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    L'audiovisivo e l'educazione alla fede



    Magda Fiori

    (NPG 1973-10-87)

    Il titolo è pretenzioso. Pone tanti interrogativi che è impossibile portare a soluzione con un solo articolo.
    D'altra parte, di fronte alle istanze degli esperti (si pensi, per esempio, alle tesi di Mc Luhan trascritte nelle prime pagine dello studio) non è più possibile ignorare la cosa e procedere come se il fatto non facesse problema. La Elle Di Ci ha pubblicato un testo che ci pare fondamentale per un primo approccio critico al tema:
    P. Babin e collaboratori
    L'AUDIOVISIVO E LA FEDE
    pp. 240 - L. 2.900.
    Questo articolo, pur allargando il discorso a suggerimenti di comprensione del fenomeno e a prospettive immediatamente pastorali, tende soprattutto a guidare alla lettura critica del testo.

    «IMPLOSIONE», FASE ATTUALE DELL'UMANITÀ

    «Dopo tre mila anni di una esplosione prodotta dalle tecnologie meccaniche e frammentarie, il mondo occidentale implode», scrive Marshall Mc Luhan.
    «Durante l'età meccanica abbiamo prolungato i nostri corpi nello spazio. Oggi, dopo più di un secolo di tecnologia dell'elettricità, è il nostro stesso sistema nervoso centrale che abbiamo gettato come una rete sull'insieme del globo, abolendo così lo spazio e il tempo, almeno per quanto riguarda il nostro pianeta».
    L'uomo degli anni 70 è un sistema nervoso invaso dall'universo. Un antico filosofo, Marco Aurelio, ebbe a scrivere che «l'anima rimane tinta dalle idee che riceve». Oggi scriverebbe che l'anima rimane tinta dalle immagini che riceve.
    Pur facendo tutte le doverose riserve sulla tesi di Mc Luhan – oggetto di forti critiche, specie negli ambienti letterari e filosofici – per noi educatori è quanto meno segno di volontà di capire, prenderle in considerazione, non fosse altro che come ipotesi di lavoro per un intervento pastorale efficace nella realtà in cui ci troviamo e operiamo.
    È significativo che nell'udienza generale del 30 ottobre 1968, Paolo VI abbia richiamato l'attenzione sulla «situazione drammatica» in cui si trova oggi la fede. Fra le altre cause di questa situazione il Papa segnala il fatto che, sul piano psicologico, «si trascura il pensiero – la genesi del pensiero – nella civiltà delle immagini».
    Constatare che l'uomo d'oggi «implode», significa rendersi conto che ormai l'uomo non è più necessitato ad uscire per essere presente all'universo, perché egli è ad ogni minuto invaso dall'universo.
    Mediante la tecnica elettronica l'universo – finora inafferrabile – è penetrato in lui sotto forma di immagine, rumore, suono. Questo significa soprattutto un pesante predominio dell'apprensione sensoriale e sperimentale della realtà, rispetto a un'apprensione intellettuale ed astratta.
    Un acuto studioso dei problemi dell'immagine, Nazareno Taddei, giunge a definire questa prepotenza dei manipolatori della tecnica una nuova forma di colonizzazione, «la colonizzazione dei cervelli». Se quindi ieri il problema era quello di uscire per conoscere il mondo esterno, oggi è quello di resistere a questa sua violenta invasione, e di educare a resistere, a fermarla, per studiare, valutare, selezionare e scegliere: educare, cioè al senso critico. In sintesi, si rivela urgente la necessità di liberare e di educare alla libertà.
    Oggi, come ieri e più di ieri, non ci può essere educazione, non ci può essere religione che non sia liberazione.
    Si tratta, però, di una liberazione possibile alla sola condizione di assumere questa realtà, di farne l'esperienza, di sentirsene partecipi, in una parola, prima ancora di sentirsene liberi e liberatori.
    In caso contrario ogni discorso sulla libertà: scuola e libertà, amore e libertà, impegno professionale e libertà, impegno politico e libertà, religione e libertà... rischia di essere un discorso astratto.
    L'uomo moderno è sempre più mosso da un vivo bisogno e da un forte slancio di partecipazione: è il risultato delle tecniche audiovisive. Osserviamo un gruppo di giovani all'ascolto di un disco: si lasciano invadere dai suoni, ritmano il motivo con tutto il corpo, partecipano, sono immersi nel fenomeno, lo interiorizzano, lo vivono, prima ancora di averlo in qualche modo pensato, anzi, non avvertendo – quasi nella totalità dei casi – la minima esigenza di riflettere e di giudicare.
    Occorre che l'educazione sperimenti con le nuove generazioni la stessa realtà, se ne lasci il più possibile impregnare, senza divenirne preda, per intenderla come l'intende il giovane, se vuole essere in grado di rendersene interprete.
    Questa è la premessa indispensabile per arrivare a quella integrazione tra fede e vita tanto raccomandata dal RdC, e a una mediazione tale tra fatti e valori, che consenta un'interpretazione delle realtà terrestri in chiave cristiana e quindi un intervento educativo veramente liberatore.
    In questi ultimi anni si è molto studiato il fenomeno immagine, il fenomeno cinema, nelle sue componenti tecniche, fenomenologiche, contenutistiche, estetiche e morali.
    È giunto il momento di impegnarsi – più a fondo di sempre – nello studio dell'uomo generato dal cinema. Su questa direttrice ci pone ancora il RdC con le sue ricche indicazioni antropologiche: non c'è «fedeltà all'uomo» se manca uno studio serio e attento dell'uomo; come non c'è «fedeltà a Dio» se manca l'ascolto di Dio, della Parola di Dio che si rivela nel Figlio, Uomo-Dio.
    In ogni epoca storica si sono cercati i modi più appropriati, il linguaggio più comprensibile per trasmettere il messaggio cristiano. È forse giunto il momento di riscoprire il significato biblico di «conoscenza», il suo carattere realistico, concreto, multisensoriale, che la riflessione filosofica occidentale ha posto in oblio a vantaggio dell'intelligenza astratta.
    Seguendo la linea antropocentrica e cristocentrica deI RdC, ci si persuade sempre più a fondo che conoscere Dio significa conoscere l'uomo che Egli ha voluto essere, per farsi a noi uomini, rivelatore del Suo stesso mistero. È dunque doveroso chiedersi: chi è l'uomo generato dalla civiltà delle immagini? come coglie il reale? come impara? come comunica? qual è la chiave del suo linguaggio?
    E immediatamente dopo occorre chiedersi: il linguaggio audiovisivo è adatto ad esprimere la fede? in quanto linguaggio-chiave del mondo moderno, può essere il linguaggio privilegiato della catechesi? a quale età? a quali condizioni?
    Sono gli interrogativi che si pone Pierre Babin nella la parte dell'interessante volume «L'audiovisivo e la fede».
    Egli dichiara d'ispirarsi largamente all'opera di Mc Luhan, «La galassie de Gutenberg», pur senza seguirlo in tutto, rilevando che l'influenza dei mass-media, per quanto universale, non è l'unica a premere sulla determinazione del futuro.
    E delimita onestamente il progetto della sua ricerca: avere qualche idea sulla questione e poi osare, correre anche qualche rischio, con l'intento di porre alcune pietre miliari, per avanzare sulle vie nuove in cui l'uomo si è impegnato.
    I secoli che separano Gutenberg da Marconi si sono caratterizzati per un tipo di conoscenza «alfabetizzato», per così dire, per cui noi occidentali ci siamo abituati a conoscere il mondo come lo si vede e a dimenticare come lo si ode e come lo si sente al tatto.
    Abbiamo corso il rischio di ridurre i dati della fede a una sintesi di idee, non più intelligibili per il giovane di oggi. Mc Luhan enuncia la tesi secondo cui il privilegio dato a un senso umano, mediante una data tecnica, ristruttura fondamentalmente la nostra rappresentazione del reale. Per comprendere Mc Luhan è necessario entrare nel suo stile, nel suo mondo. Egli non scrive come scriverebbe un cartesiano. Non ha importanza se non si è d'accordo in tutto. Tuttavia non si dovrebbe evitare di porsi la domanda: «Ho coscienza di quello che sta accadendo oggi? Verso quale tipo di uomo andiamo?».

    Nascita di un uomo ingrandito

    Noi assistiamo a un supersviluppo dei sensi e del corpo dell'uomo ad opera dell'elettronica: tutti i mass-media rappresentano un'estensione di qualche capacità fisica o psichica dell'uomo. Cinema, radio, TV, provocano un'amplificazione della vista e dell'udito e quindi l'insorgere di un nuovo bisogno, il bisogno di vedere e di sentire.
    Ci determina anche un nuovo modo di vedere e di sentire: non possiamo più vivere senza questa dimensione ingrandita del nostro corpo. Ciò sarebbe in qualche modo un vivere incompleto, un'esistenza a bassa tensione.

    Due conseguenze

    Ne derivano almeno due conseguenze: il dovere di un ripensamento del concetto di «valutazione» del film e del programma televisivo e quindi l'accentuazione di un altro aspetto del problema morale, che è il vero problema dell'audiovisivo. Se la TV è l'abituale amplificazione del mio corpo, il vero interrogativo è questo: che cosa voglio fare del mio corpo? A chi e a che cosa lo voglio dare? La TV non rimane forse estranea al mio «io profondo»? Non vivo forse con questo corpo senza prenderne conoscenza, senza assumerlo?
    Mc Luhan presenta la vera diagnosi: noi abbiamo «ceduto» i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi ai manipolatori privati; cederli a una società commerciale significa cedere il linguaggio, dare l'atmosfera terrestre a un monopolio privato.
    Questo massaggio, questa manipolazione dei nostri sensi da parte dei mass-media diventa più importante dello stesso messaggio. La seconda conseguenza diagnosticata da Mc Luhan, è appunto il condizionamento della persona mediante questo corpo amplificato. Il fatto di utilizzare come «medium» di comunicazione questo o quest'altro mezzo, modella l'uomo più ancora del contenuto, cioè del messaggio oggettivamente comunicato dal mezzo stesso: sottoponendoci continuamente alle tecnologie, noi diventiamo i loro «servo-meccanismi». «Fisiologicamente l'uomo è continuamente modificato dalla sua tecnologia».
    Portando alle conseguenze ultime tale premessa, Mc Luhan giunge ad affermazioni paradossali e difficilmente ammissibili.

    La tesi di Mc Luhan va ridimensionata

    Pierre Babin, pur accettando fondamentalmente la tesi di Mc Luhan, la critica e la ridimensiona: è vero che ci sono gli ipnotizzati dal cinema e dalla TV, ma ci sono anche (e sempre più numerosi) quelli che scelgono la trasmissione, quelli per cui il criterio del contenuto è fondamentale. E ci sono anche i realizzatori, convinti che per fare una buona trasmissione occorra anzitutto aver qualcosa da comunicare e saperlo.
    Per lui il male morale sta piuttosto nel fatto che questo fenomeno impedisce la comunicazione tra uomo e uomo all'interno delle famiglie e dei gruppi umani, perché c'è chi si è lasciato ingrandire il corpo in senso più o meno narcisistico, e questo corpo non è più capace di comunicare, di parlare, di darsi ai propri cari.
    Ciò che è innegabile è che le forme dell'intelligenza e della cultura stanno cambiando. P.H. Lemon, in una riunione dell'Institut française de Presse, il 22 ottobre 1968, esprime questa mutazione dell'uomo colto: «... non può più essere esclusivamente un conoscitore, che accarezza eleganti rilegature e si inebria di belle forme e belle idee di un'antichità più o meno lontana: eccolo divenuto per forza un personaggio attivo, responsabile in mille modi, e che, con tutti i suoi mezzi, telefono, radio, televisione, libri nuovi ed organi di stampa di ogni formato e di ogni genere, deve stare al corrente e al contatto stesso del suo tempo».

    Caratteristiche dell'uomo nuovo

    Davvero la cultura come coscienza dell'attuale è la informazione. Pierre Babin così si sforza di puntualizzare le caratteristiche di quest'uomo nuovo:
    «Per quest'uomo audiovisivo, comprendere significa prima di tutto partecipare all'ordine e al movimento di questo mondo, significa sentirsi-con e sentirsi-dentro, cogliendo la realtà, non attraverso la sola intelligenza, ma per una specie di comunione che soddisfa e sazia. Al gusto della riflessione e dello spirito critico, succede sempre più in questi giovani, il gusto della partecipazione, l'invito alla prassi per una trasformazione o, per lo meno, per un miglioramento della condizione umana. Al gusto del ragionamento astratto, al pensiero formale e di un certo rigore letterario, succede il gusto di esprimersi, di creare liberamente».
    E lascia a ciascuno il compito di verificare nella propria esperienza, l'esattezza dello schema proposto, che ha valore prospettico e non statistico, non essendoci per ora studi statistici sull'argomento.

    IL LINGUAGGIO AUDIOVISIVO È ATTO A ESPRIMERE LA FEDE?

    A questo punto Pierre Babin si chiede se il linguaggio audiovisivo è atto ad esprimere la fede. L'opzione è «sì», con riserva.

    Vantaggi

    Il linguaggio audiovisivo risponde meglio di quello letterario alle tendenze di fondo del giovane degli anni '70. Presenta vantaggi innegabili: maggiore possibilità di partecipazione, di evocazione, di comunione affettiva con la realtà; maggiore sviluppo della creatività, per cui il giovane esce dalla passività, ha voglia di «trovare» più oltre e più profondamente, e non solo pensando, ma creando suoni, colori, forme plastiche...; maggiore esigenza d'implicazione personale.
    Da alcune esperienze già effettuate traspare il nuovo modo di conoscenza della fede legato all'audiovisivo: non si impara tanto dagli schemi astratti di pensiero, quanto dagli insiemi immaginari e dagli schemi di comportamento; si ricevono incitamenti ad agire, non tanto per identificazione o proiezione, quanto per rivelazione di sé. E questa rivelazione spinge immediatamente a riadattare la propria azione e il proprio comportamento nel senso della profondità e della perfezione che si è scoperto.
    Infine il linguaggio audiovisivo ha il vantaggio di sviluppare lo spirito di rottura e di contestazione, qualità che l'audiovisivo ha in comune con l'arte, perché ha maggior affinità con l'arte di quanto non ne abbia con la parola e col linguaggio scritto.
    Quindi, senza giungere a posizioni estreme, si può dire con Babin che «il linguaggio audiovisivo usato per esprimere la fede, porta ad una libertà d'espressione, a un amore tale per le forme assolute, che rende necessariamente contestatori rispetto a un ordine stabilito mediocre e banale».

    Rischi

    Il linguaggio audiovisivo, però, porta in primo luogo a una conoscenza meno precisa e meno rigorosa di quella raggiunta attraverso il libro e la parola.
    L'implicazione personale, lo scuotimento affettivo, lo stimolo alla creatività, la contestazione, esaltano la soggettività. Ed è proprio qui il rischio: quello di un minor rigore logico della conoscenza.
    Infatti, usare il linguaggio audiovisivo significa – al tempo stesso – informare rendendo presente, evocare suggerendo emotivamente, e proporre un senso, amplificando alcuni aspetti del reale.
    Questa situazione pone necessariamente problemi per la fede: mentre, dunque, si scopre la potenza del linguaggio evocatore e simbolico, e si utilizza un mezzo che esprime il significato divino della vita, meglio di quanto non lo esprimano la parola e lo scritto, non si può abbandonare senza compenso, un linguaggio più rigoroso e preciso, tanto più, perché viviamo in un'epoca in cui trionfa la conoscenza scientifica.
    In secondo luogo il linguaggio audiovisivo determina una minore struttura interna della personalità: la conoscenza è più di tipo «mosaico» che di tipo lineare: viene a mancare l'apertura, il senso delle direzioni, la capacità di connessioni rapide, di sintesi logiche.
    Si crea una struttura interna di tipo tutto diverso, per cui il senso delle cose giunge al giovane d'oggi, attraverso la comunicazione e attraverso una certa esperienza, più che attraverso un procedimento logico. Perciò è il tipo stesso di cristiano che cambia: questo nuovo tipo non può più essere animato da una vasta sintesi d'insieme che gli illumini l'esistenza, ma da un orientamento continuamente precisato, grazie a una ricerca permanente, condotta all'interno del suo gruppo.
    Non più sintesi, dunque, ma circuito di comunicazione, in cui ciascuno dovrà essere preparato a fare ogni giorno la propria sintesi.

    CONDIZIONI PER UN «SÌ» ALL'AUDIOVISIVO

    I vantaggi e i rischi esposti, e altri ancora che si potrebbero elencare, giustificano, dunque, l'opzione «sì»: il linguaggio audiovisivo sembra atto ad esprimere la fede, particolarmente nell'età adolescenziale, ma a patto di esigere alcune condizioni sancite dall'esperienza.
    Due sono preliminari: esso si rivela particolarmente conveniente a una iniziazione globale, specie per la prima infanzia, e la giovinezza, a motivo della maggiore affinità che presenta con i caratteri di questi stadi psicologici della vita umana.
    Essi sono infatti caratterizzati dal dominio dei sensi e della conoscenza simbolica; dalla prevalenza della fantasia e dei fattori emotivi nell'atto di conoscere; dall'importanza dell'ambiente psicologico e dall'importanza dell'identificazione nei processi della conoscenza; dalla sensibilità ai significati e alle direzioni più che alle forme della realtà; da un vivo senso della natura e dall'impressione di una specie d'immanenza del divino nella natura.
    Tali caratteri presentano evidenti affinità con il linguaggio audiovisivo. Esso si rivela, invece, meno adatto per la pre-adolescenza (9/12 anni circa) e per l'età adulta, che presentano caratteristiche diverse. E meno atto ancora alla scienza teologica, a causa dell'ambiguità che gli è peculiare.
    Fatte tali premesse, le condizioni indispensabili perché il linguaggio audiovisivo possa essere usato con frutto nella catechesi, sembrano le seguenti:

    • L'audiovisivo sia mezzo di comunicazione: se non suscita e non esprime le interrelazioni del gruppo, si dovrebbe abbandonare. Perciò il catechista deve vivere col gruppo l'esperienza audiovisiva e farsene, per così dire, il catalizzatore.
    Tale implicazione personale, deve assumere un forte carattere di comunicazione orizzontale, fraterna, della quale, forse, non tutti i catechisti sono ancora capaci. Si va verso un altro stile di rapporti umani e di comunicazione.
    L'importante, qui, è di impegnarvisi risolutamente, riuscendo, tuttavia, a conservare i valori fondamentali al di là del cambiamento delle forme.

    • L'audiovisivo sia a servizio della liberazione spirituale degli uomini: e il massimo punto della liberazione dell'uomo, consiste nel conoscere il messaggio di Cristo, per viverlo e farlo vivere agli altri.

    • L'audiovisivo sia un mezzo di espressione di sé, non di proiezione nel o di identificazione con l'altro, né, tanto meno, di acquiescenza passiva e acritica a quanto l'immagine e il suono esprimono e propongono.

    • L'audiovisivo non sia mezzo di oppressione della persona, ma sia per la persona strumento di quel giusto dominio della realtà che Dio ha assegnato all'uomo creandolo.

    • L'audiovisivo non sopprima la parola e il contatto personale: esso non deve escludere, ma includere gli altri mezzi di comunicazione, non sopprimere, ma amplificare.
    Lo stesso accostamento alla parola scritta, può venir stimolato dall'audiovisivo: si è notato che, dopo certi sceneggiati televisivi di opere teatrali, di poesia e di narrativa, è aumentata la vendita del libro scritto corrispondente, e similmente del giornale scritto, dopo notizie di importanti fatti e avvenimenti, date in sintesi dal telegiornale.

    • L'audiovisivo curi la qualità artistica: non tutte le immagini esteticamente perfette, sono buone dal punto di vista catechistico, però l'esperienza dimostra che il più delle volte la vibrazione spirituale dello spettatore rimane stimolata nella misura in cui l'audiovisivo esprime ciò che nell'uomo è profondo, intenso, totale ed assoluto, qualità di fondo delle più alte forme di creazione artistica.
    Certo, questa vibrazione non è la fede, ma è la sua condizione psicologica.

    • L'audiovisivo guidi alla fede nell'invisibile, attraverso le realtà visibili di questo nostro «oggi» della storia: «ut per visibilia ad invisibilium amorem rapiamur».

    In questo senso pare che il linguaggio audiovisivo risponda alle due direttive di fondo del nostro RdC: fedeltà a Dio e fedeltà all'uomo. Esso esige – però – «il passaggio da una Chiesa che indottrina a una Chiesa che testimonia Gesù Cristo», come ebbe a dire Mons. Schmit alla Assemblea episcopale di Lourdes, nel 1968; ed esige nei catechisti meno qualità di «docenti» e più di profeti, nel senso di uomini che vivono realmente nelle strutture e nelle forme del loro tempo, e sono perciò atti a guidare a una autentica «mentalità di fede» e a un reale «atteggiamento di fede», proprio perché sanno cogliere nell'oggi le linee del futuro.


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