza.[14]

    Un atteggiamento fideistico

    L'atteggiamento fideistico, all'apposto, esclude per principio ogni giustificazione della fede di fronte alla ragione umana. Ogni tentativo di difendere la fede viene additato come un tradimento della fede stessa, la quale, avendo come simbolo la croce, non potrebbe non presentarsi agli occhi del mondo che come scandalo e follia (I Cor 1,23). È la teoria della fede indifesa, della fede come salto nel buio, della fede come volontà e decisione di credere.

    Riassumendo

    Le due posizioni dalle quali bisogna distanziarsi nell'impostare il problema della fede sono da un lato quella che vuole inserire la fede nell'ambito del verificabile, del dimostrabile (concezione razionalista), e dall'altro lato quella che situa la fede nell'ambito del volontaristico, del decisionale (concezione fideistica).[15]
    L'atteggiamento fideistico ha in sé qualcosa di eroico e di generoso, almeno nelle sue intenzioni, ma in ultima analisi tutto si risolve ai danni della fede stessa e del credente il quale rinuncia a rendere ragione a sé e agli altri della speranza che è in lui (1 Piet 3,15). Una fede fondata solo su se stessa, sulla volontà di credere, non è in grado di stare in piedi. Non basta «voler credere» per garantire la fede. Bisogna invece cercare il solido fondamento oggettivo sul quale la fede poggia, e garantire la verità di ciò per cui ci si impegna. Ciò viene ricordato oggi anche da alcuni esponenti della teologia protestante la quale ha sempre mostrato le sue simpatie per la concezione fideistica.
    Scrive ad esempio W. Pannenberg: «Là dove la fede è intesa e promossa in tal senso, come un salto non ulteriormente motivabile di cieca "decisione", essa viene abbassata al livello di opera di autoredenzione. Una fede che non sia fondata al di là di se stessa, cioè a partire da ciò cui si rimette e abbandona, rimane prigioniera del proprio io, e non è in grado di sostenersi... Solo in un atmosfera in cui ci si possa fidare sul suo fondamento la fede è in grado di respirare liberamente».[16]
    La posizione fideistica è molto pericolosa proprio per l'uomo contemporaneo il quale non accetta di vivere in modo schizofrenico sul ritmo di una doppia verità, ed è tentato di liberarsi dalla fede qualora quest'ultima si presenti come una sovrastruttura che non ha nessun punto di aggancio con la conoscenza e con le esigenze di razionalità proprie dell'uomo. In altre parole: la fede non può essere costruita sul nulla intellettuale.[17] Anche l'atteggiamento razionalistico porta con sé delle istanze valide: esso rifiuta di separare fede e ragione nella personalità del credente. Tuttavia l'ideale di conoscenza sotteso a questa concezione non è adatto a stabilire la ragionevolezza della fede. La fede infatti non è la conclusione di un ragionamento. Essa presuppone certo una conoscenza del suo fondamento e delle sue motivazioni, ma tale conoscenza non appartiene al genere invocato dal sapere razionalistico. Anzi, la maggior parte delle conoscenze che regolano la nostra esistenza non appartengono a questo genere di sapere, senza per questo essere irrazionali o meno sicure. Si pensi, per esempio, alla conoscenza che intercorre tra le persone, alla percezione dei valori morali, e a tutte quelle conoscenze riguardo alle quali si può dire che uno «se ne intende» (la capacità diagnostica di un medico, l'abilità nel dare un giudizio estetico, il fiuto negli affari, ecc.).

    Una conoscenza per amore

    Limitiamoci al caso delle conoscenze interpersonali. Riconosciamo con certezza che una determinata persona (un amico, un coniuge, ecc.) merita fiducia attraverso una forma di conoscenza induttiva che si è venuta formando in noi in base a diversi fattori convergenti (segni, esperienze, osservazioni, parole, ecc.). La certezza alla quale arriviamo nel giudicare non è data dalla somma dei vari indizi o segni che una determinata persona ci ha fornito. Neppure tale certezza è l'applicazione concreta e particolare di leggi universali. Si tratta piuttosto di una conoscenza per connaturalità. Questo tipo di conoscenza presuppone: 1) una certa sensibilità o una certa capacità intuitiva che l'esercizio è destinato a sviluppare (l'ésprit de finesse di Pascal!); 2) un certo grado di familiarità con una determinata persona; 3) una certa affinità con i valori che una persona porta con sé.[18]
    La conoscenza per connaturalità non è mai completamente riducibile a formulazioni concettuali. Può anche darsi che il conoscente non sappia concettualizzare in modo riflesso quali segni precisi lo abbiano portato con certezza a un determinato giudizio, e che neppure sia in grado di determinare con esattezza il fattore intellettuale che è intervenuto per farlo passare dalla probabilità e dall'opinione alla certezza. Si pensi al modo col quale conosciamo con certezza una determinata persona da un insieme di particolari, oppure alla capacità che abbiamo di renderci conto dello stato d'animo di una persona, senza riuscire nello stesso tempo a razionalizzare i motivi che ci hanno condotti a tale certezza.
    «C'è una categoria di evidenze, che il più delle volte si trova a vivere senza sapere il perché, e non riesce dunque a giustificarsi riflessamente. La ragione è che tale evidenza s'è venuta formando attraverso l'accumularsi e l'accostarsi di evidenze minori, settoriali, particolari, che hanno gradualmente composta la figura inattesa e nuova di un oggetto complesso e insieme unitario, sfuggente e insieme innegabile. Le nostre evidenze nell'ambito delle conoscenze storico-umane presentano questa fisionomia. Nascono dalla familiarità, dalla lunga frequentazione di una persona o di un fenomeno culturale. Sono frutto di una connaturalità con l'oggetto».[19]
    La via attraverso alla quale noi giungiamo a renderci conto della ragionevolezza del nostro credere è precisamente la conoscenza per connaturalità ottenuta attraverso la considerazione dei segni di credibilità, o meglio di quel segno complesso e insieme unitario che è costituito dalla persona di Cristo (il suo stile di vita, il suo insegnamento, i suoi miracoli, l'adempimento in lui delle profezie, la sua risurrezione, la sua presenza nella comunità dei credenti). Nel nostro cammino verso la fede siamo però anche sempre assistiti da un agente invisibile, lo Spirito Santo, che ha precisamente lo scopo di darci la connaturalità con Cristo.
    Il modo migliore per rendersi conto della ragionevolezza della fede è cominciare a viverla, a farne un'esperienza profonda, se é vero che la conoscenza per connaturalità si può ottenere solo con la «frequentazione perseverante e appassionata di un certo mondo di oggetti» (A. Rizzi) e di persone. Il vangelo di Giovanni indica precisamente un simile itinerario per giungere a credere: i primi discepoli incontrano Gesù, rimangono presso di lui, comprendono e credono. «Venite e vedrete» (Giov 1,39) è la parola che Gesù rivolge ai due discepoli del Battista. «Vieni e vedi» (Giov 1,46) è l'invito che Filippo indirizza a Natanaele. Ai suoi concittadini la samaritana annuncia: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto ciò che ho fatto. Non sarà forse il Cristo?» (Giov 4,29). E l'evangelista annota che «molti dei samaritani di quella città credettero in lui» (Giov 4,39).
    Possiamo concludere con due osservazioni riguardanti la pedagogia della fede.
    Innanzitutto va osservato che non è possibile mostrare la credibilità della fede solo per via astratta e intellettuale. I ragionamenti possono sbarazzare il terreno da pregiudizi, possono fornire un aiuto per impostare bene il problema e dare le informazioni necessarie. La vera conoscenza di Gesù tuttavia si verificherà solo che non ci si arresterà a questo livello intellettuale, che pure costituisce una tappa indispensabile nel cammino della fede. Conoscere qualcuno significa sempre anche accoglierlo con amore e simpatia, accettare che sia diverso da noi, permettergli di entrare nella nostra vita. Per questo motivo la fede normalmente viene acquisita non a forza di ragionamenti o di prove scientifiche, ma con dei contatti profondamente umani con persone o comunità che vivono intensamente l'esperienza cristiana ed evangelica. Il miglior «argomento» per stabilire la ragionevolezza della fede sono i cristiani che vivono con intensità e con gioia la loro adesione a Cristo. La testimonianza dei convertiti fornisce a questo riguardo delle indicazioni illuminanti. Le esperienze che alcuni giovani d'oggi fanno a Spello, a Taizé o in altri centri danno indicazioni che vanno nello stesso senso.
    È necessario ricordare in secondo luogo che le disposizioni soggettive sono necessarie per percepire i segni della fede cristiana e per giungere all'incontro con Cristo. È stata questa la grande intuizione di M. Blondel all'inizio del secolo. D'altra parte la psicologia moderna ha messo in risalto che la vita intellettuale di una persona può essere fortemente condizionata dalla sua struttura affettiva. Non è quindi sufficiente una considerazione oggettiva dei segni: l'accesso alla fede in Gesù richiede un lungo cammino personale di conversione. Richiede un clima di attesa e di ricerca. M. Légaut ha scritto a proposito dei credenti di tutti i tempi queste profonde parole: «Conoscere Gesù è cercarlo più che definirlo a partire da una teologia che soddisfa l'intelligenza o almeno le fornisce qualche pascolo». Il vangelo stesso ci presenta le persone che giungono alla fede come persone che erano in cammino e in ricerca. Tale è il caso di Zaccheo, di Nicodemo, della samaritana, della Maddalena. Ogni uomo che si incammina verso la fede dovrà rifare con la stessa freschezza e sincerità il cammino fatto dai primi discepoli, cercando di familiarizzarsi con i valori e con le scelte fatte da Gesù per trovare la sintonia con lui.[20]
    Il cammino della fede richiede inoltre un atteggiamento di apertura all'Altro e agli altri, una disponibilità al dono di sé e all'amore, poiché la fede è sempre la risposta ad un'offerta di amore. «La fede non è una prestazione, ma la rinuncia a prestazioni, l'essere completamente vuoti per Dio, per poter essere totalmente riempiti da lui».[21]
    Come non si può imparare ad amare che cominciando ad amare, così non si può imparare a credere che cominciando a credere, almeno con una fede iniziale, fatta di implorazione e di desiderio: «Signore, fa che io veda!» (Mc 10,51).


    NOTE

    [1] H. FRIES-E. SIMONS, Cos'è la fede?, EDB/Jaca Book, Bologna-Milano, 1970, p. 53.
    [2] J. ALFARO, in «Concilium», 3/1967, p. 69.
    [3] H. FRIES, La fede contestata, Queriniana, Brescia. 1971, p. 21.
    [4] W. KASPER, Introduzione alla fede, Queriniana, Brescia, 1972, p. 109.
    [5] T. ALFARO, in «Nouv. revue théol.», 100/1968. p. 566 s.
    [6] J. RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 1969, p. 22.
    [7] J. RATZINGER, o.c., pp. 17-18.
    [8] W. KASPER, o.c., p. 61.
    [9] Si veda W. KASPER, o.c., pp. 13-31.
    [10] W. KASPER, o.c., p. 51.
    [11] P. RICOEUR, I compiti della comunità ecclesiale nel mondo moderno, in «Teologia del rinnovamento», Cittadella, Assisi, 1969, pp. 164-166.
    [12] R. GARAUDY, in «Lumière et Vie», 112/1973, pp. 13-32.
    [13] M. MACHOVEC, Gesù per gli atei, Cittadella, Assisi, 1973, p. 54.
    [14] Un autore moderno, al quale ci ispiriamo parzialmente in questo scritto, sintetizza così l'atteggiamento razionalistico: «Intendo per razionalismo quella concezione dell'intelligenza che ne fissa i termini in questo modo: sul piano del capire, idee chiare e distinte; sul piano del giudizio, possibilità di controllo e di verifica capillari; sul piano del ragionamento, connessioni logiche necessarie (così che la realtà risulta dimostrabile) ed esaustive (così che la realtà risulta riducibile a sistema)». A. RIZZI, Due tipi di conoscenza, in «Religione e scuola», 5/1974, p. 72.
    [15] Si veda A. RIZZI, a. c., p. 72.
    [16] W. PANNENBERG, Il credo e la fede dell'uomo d'oggi, Morcelliana, Brescia, 1973, p. 26 s.
    [17] J. RATZINGER, Fede e futuro, Queriniana, Brescia, 1971, p. 61 ss.
    [18] «La bellezza della Gioconda, il valore della verginità, la fedeltà di un amico sono inverificabili al di fuori della rispettiva connaturalità estetica, morale, intersoggettiva. Canoni estetici, norme etiche, principi psicologici possono coadiuvare una formazione alla connaturalità...; non possono sostituirla. Per chi non rifaccia quell'itinerario di vita, per chi non riviva quella storia, il giudizio di connaturalità è inverificabile». A. RIZZI, Cristo verità dell'uomo, AVE, Roma, 1972, p. 107.
    [19] A. RIZZI, o.c., p. 104.
    [20] Sono particolarmente stimolanti in tal senso alcune pagine dei libri di M. LEGAUT, L'uomo alla ricerca della sua umanità e Introduzione all'intelligenza del cristianesimo, Cittadella, Assisi, 1972.
    [21] W. KASPER, o.c., p. 61.


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