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    Una giornata alla «scuola di preghiera»



    Centro missionario «P. De Foucauld» - Cuneo

    (NPG 1972-12-64)


    LA COMUNITA' MISSIONARIA «P. DE FOUCAULD»: L'IMPOSSIBILE È POSSIBILE

    P. Gasparino, vice-parroco in un paesino del Cuneese, nell'immediato dopoguerra si è trovato circondato da uno stuolo di ragazzini cui le bombe e il fronte avevano tolto i genitori.
    Si deve fare qualcosa per loro. Un pezzo di pane, una volta ogni tanto, non basta. Hanno bisogno di una casa, di un po' di affetto, di tanta speranza per il domani. Il padre si mette al loro servizio, raccogliendoli nella sua casa.
    I «ragazzi» di P. Gasparino si sono presto moltiplicati. Con una cinquantina sulle spalle, il padre si guarda attorno. «Chi mi dà una mano? Attendo qualcuno che sia disposto a dare la propria vita. Non si può fare servizio ai poveri a metà tempo».
    I ragazzi si costruiscono, mattone su mattone, la loro casa, nella estrema periferia di Cuneo. Il padre trova chi «butti la propria vita», per loro.

    Nascono la «città dei ragazzi» e le fraternità

    5 o 6 ragazze, prima. Poi alcuni ragazzi più generosi, della famiglia di P. Gasparino, che cresciuti decidono di ricambiare su altri l'affetto che hanno ritrovato. Il padre ha fatto riscoprire la gioia di vivere: la vita, riconquistata, deve essere regalata ad altri. E così nasce la prima comunità di collaboratori.
    Il problema non è giuridico: religiosi o non religiosi? È più di fondo: con quali motivazioni «buttare la propria vita», al servizio degli altri. Bisogna cercare una spiritualità, che dia sapore alla propria azione. La comunità scopre il Vangelo, letto nello spirito di P. De Foucauld, trovando così una sua vocazione di servizio, con un dono di cui arricchire se stessa e gli altri, nella chiesa.
    La nostra comunità si è costruita un decalogo. È un po' la nostra fotografia.
    Il decalogo non è completo - siamo solo al numero 7 - perché pensiamo che abbiamo ancora tante cose da fare e da imparare.

    Primo comandamento: mai pronunciare la parola impossibile

    Noi siamo convinti che sfruttiamo solo sempre il venti, il trenta, il cinquanta per cento dei doni che Dio ci dà: e qualche volta non ne sfruttiamo nessuno. Questo, diciamo noi, non è abbandono alla Provvidenza, è insulto alla Provvidenza. Ne abbiamo avuto tante prove nella nostra esperienza. Eccone alcune:
    - Abbiamo tirato su un'opera quasi colossale (superiore almeno alla nostra statura) senza nulla.
    - Abbiamo avviato tutte le nostre fondazioni missionarie del Terzo Mondo dal nulla (quelle che non son nate così stanno zoppicando).
    - Teniamo in piedi una rete di soccorso al Terzo Mondo con nulla, senza fondi, senza appoggi umani, senza pubblicità, senza attrezzature di propaganda.
    - Ci vietiamo rigorosamente qualsiasi propaganda per arruolare tra noi gioventù generosa. Mentre tante Comunità lamentano la così detta «crisi di vocazioni» per noi il problema è l'opposto, per noi l'unico problema è la «selezione delle vocazioni».

    Secondo comandamento: dare a tutti e non chiedere mai nulla a nessuno

    Perché ci siamo convinti:
    - che riceve soprattutto chi dà, che riceve di più chi dà di più, che il comando di Gesù «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» è un imperativo per tutti, non è consiglio per anime pie;
    - che la gente è stufa dei questuanti e rispetta chi ha rispetto della libertà del prossimo nel dare;
    - che la gente ha una venerazione somma per chi è staccato dal denaro e da ogni speculazione o furberia finanziaria. E per questo ci vietiamo ogni compromesso col denaro: nessuna iniziativa di lucro (banchi di beneficenza, sottoscrizioni, sollecitazioni);
    - accettare l'ingratitudine degli uomini è una potente leva sul cuore di Dio. Quando uno sputa sulla mano che lo ha salvato, quella mano diventa benedetta e protetta misteriosamente da Dio;
    - non rompere le scatole al prossimo è oltremodo simpatico e attraente.

    Terzo comandamento: aiutati che il ciel t'aiuta

    - È un dogma.
    - È un dogma nell'uomo.
    - È un dogma su Dio.
    Così noi abbiamo sperimentato che facendo tutto da noi quello che possiamo, si fa meglio, si fa con più amore, si fa risparmiando molto.
    - Quanto amore hanno i nostri ragazzi a queste mura tirate su pietra su pietra da loro.
    - Quanto amore hanno le nostre Sorelle Brasiliane, Africane, Koreane per i loro noviziati costruiti con le loro mani, pezzo per pezzo, mattone su mattone!
    - Quanta cura si ha per le cose create da noi con tanti sacrifici.
    - Qui, con un muratore solo, abbiamo creato una piccola città.
    - E da questo piccolo mondo industrioso son nati i costruttori di altri piccoli mondi industriosi in Africa, in Asia, in America Latina.
    - Lavorando sodo, l'ingegno si aguzza: io sono diventato - modestia a parte - son diventato architetto, ingegnere, capomastro; faccio alla strapazzona il muratore, l'elettricista, il falegname, e ora sto imparando a fare il saldatore da contrabbando e presto tenterò il mestiere di idraulico... grazie al dogma: «aiutati che il ciel t'aiuta».

    Quarto comandamento: e la necessità che crea l'organo

    Lo disse Darwin, se non sbaglio. Noi ci crediamo con tutto il cuore.
    - Dovendo stampare siamo diventati stampatori (e la nostra tipografia ora è una piccola editrice).
    - Dovendo costruire siamo diventati costruttori.
    - Dovendo educare siamo diventati educatori (non lo saremo mai, ma sentiamo il problema del divenire).
    - Dovendo organizzare siamo diventati organizzatori.
    - Dovendo cavarcela con nulla noi non ci spaventiamo più di nulla.

    Quinto comandamento: abolire il parassitismo

    Chi non è intraprendente qui non può restare. Chi aspetta la pappa fatta qui non ce la fa. Chi non si dà da fare soccombe.
    Una giovane sorella, super-attiva, che rivoluzionava da sola mezza diocesi, venendo tra noi ci confidava: «Ma voi non date fiato! Voi ci sfiancate, non ho mai lavorato sodo così in vita mia».
    È una gioia questa, ed è anche un complimento. Io preferirei dire che e una grazia: da noi è impossibile annoiarsi. E uno è obbligato a tirar fuori tutte le risorse, tutti i talenti nascosti consciamente o inconsciamente sotto terra.
    E quando sentiamo dire che in certi Noviziati debbono scervellarsi per occupare il tempo alle Novizie, a noi viene la pelle d'oca. E non riusciamo a capacitarci che con questi chiari di luna possa esistere gente che si annoia e che questa gente è giovane ed è consacrata a Dio.
    - Abolire il parassitismo vuol dire che noi possiamo sobbarcarci tutti i servizi, e fare a meno del personale che le grandi organizzazioni chiamano indispensabile, perché tutti ci sforziamo di imparare tutto: chi era in cattedra impara a lavorare in lavanderia, chi lavorava al banco del meccanico ora studia medicina, chi insegnava impara a maneggiare le pentole, chi dirigeva un dispensario impara a cucir vestiti. Il prete fa il muratore e il muratore studia da prete.

    Sesto comandamento: non darci pace e non essere mai contenti di noi stessi

    - Ci siamo impegnati a concepire la nostra Regola come la «regola del provvisorio» cioè una regola sempre in cammino che non si ferma mai, che scopre sempre qualcosa, che si rinnova sempre, che si adegua sempre.
    - Perciò ogni anno ci raduniamo in Assemblea per rinnovare le strutture smontarle, ripulirle, rimontarle, cambiarle.
    - Non considerarci mai degli arrivati, ma dei tesi in una marcia incessante che non arriverà mai ad una conclusione fossilizzata.

    Settimo comandamento: imparare a più non posso da tutti: sempre, in tutti i luoghi, a tutti i livelli

    - Il prete impara a maneggiare la cazzuola, l'operaio impara a maneggiare i libri, l'insegnante impara a scopare i pavimenti, e chi scopava impara ad evangelizzare.
    - Tutti gli anni dedichiamo un mese a sparpagliarci per tutta Europa e imparare da tutte le Comunità dove ci pare «soffi lo Spirito», per imparare qualcosa di più: Taizé, Hautecourt, Prado, Darmstadt...
    E poi confrontiamo, riassumiamo, tiriamo le somme.
    E ci fermiamo qui, al settimo comandamento (settimo, non rubare!), perché gli altri comandamenti dobbiamo ancora inventarli, abbiamo ancora troppo cammino da fare.
    E ne ringraziamo di cuore il buon Dio.

    La «città dei ragazzi» cambia vocazione

    Sono passati i tempi duri del dopoguerra. Oggi l'assistenza pubblica copre molti settori che la chiesa aveva assunto, in una necessaria opera di supplenza. I fratelli della comunità hanno scelto il servizio ai più poveri. I ragazzi che gremiscono la «città dei ragazzi» non sono più «i più poveri».
    Quindi si fa un'opzione più radicale: la missione. Partono i primi missionari. Si decide di chiudere la «città dei ragazzi», per aprire a tutti la strada verso le missioni. Ma il progetto segnato dalla Provvidenza per la comunità di P. Gasparino era parzialmente diverso.
    La comunità viveva, in estrema povertà, una vita di preghiera e di lavoro. Maturava, nella riflessione, i propri valori. Era pronta a irraggiarli. Il «salto» è capitato lentamente, senza che nessuno lo volesse. Qualche gruppo di giovani chiede ospitalità, per ritiro. La vita della comunità incanta. I giovani ritornano. I primi, fedelissimi, diventano un fiume: 200 o 300 all'anno.
    La «città dei ragazzi» cambia nome e vocazione. Il «centro missionario» è la meta di gruppi giovanili che vogliono riscoprire la preghiera, nel silenzio, nel lavoro, nella solitudine del deserto di P. De Foucauld. La comunità si interroga.
    Come rispondere a questa nuova chiamata dello Spirito?
    Nasce l'esigenza di qualcosa di più «organizzato», di più preciso. Sono ormai due anni che il «centro» è una scuola di preghiera, per giovani, per coppie di sposi, per sacerdoti.

    La «scuola di preghiera»: una proposta

    Questa esperienza di «scuola di preghiera» è la proposta che la comunità fa, attraverso le pagine della rivista, ai tanti gruppi giovanili che cercano di riscoprire il significato e il ruolo della preghiera, in una civiltà secolarizzata.
    Le esperienze sono raccontate, così come sono state ascoltate dalla viva voce del P. Gasparino, dei fratelli della comunità, dei molti giovani presenti nella giornata che abbiamo vissuto al «centro missionario» di Cuneo.
    Le testimonianze si intrecciano con la cronaca, i valori vissuti in un momento felice diventano universali e comunicabili sulla lunghezza d'onda dei gruppi giovanili vivi: il collage, costruito in redazione, tenta un quadro organico e articolato, anche se, come sempre, sfuoca i contorni, appiattendo la vita a livello di racconto.
    Per verificare la portata reale dell'esperienza abbiamo poi incontrato un gruppo giovanile, tra i tanti nati all'ombra della scuola di preghiera. Le impressioni di questi giovani sono un po' lo specchio di rifrazione delle pagine che precedono.

    LA SCUOLA DI PREGHIERA

    Da due anni a questa parte, ogni primo sabato del mese, c'è la scuola di preghiera. I giovani vengono in massa: 500, 600 ogni volta.
    La prima cosa che incontrano e che li prende, forse la più vera «scuola di preghiera», è il trovarsi inseriti in una comunità che prega, o meglio, in una comunità fondata sulla preghiera: noi crediamo vivamente alla preghiera, per questo abbiamo adorazione permanente, giorno e notte. Di giovani ne vengono tanti che la nostra preoccupazione, oggi, è di salvare il silenzio della comunità. Dobbiamo difenderci un po'. È verissimo però un fatto: la comunità, mentre fa questo servizio ai giovani e ne sembra superficialmente distratta, ci guadagna invece immensamente. I giovani ci fanno progredire. Comprendiamo che più diamo, più dobbiamo diventare noi ricchi. La nostra comunità è maturata maggiormente alla preghiera, proprio il giorno in cui ha spalancato le porte ai giovani, a dare a tutti qualcosa di sé.
    Che cosa è questa «scuola di preghiera»?
    È uno spirito, un clima, un atteggiamento interiore in cui i giovani partecipanti sono immersi. Ed un insieme di momenti, a cui siamo giunti sulla linea dell'esperienza: l'adorazione, la riflessione comunitaria, la celebrazione dell'Eucaristia. Questi momenti concreti sono gli elementi che costruiscono l'atteggiamento di spirito di cui si parlava prima, proprio perché sono vissuti in quel contesto particolare che è lo spazio della nostra comunità: un ambiente naturale molto raccolto e semplice, una comunità che vive in un certo modo, un alone che crea lo stato di attesa nei giovani che vengono (sanno già di che si tratta... e vengono proprio per questo ! ).

    La scuola di preghiera: un clima di preghiera

    Abbiamo chiesto al padre di chiarire ai nostri lettori in che cosa consiste la scuola di preghiera, al di là degli elementi «tecnici» di cui si compone e dei quali parleremo in seguito.

    In che cosa consiste e che cosa volete raggiungere con la «scuola»?
    Ogni mese ci ritroviamo per quella che chiamiamo «scuola di preghiera». Parlare di «scuola» di preghiera è improprio, perché tutte le scuole, prima o poi, finiscono mentre la nostra non finisce mai.
    Se voi mi chiedeste: «Si può andare a una scuola di vita?», risponderei: «Per imparare a vivere bisogna vivere». Allo stesso modo per imparare a pregare bisogna pregare.
    Direi quindi che la scuola di preghiera è una «partenza».
    La preghiera è come la vita: la vita è sempre in cammino, è un andare avanti, è un continuo perfezionarsi...
    Per comprendere a fondo il significato della scuola di preghiera, è necessario che lei ci aiuti a capire che cosa è la preghiera, nella sua esperienza e nella vita della sua comunità.

    Che cosa è per voi «pregare»?
    Pregare è amare. Tutto quello che non è amare è contorno, preparazione, conseguenza della preghiera. Ma non è preghiera. Preghiera è amare. Come Gesù ha insegnato a pregare? Il Padre nostro è un lungo elenco di atti di amore. Non la mia, ma la tua volontà.
    Quindi, pregare è «fare dei fatti», per amore. Noi insistiamo molto su questo punto.
    Quando facciamo tante cose ma non amiamo, noi non preghiamo.
    Un paradosso: finita la preghiera comincia la preghiera. La preghiera della vita vissuta per amore, sul metro di come io attuo la volontà di Dio. Per questo, raccomandiamo una preghiera povera, molto povera.
    Poche parole e molto silenzio: pensare, volere, concludere, decidere... «Signore, che cosa vuoi da me?...». E qualche volta: «Signore, pietà di me!». È la vita che va ripensata, nella preghiera. Incominciare a pregare significa, per molti, cambiare tutta la vita.
    È difficile dire di più. L'amore non si può descrivere, con delle parole. Si rischia di rovinare tutto.
    Forse è meglio che vi dica quali sono le idee-nocciolo che indirizzano l'impostazione della nostra preghiera, e quindi della nostra scuola. Riprendo qualcuna delle cose dette prima, con più ordine. Va bene?
    - Prima idea: pregare è amare, e non si ama a parole, si ama a fatti. Questo lo ha detto Gesù: quando ci ha insegnato a pregare ci ha dato il «Padre nostro» che è composto di sette atti d'amore. Anche l'invocazione «dacci oggi il nostro pane quotidiano» non è una richiesta egoistica, perché intanto dice «nostro», cioè mi fa guardare agli altri (a chi ha fame...), ma soprattutto perché la frase è mal tradotta e gli esegeti moderni la intendono così «dacci oggi il nostro pane soprasostanziale», cioè dacci la volontà di fare bene.

    Gli Evangelisti che cosa ci dicono a questo riguardo?
    - ci presentano questa «istantanea» di Gesù, fotografato nella preghiera, nel momento più duro: «Padre, non la mia, ma la tua volontà sia fatta»;
    - ci riferiscono questa affermazione di Gesù, chiara e precisa: «Non chi dice Signore, Signore, entrerà nel Regno dei Cieli, ma chi fa la volontà del Padre...».
    Ecco la presentazione della preghiera: non è altro che amore in pratica. Quindi, se la preghiera è per noi solo parole, non è preghiera, perché non è amore a fatti.
    - Pregare non è girare intorno a me stesso, è affrontare me stesso, è esaminare il mio agire.
    Se non cerco incessantemente ciò che il Signore vuole da me, sono fuori della preghiera. E allora ripetiamo sovente l'invocazione «Signore, cosa vuoi da me?».
    - Spesso non sentiamo la voce del Signore perché non lo lasciamo parlare: abbiamo troppe parole da dire! Ecco perché diciamo che per imparare a pregare bisogna imparare a fare silenzio.
    Il silenzio è indispensabile per esaminarci e per far scattare la nostra volontà.

    Da dove partire, per arrivare alla preghiera: preghiera personale o preghiera comunitaria?
    Credo che sia necessario partire dalla preghiera individuale se si vuole giungere a quella comunitaria, sapendola valorizzare al massimo. Se io non sono capace di interiorizzare una preghiera personale, difficilmente riuscirò ad interiorizzare la liturgia. Anzi, c'è il rischio di lasciarsi prendere dall'entusiasmo che suscita la partecipazione liturgica, senza interiorizzare nulla. Questa preghiera non mi è uno stimolo alla conversione, al cambiamento di vita. Se invece sono abituato alla riflessione, ad interiorizzare... allora la liturgia mi parla, mi scuote, mi converte.
    È chiaro: le due cose sono complementari, non alternative. Ma, a mio parere, sarebbe errato partire dall'aspetto comunitario. Con un paragone, la liturgia dovrebbe essere la fiamma e la preghiera individuale il candelabro.
    La scuola di preghiera tenta di salvare questo ritmo: prima la preghiera personale poi quella comunitaria.
    Incominciamo dall'adorazione che ha lo scopo di interiorizzare la Parola di Dio meditata, di ascoltare la sua voce, di ripensare con tranquillità alla nostra vita.
    Concludiamo con la celebrazione eucaristica; ad essa facciamo confluire la nostra preghiera personale. È possibile viverla intensamente proprio perché è stata «preparata».
    Si può affermare che la verifica della verità della propria preghiera è la vita, le cose che si fanno «dopo». Ci sono dei giovani che dicono di riuscire a fare un servizio pieno agli altri, anche senza pregare. Anzi, spesso si incontrano giovani che non pregano mai, molto più onesti e impegnati di coloro che pregano.
    Queste obiezioni... ce le sentiamo tutti i giorni. L'azione che non parta dalla riflessione, si insabbia sempre o in egoismo, o in superficialità, o nell'esteriorismo del fare tanto per fare.
    La preghiera non ha solo la funzione di riflessione prima e dopo l'azione. L'azione che parte dalla preghiera è di altra natura: la preghiera è riflessione davanti a Dio.
    La nostra esperienza ce lo conferma. Ci sono gruppi che fanno della preghiera il perno della loro vita e si interessano dei subnormali, dei carcerati, di tutti gli sbocchi possibili e immaginabili di impegno sociale. È segno che la preghiera costruisce qualcosa. Ed è valido il contrario, spesso: quando smettono di pregare, l'entusiasmo un po' alla volta scade e addio servizio...
    La preghiera è il mezzo attraverso cui si fa una selezione naturale tra il giovane superficiale e quello che vuol costruire qualcosa di serio. Nella scuola di preghiera, insistiamo molto su queste dimensioni.
    C'è di più. I giovani che pregano «salvano» il loro prete, l'animatore del loro gruppo. Ne ho incontrati più di uno di preti che mi hanno detto: «I giovani hanno salvato il mio sacerdozio». Quando ci sono giovani che tutti i giorni vogliono fare un'ora di preghiera e poi lavorano, studiano, si danno da fare per coloro che soffrono... il prete non può stare a dormire. Il gruppo che prega dà al suo prete molto di più di quello che lui dona loro. Si tratta solo di cominciare. Con coraggio e tanta fede.

    I momenti della scuola di preghiera

    Sulla scia della nostra esperienza, la scuola di preghiera ha ormai un certo ritmo abbastanza codificato. Sono tre i momenti principali: l'adorazione, la messa in comune delle esperienze, l'eucaristia conclusiva della giornata. Il tutto in un pomeriggio, dalle 14 a sera.

    L'adorazione

    Un'ora di silenzio, di riflessione personale, davanti al Santissimo esposto. Insistiamo sulla preghiera e riflessione personale: sulla adorazione eucaristica vera e propria.
    Qualche canto, all'inizio, soprattutto per creare il clima. A metà, il padre fa una brevissima istruzione, legata ad un tema che percorre l'arco dell'anno. Ha la funzione di creare un collegamento nella preghiera, quasi per dare ad essa una certa dimensione catechistica ed educativa. E poi, di nuovo, silenzio. Soli: a tu per tu con se stessi e con Cristo. Gli altri sfumano, si sfuocano, per diventare un grido. La voce dei «poveri», nella prospettiva della salvezza, in Cristo.
    L'ora passa veloce. La dimestichezza al silenzio dei veterani sostiene qualche volto incerto, qualche sguardo che porta dipinto l'interrogativo di questo mondo strano in cui, di colpo, ci si è trovati immersi. Fuori, la vita corre veloce, nel rumore delle macchine che passano sullo stradone. È un altro mondo. Lontano. Il mondo di sempre, visto con occhi nuovi.
    Vi parlo sul grande mezzo che alimenta la nostra fede, che sostiene la nostra carità, che rafforza la nostra povertà, che purifica la nostra miseria.
    L'adorazione è una cosa assai faticosa. È molto più facile meditare, ancor più facile far preghiera vocale, ancor di più far pie letture.
    E di fatto si evade con facilità. Anche quando se ne è scoperta tutta la bellezza, c'è sempre la tentazione di evadere. Ma quando si è arrivati, si ha la netta impressione di aver scoperto la chiave di tutta la vita spirituale; si ha la netta impressione di aver trovato tutto.
    Tentiamo anzitutto di capire che cosa è l'adorazione eucaristica.
    L'adorazione eucariseica è stare davanti a Gesù Eucaristia dandosi a Lui.
    Quasi sempre la nostra preghiera è un prendere, l'adorazione invece è un dare. Ma che cosa do? Il mio amore!
    L'adorazione non sarà dunque stare davanti a Gesù ripetendogli che lo amo? Non direi che è esattamente questo.
    L'adorazione non è un dare a parole - che è tanto semplice - ma è un dare a fatti, che è una cosa ben diversa.
    L'adorazione si può fare senza dire parole: chi ama veramente non ha tante parole da dire, fa e dona se stesso.
    Quando io dico al Signore che lo amo (e lo posso anche esprimere senza parole o formule), io intendo dire: «Signore, voglio essere come mi vuoi tu, in modo perfetto: la mia carità non avrà incrinature, il mio dovere sarà compiuto con perfezione, riparerò a quella viltà, sistemerò quella cosa che ti dispiace. Ti amo, o Signore, voglio fare cioè tutta la tua volontà, la tua, non la mia: voglio ubbidire, voglio essere povero, voglio mortificarmi, voglio essere come mi vuoi tu». Se questa volontà è ripetuta (torno a dire che non c'è bisogno di grandi parole), è offerta, è ripresentata infinite volte, sono infiniti atti di amore.
    P. De Foucauld ha definito così l'adorazione: «Guardare al Signore amandolo». E S. Teresa d'Avila ha scritto: «Più una preghiera contiene amore, più è preghiera».
    L'adorazione allora si potrebbe chiamare «la preghiera d'amore», cioè la vera preghiera. L'adorazione è dunque una preghiera attivissima, anche se è senza parole, perché è la preghiera del donarsi a Gesù.
    Vorrei fare un passo avanti: l'adorazione è la continuazione della mia Messa. Chi non ha capito la Messa non può capire a fondo l'adorazione.
    Chi non afferra l'anima, il senso profondo dell'adorazione, priva la sua Messa di qualcosa di molto importante, oserei dire di essenziale.
    Infatti se la Messa non si inserisce nella nostra vita trasformandola, a che vale la nostra Messa?
    La Messa è la mia inserzione nell'atto redentivo di Gesù, l'adorazione è la continuazione incessante, amorosa della mia Messa. La Vittima Divina che al mattino ho offerto al Padre - e con cui mi sono offerto - nell'adorazione eucaristica è lì presente che continua la sua immolazione e mi invita a continuare la mia immolazione.
    L'adorazione è la Messa che continua.
    L'adorazione non si può concepire staccata dalla Messa. Alla Messa io comincio la mia adorazione, nell'adorazione io continuo la mia Messa. Alla Messa io mi inserisco nell'atto redentivo di Gesù, nell'adorazione io rinnovo, purifico, completo, la mia volontà redentiva: la volontà cioè si unisce più completamente, più profondamente all'atto redentivo di Gesù.
    Voglio darvi qualche consiglio molto pratico:
    * Preparatevi sempre all'adorazione: la preparazione è il primo elemento che assicura il buon esito dell'adorazione.
    * Attaccate subito: siamo tanto bambini! Voi sapete che i piccoli tergiversano sempre davanti ai doveri gravosi; ci vuol fatica a far loro affrontare con impegno, dal primo momento, il dovere.
    «Attaccare subito», con buona volontà, significa mettere una premessa ben sicura di buona riuscita all'adorazione. Fate attenzione ai primi minuti: non tradite rubando qualcosa ai primi minuti, potreste rovinare tutto.
    * Curate di avere un fisico efficiente: P. De Foucauld, che era tanto mortificato consigliava perfino una tazza di caffè prima dell'adorazione. Se trovate fatica a stare in ginocchio, non fatene una grossa questione, sedetevi in santa pace: non è la vostra posizione l'oggetto più importante nell'adorazione, è il vostro cuore! Se il cuore è ben desto stando seduti o in una posizione comoda, rimanete così.
    Qualche volta, però, la pigrizia, la tiepidezza si vincono curando anche la posizione del corpo, scegliendo una posizione di maggior sacrificio.
    * Fate un allenamento razionale, sensato all'adorazione: in principio concedete un po' di più alla lettura o alla preghiera vocale, poi diminuite. L'ideale è che la vostra ora sia tutto uno slancio d'amore al Signore, ma non si arriva lì se non per gradi.
    * Un buon allenamento all'adorazione credo sia costituito dalla preghiera di ringraziamento. Direi anche che potete usare la preghiera di ringraziamento come elemento riposante nella vostra adorazione.
    Un principiante che dia molto tempo della sua adorazione a ringraziare il Signore dei benefici ricevuti, spirituali e materiali, direi che fa bene e rende anche molto piacevole la sua adorazione.
    Non si deve cercare questo, si capisce, perché l'adorazione è un dare, non un prendere, ma in principio soprattutto un po' di soddisfazione fa sopportare di più questo dovere tanto gravoso.
    Pensate com'è bello star lì davanti al Signore a dirgli grazie dei doni materiali e spirituali che vi ha fatto e che vi fa.
    Ringraziamo tanto poco!
    * C'è chi ama dividere la sua adorazione in quattro grandi atti: adorazione ringraziamento, propiziazione (implorazione di perdono), domanda. Sono le quattro grandi espressioni della preghiera. Il metodo sta bene come inizio e modo di allenamento. È accessibile a tutti, perché è vario. Ma va inteso come allenamento alla preghiera contemplativa, non va inteso, penso, per se stesso. Più si progredisce, più la preghiera diventa semplice.
    * Il dono dell'adorazione ben fatta (il dono dell'orazione contemplativa potremmo dire) è un dono di Dio! Lo dovete implorare umilmente. Iddio ve lo darà perché vi è tanto necessario.

    L'assemblea

    Una parte molto importante della scuola di preghiera è l'assemblea che segue all'adorazione. Un piccolo gesto, molto apprezzato, fa da ponte; la comunità offre il caffè a tutti i partecipanti. Quando i giovani sono tanti (arrivano fino a 700...) è un po' difficile. Cerchiamo però di giungere veramente a tutti, con delicatezza e con un bel sorriso. Il caffè serve ad unirci: a farci sentire una grande famiglia.
    Poi l'assemblea. Tema d'obbligo: la preghiera.
    La preghiera è un fatto che investe tutta la persona, anche la sua intelligenza, pur non essendo riducibile ad un fatto intellettivo. Molti giovani non pregano, perché non «credono» alla preghiera: le obiezioni di ordine razionale alla preghiera soffocano la preghiera. Educare alla preghiera significa, quindi, anche sbarazzare il terreno da queste obiezioni.
    Nello stesso tempo è necessario «insegnare» a pregare, far vedere come è possibile pregare, in un contesto sociale come è quello in cui viviamo. Insegnare a pregare, per i giovani, significa soprattutto mettere a contatto con gente che ha provato a pregare: «uomini vicini», qualcuno che essi sentano totalmente dalla loro parte e premuti dagli stessi loro quotidiani interrogativi. La scuola di preghiera diventa quindi presentazione di «esperienze», di modelli di comportamento (membri della comunità o gruppi giovanili), che hanno provato e ci sono riusciti.
    In sintesi, sono perciò due i momenti caratteristici:

    - La comunicazione delle esperienze
    Uno della comunità parla della sua esperienza di preghiera. Poche parole, spontanee. Povere parole ma tremendamente vere.
    Poi intervengono i giovani presenti. Qualche gruppo racconta un po' della sua vita di preghiera: parla delle difficoltà, delle scelte, delle scoperte.
    * Ritengo che la fede sia un argomento essenziale nella vita di un cristiano. Qualche volta nelle difficoltà ci arrendiamo proprio per mancanza di fede.
    Guardando alla mia vita mi accorgo che la fede l'ho assimilata dai miei genitori.
    Penso che questo dovrebbe servire da stimolo e incoraggiamento a ciascuno ad agire nello spirito della fede verso i loro amici, parenti, persone con cui si divide la vita, anche se pare che questi non avvertano o non capiscano quanto si dice o quanto si fa per loro.
    Ricordo che, da bambina, mi colpivano certi atteggiamenti dei miei genitori, anche se davanti a loro non volevo dare l'impressione di accettare, ma che poi, da sola, mi facevano riflettere molto e mi portavano a delle convinzioni.
    Ricordo, fra tanti, un piccolo avvenimento.
    In famiglia si doveva dividere l'eredità del nonno. In quell'occasione la mamma ci aveva radunati, noi piccoli, e ci aveva fatto pregare spiegandoci che non importava se avremmo avuto più o meno denaro ma l'importante era che non avvenissero litigi in famiglia.
    Riflettendo poi tra me dopo questo fatto avevo capito una cosa: che è più importante non litigare che avere dei soldi.
    Mia madre quindi mi aveva trasmesso qualcosa, senza accorgersene o forse senza avere l'impressione che in quel momento io ricevessi qualcosa.
    lo credo che un papà e una mamma trasmettono la fede ai figli vivendola Un'altra cosa che mi aveva colpita da bambina era il vedere mio padre a pregare, il vedere la convinzione con cui pregava, che allora non capivo bene ma che mi faceva comprendere che lui era in comunicazione con Dio.
    Io credo proprio che i genitori possano trasmettere la fede ai loro figli cominciando di lì, a pregare veramente.
    I figli, anche se non sembra, osservano e assimilano dal comportamento dei genitori un atteggiamento che verrà fuori dopo, ma verrà fuori certamente e porterà frutto.
    * I fatti recenti che hanno un po' frastornato tutti noi (la morte di Eligio e della mamma di Gianni) a me hanno anche insegnato questo: nella preghiera forse sarebbe bene inserire (oltre al ringraziamento) anche il pensiero del trapasso Ricordo una frase di Papa Giovanni che dice: «Per diventare santi dovreste sempre considerare, nel momento in cui fate un'azione, come se quella fosse l'ultima azione della vostra vita».
    Certamente, se noi assumessimo questo atteggiamento, indubbiamente in altro modo, vivremmo veramente quello che chiamiamo «il momento presente», in quanto questo atteggiamento ci aiuterebbe a considerare che la vita è poi valida in quanto è proiezione verso questo momento finale: il trapasso.
    Molti santi ci hanno dato l'esempio a questo riguardo.
    Per me questa considerazione si è rivelata un elemento valido da inserire nella mia preghiera. E non è un elemento di tristezza anzi può essere un elemento di gioia se pensiamo che la morte di molti santi era per loro il momento della massima felicità.
    * La mia esperienza è tanto diversa da quelle che ho ascoltato finora lo, da ragazzo, non ho mai avuto esempi di fede dai miei genitori.
    Questo mi fa pensare a quanto sia grande il Signore, che arriva persino a scavalcare quello che è il canale principale per arrivare alla fede e a tutto lo sviluppo della persona. Il Signore ha delle risorse inesauribili...
    Per me la strada della fede ha seguito un percorso inverso: invece che mio padre ml trasmettesse lui la fede, il Signore si è servito di me per portare lui alla fede.
    Nella mia vita ho vissuto momenti di fede molto forti: l'essermi dato a Dio non ml procurava alcun dolore, anzi mi dava un senso di liberazione della mia vita che non riesco a descrivere.
    Però ho costatato che certi atti di fede non basta farli una volta per poi vivere dl rendita, per poi adagiarsi tranquillamente.
    In questi giorni, in particolare, ho ripensato che la preghiera non è altro che rinnovare questo atteggiamento di abbandono in Dio.
    Per me è importante rendermi conto come non si possa vivere di rendita nella fede, come tutti i giorni sia necessario fare dei tagli, sganciarsi, abbandonarsi lasciare qualcosa.
    Trovo che questo non è sempre facile: ecco perché in fondo la fede è amor.
    La fede richiede sempre di fare dei passi in avanti, di affrontare dei rischi, di lasciarsi scombinare i piani di ogni giorno, i piani della vita.
    Vedo proprio come a volte sia faticoso fare questo distacco, questo abbandono, che qualche volta non faccio, e vedo anche come mi trovo infelice quando non lo faccio!
    * La preghiera, in questo periodo di preparazione al matrimonio, mi serve moltissimo, specialmente per ridimensionare le cose e in particolare i rapporti con la famiglia e con il mio fidanzato.
    Certe volte, se non prego, vedo ostacoli che sembrano insormontabili. La preghiera invece ridimensiona tutto, fa vedere le cose nella loro giusta luce.
    Così nelle divergenze che succede qualche volta di avere fra di noi, se prego riesco ad agire in modo diverso da come mi sentirei portata, con maggiore comprensione, e mi è più facile perdonare...

    - I quesiti sulla preghiera
    Dopo la comunicazione di esperienze, la conversazione assume più i toni «tecnici»...: si crea un clima di «scuola». Parlare di toni «tecnici» e di «scuola»... è scherzare. Ci vuol altro. Andiamo a scuola gli uni dagli altri. Andiamo a scuola dalla vita. O, piuttosto, assieme ci mettiamo alla scuola di Gesù che dice qualcosa agli uni attraverso l'esperienza degli altri.
    Chi ha dei problemi, degli interrogativi sulla preghiera, li mette in comune. Il padre, qualcuno della comunità, tutti i presenti, tentano di dargli una mano per costruirsi una risposta.
    Qualche volta la risposta è semplice: «Prova e vedrai»; qualche altra più complicata: si tratta di rispolverare un po' di teologia, di aprire assieme il Vangelo, per scoprire il pensiero di Gesù.
    Talvolta è difficile per tutti trovare una risposta. E lasciamo la domanda in sospeso. Ci «preghiamo un po' su», nell'attesa che l'esperienza di preghiera ci aiuti a vederci più chiaro.
    * Ci sono periodi (quando tutto va bene) in cui è abbastanza facile pregare; ma in altre situazioni, quando si ha l'impressione che tutto vada a rotoli, e difficile pregare. Come fare?
    Il malato per guarire deve prendere la medicina.
    Allo stesso modo, è quando non ci sentiamo di pregare, quando ci viene l'astio della preghiera che noi abbiamo assoluto bisogno di pregare.
    È quando le cose vanno male che conta veramente pregare, perché la preghiera diventa amore; quando la preghiera è facile, è come se Dio ci desse a «succhiare una caramella» per farci assaporare la preghiera e prepararci ai momenti di difficoltà.
    * Se la preghiera è amore e deve cambiare la mia vita, sono gli altri che si devono accorgere se io prego?
    Per forza, gli altri si devono accorgere della nostra preghiera, a cominciare da quelli che ci stanno più intorno, in famiglia, e poi gli altri che stanno uscio a uscio vicino a noi, e poi quelli con cui lavoriamo, e poi quelli che hanno contatti con noi o che incontriamo per strada, e via via tutti gli altri.
    Sono proprio costoro che devono accorgersi se la mia è vera preghiera.
    * Si è detto che bisogna pregare sempre, anche da «cattivi». In questo mese ho sperimentato la preghiera dei momenti difficili, dei momenti in cui mi sentivo fuori posto. Ho capito che il momento in cui mi sento «cattivo» è proprio il momento della preghiera.
    Il risultato di questo sforzo mi ha dato il coraggio di tornare indietro (chiedere scusa) e mi ha anche dato soddisfazione.
    La preghiera in queste circostanze deve «fermare la macchina che va giù della riva»: in altre parole, la preghiera può almeno fare questo: non lascia progredire il male.
    * Ci vuole coraggio a pregare, perché lo scoraggiamento minaccia ogni momento, soprattutto quando ci si sente «cattivi».

    Come fare per ridare slancio alla preghiera?
    Certamente la preghiera aiuta in modo decisivo in questi momenti.
    Dopo anni e anni, qualche giorno fa ho potuto passare una giornata di deserto: mi ha sollevato lo spirito. Ho tirato il respiro su molte cose che mi scoraggiavano e ho trovato pace.
    L'altra sera i bambini mi hanno fatto inquietare in modo insolito: ero tentato di andarmene a letto e lasciar perdere tutto; invece, fermandomi un momento a riflettere, ho pregato e questo mi ha dato una forza che certamente non veniva da me e mi ha fatto vedere le cose in una luce diversa, più chiara. In quel momento si ha persino il coraggio di ritornare indietro...
    * Mi pare che qui si presenti la preghiera come una forma di poesia che risolve tutto.
    La realtà è ben diversa. Nel mio ambiente di lavoro, in cui ci sono anche persone consacrate, non vedo l'applicazione concreta della preghiera.
    Il modo di pregare che ci viene presentato qui è l'opposto della preghiera poetica. La preghiera che noi vogliamo realizzare è la preghiera tradotta nella vita. Io non mi preoccuperei dell'atteggiamento di chi mi sta vicino: la rivoluzione della preghiera sta nel cambiare noi stessi e non nel volerlo dagli altri.
    Il cambiare degli altri sarà lo specchio, il riflesso di come siamo riusciti a cambiare la nostra vita.
    * La preghiera e per me un momento piuttosto nero. Ho provato a fare un quarto d'ora di silenzio, ma trovo che è molto faticoso.
    Mi succede poi che pregando vedo soprattutto le difficoltà e non la soluzione delle cose.
    La preghiera non è una cosa facile, è un fatto straordinario. Proprio perché non è facile bisogna lanciarsi con coraggio, e non da soli, perché la forza la riceviamo specialmente dagli altri.
    * Se pregare è amare, mi accorgo che un mio amico, che si dice ateo, è molto più generoso di me...
    Quando uno si mette nel «guscio» della preghiera ha già raggiunto lo scopo della preghiera.
    Dobbiamo svestirci di certe idee sbagliate sulla preghiera. Pregare vuol dire inserirci nel nostro dovere. Pregare vuol dire accettare la volontà di Dio nel momento presente.
    * Da un po' di tempo non sono più venuto alla «scuola» anche perché mi sono scoraggiato: sentivo che c'era gente che prega molto e io non ci riesco.
    Oggi invece vedo che le cose sono diverse: mi pare di ritrovarmi di più...
    ... State attenti, però, a non rifugiarvi nel «chi lavora prega...» perché potrebbe voler dire «chi fa quattrini prega...» e sarebbe una grossa evasione dalla preghiera.
    Datevi da fare per dividervi a gruppetti.
    La nostra scuola non è un «gruppo di preghiera», ma vuole essere la «partenza» per formare dei gruppetti, che si ritrovino magari a metà mese, per toccare il polso alla vostra preghiera, per mettere in comune le esperienze: l'esperienza degli uni si trasmette agli altri... (facendo però attenzione a non evadere, a non divagare, perché nei gruppi questo è facile...).

    La celebrazione dell'Eucarestia

    La giornata di scuola di preghiera si conclude sempre con la celebrazione dell'Eucaristia. Non è un caso o uno sbocco tanto per concludere con qualcosa di «normale». La celebrazione eucaristica, lo spezzare il pane assieme, fratelli e giovani, è davvero il punto di confluenza di tutta la giornata. La scuola di preghiera sarebbe monca, se non finisse nell'Eucaristia. È una Messa «comune», quotidiana, ma resa viva, partecipata al massimo, dall'impegno di tutti e dalle «mani piene» che ciascuno si ritrova, dopo una giornata vissuta nella preghiera.
    I canti, il clima, l'entusiasmo giovanile la rendono particolarmente festosa. Le facce conosciute che ci si ritrova d'intorno, quegli stessi volti accanto ai quali ci si è immersi nel silenzio dell'adorazione e che si sono sentiti vicini nella comunicazione di esperienze, danno presto un respiro di comunità viva.
    Ci sono tre momenti nella Messa che vengono sottolineati con maggior cura, perché particolarmente congeniali al ritmo della «scuola di preghiera».
    La preghiera, se è vera, cambia la vita. Chi prega «si cambia». L'atto penitenziale d'inizio è un lungo esame di coscienza per verificare la disponibilità alla conversione, quasi per toccare con mano «quanto» la preghiera ci ha cambiati e quanto abbiamo bisogno ancora di convertire in noi, per essere come Gesù ci vuole.
    In secondo luogo, viene sottolineata con insistenza particolare la preghiera dei fedeli, lasciando largo spazio ai suggerimenti di tutta l'assemblea, che il padre riprende con cura, per dare a ciascuna invocazione quel respiro universale che ci faccia sentire chiesa. Per allargare il cerchio di interesse, percependo veramente «le gioie e le speranze, le tristezze e i dolori» di tutti gli uomini, come pane di questa celebrazione e di tutta la nostra preghiera.
    Mentre le intenzioni di preghiera si intrecciano, la vita, quella che sembrava abbandonata sulla soglia del «centro», ritorna prorompente. Diversa e profondamente naturale. Ci impegna tutti e ci fa sentire all'interno di un progetto di salvezza molto più vasto delle nostre attese. Ci fa sentire nell'amore della pasqua di Gesù. E questo educa veramente la nostra preghiera: da una parte chiede a tutti un'immediata verifica nella vita quotidiana e dall'altra affonda il comune impegno in una nuova dimensione di amore e di speranza.
    Dopo la comunione, si dà largo spazio al ringraziamento. Ciascuno aiuta l'altro a ringraziare il Signore. La fretta di vivere non ci permette di scoprire i meravigliosi doni di cui siamo circondati. Gli uomini ringraziano così raramente il Signore! La nostra preghiera deve allargare invece il cuore alla riconoscenza, alla fede, all'amore. Deve farsi voce dei tanti fratelli che corrono sulle strade del mondo, senza trovare il tempo di dire grazie a colui da cui ricevono tutto ciò che li rende felici e frettolosi di vivere. Nell'Eucaristia, la preghiera di ringraziamento diventa comunione con Cristo, che è il grazie più grande pronunciato dagli uomini al Padre.

    IL DESERTO

    La scuola di preghiera è il primo «bombardamento». Scuote e costringe a prendere posizione. Chiede di scegliere. I giovani più sensibili domandano alla comunità: «A questo punto, che facciamo?». Non basta più la mezza giornata del primo sabato di ogni mese.
    La scuola di preghiera ha costruito l'esigenza del «deserto». La proposta che il Padre fa è sempre la stessa: vieni a fare una esperienza di preghiera con la comunità, un deserto.
    All'inizio si tratta di un paio di giorni: dal sabato mattina alla domenica sera. Qualcuno, lentamente, chiede di più. Allora l'esperienza del deserto è vissuta senza mezzi termini: una settimana.

    L'esperienza

    In che cosa consiste il deserto?
    Nella partecipazione intensa, totale alla vita della nostra comunità. Prima di tutto, i giovani sono invitati ad entrare a fondo nel clima di raccoglimento che caratterizza la comunità, accettando il rispetto e l'amore per la solitudine e il silenzio. È la base. Senza questo atteggiamento i giovani devono rinunciare: possono fare tante altre cose, ma non un deserto. Senza disponibilità alla solitudine e al silenzio, la loro presenza sarebbe soltanto di intralcio al ritmo della vita di tutti.
    L'orario di una giornata di deserto è molto dettagliato, il ritmo veramente pieno.

    al mattino
    - messa con omelia
    - un'ora di meditazione personale sulla Parola di Dio: adorazione
    - un'ora di conversazione con qualche fratello, sulla stessa pagina della Parola di Dio meditata personalmente
    - lavoro: in silenzio

    al pomeriggio
    - un'ora di adorazione: senza tema fisso
    - lavoro: in silenzio
    - revisione di vita

    La comunità organizza 5 o 6 esperienze di deserto ogni anno; ed è disponibile ad ospitare gruppi già articolati che intendono vivere questa esperienza con la guida di qualche membro della comunità.
    Il punto focale è l'adorazione: due o tre ore di adorazione alla giornata. Altro perno: la meditazione, individuale e comunitaria, della Parola di Dio. Il giovane si incontra con qualche fratello o sorella della comunità.
    Assieme leggono una pagina del Vangelo. Cercano di entrarvi dentro, appieno. Ne fanno, assieme, oggetto di meditazione e di preghiera, per tutta la giornata.
    Poi c'è il lavoro manuale, sempre in silenzio. Serve a sollevare un po' la mente e soprattutto a far entrare nel progetto di Dio che chiede di guadagnarsi il pane che si mangia. E intanto si impara a fare veramente del lavoro quotidiano una continua preghiera. I lavori sono molto semplici: la pulizia della casa, lavori in campagna o in tipografia...
    È chiaro che non tutto è facile, soprattutto per chi è alle prime armi. La difficoltà più grossa è il silenzio. Oggi i giovani, forse come sempre, lo trovano molto duro. Ma la comunità vi insiste, come su di un pilastro. Il silenzio è essenziale, per la preghiera e per la meditazione.
    I giovani che hanno il coraggio di accettare totalmente il silenzio, dopo una settimana di deserto se ne partono contenti, rifatti.
    Il deserto costruisce i gruppi. Sembra strano, ma è così. Molti gruppi sono nati proprio da qui.
    Il deserto crea una sete di preghiera. Chi ha provato, vuole continuare, anche se con un ritmo diverso, a casa propria. Quindi si circonda di amici. Chi ha vissuto la gioia dell'esperienza di deserto, se ne fa un promotore, tra gli amici. Il circolo si chiude. Nasce il gruppo: un gruppo fondato sulla preghiera. Sono i gruppi più seri e più consistenti.

    Il deserto a casa propria

    L'esperienza del deserto e la riscoperta della preghiera... non è una cosa trascendentale. È alla portata di tutti. Non è neppure necessario venire fino a Cuneo.
    Il padre, a chi chiede consigli, generalmente dice: «Non bisogna partire dalla massa. Ci vuole un gruppetto, qualcuno. Ma soprattutto ci vuole che il prete ci creda e cominci lui a pregare. Il guaio è che oggi i preti non pregano più. E allora addio gruppo di preghiera... La mia esperienza mi fa dire che tutti i gruppi che hanno sfondato e che si sono realizzati e che tengono duro... avevano sempre alle spalle un prete pieno di fede. Uno che sapeva pregare!».
    L'esperienza del deserto ricorda un altro fatto, importante.
    Per i giovani l'educazione alla preghiera avviene per partecipazione. Il giovane ha bisogno di un esempio. Quando vede una comunità che prega, che passa la notte in adorazione, si mette in crisi e si interroga.
    Quando poi vede i frutti della preghiera, rovescia le ultime rimostranze. Oggi i giovani hanno scoperto la necessità dell'azione per gli altri. Hanno una gran paura delle parole o delle cose che allontanano dalla azione. Qualcuno rifiuta la preghiera per poter scegliere l'azione.
    Questa comunità che passa la notte in preghiera, lavora poi tra i poveri, tra i lebbrosi. Perché? Perché prega: «Sentiamo l'urgenza della carità perché preghiamo».
    Il deserto apre alla carità che dà tutto, radicandola nella motivazione profonda dell'amore. Pregare è amare.

    L'ESPERIENZA DI CHI HA PROVATO

    Al termine della giornata di scuola di preghiera, abbiamo incontrato un gruppo di giovani che da qualche mese segue l'esperienza del «centro». Il gruppo è nato qui. Alcuni giovani hanno fatto un deserto assieme, senza conoscersi precedentemente. Il deserto li ha legati, reciprocamente, facendo nascere il desiderio di continuare a vivere secondo le prospettive scoperte. La preghiera ha creato il gruppo.
    Ora, il gruppo ha una sua vita. I momenti di ricarica interiore sono costituiti dalla partecipazione assidua alla scuola di preghiera, dalla revisione di vita settimanale (preceduta sempre da mezz'ora di adorazione) e dalle celebrazioni comunitarie dell'Eucaristia. Dalla vita interna sono sbocciate una serie di attività a carattere sociale: un servizio agli emarginati, agli anziani del ricovero cittadino, un impegno nella scuola.
    A questi giovani abbiamo chiesto un parere sulla scuola di preghiera e sull'esperienza di deserto. Trascriviamo qualche battuta, tra le tante, della registrazione. L'origine del gruppo e la maturità raggiunta dai membri segnano la conferma sperimentale delle intuizioni di P. Gasparino e della fraternità di Cuneo.

    Difficoltà e scoperte alla scuola di preghiera

    Che cosa ricordate dell'esperienza di deserto?
    Quali sono le cose che vi hanno colpito di più? E quelle che vi sono sembrate le più dure?
    Vi pare che la vostra esperienza possa essere vissuta da altri giovani o è una cosa eccezionale?
    Ho fatto un deserto, alcuni mesi. Una cosa molto forte. Ho sentito calare dentro la mia vita la preghiera. Posso dire quasi che quel deserto è stata l'inaugurazione della mia preghiera. Ma non è stato facile.
    Dopo il deserto ero esaltato. Quando sono tornato alla vita di tutti i giorni, sono incominciate le batoste! Allora ho cercato di separare l'entusiasmo dai valori. Oggi, a mesi di distanza, incomincio a capire le cose che ho vissuto nel deserto. Che cosa mi ha colpito?
    Tutto. E non è poco. Il modo di vivere, la serietà dello spazio dato alla preghiera e all'ascolto della Parola di Dio. Oggi sento il bisogno di tradurre questi fatti nella mia vita normale.
    Nel silenzio, ho scoperto le persone. Sembra strano. Non ci parlavamo. Ma sapevamo di viaggiare tutti verso uno stesso progetto. Bastava un sorriso, per incontrarci.
    Nel silenzio, sono riuscito a leggermi dentro. Ho avvertito che dovevo essere diverso. Che c'era qualcosa che andava cambiato.
    L'ora di adorazione era dura. È dura ancora oggi, quando tentiamo di farla in gruppo. Ma, impegnandosi, ne esce qualcosa. È come un faro acceso nella notte. Si cammina sulla scia di questa luce, anche se tutt'attorno c'è solo buio.
    Ci sono sbalzi, «perdite di strada»... ma poi la luce riprende e si incomincia di nuovo a camminare.
    L'adorazione... le prime volte è veramente una cosa molto dura. Restare in silenzio. Pensare ad un passo del Vangelo. Poi, un po' per volta, si ingrana. Bisogna accontentarsi di partire da poco.
    Durante l'adorazione, io faccio silenzio. Cerco di ascoltare. Me l'ha insegnato il padre. Cercare di ascoltare qual è la volontà di Dio nei miei confronti.
    C'è da sentirsi sconvolti.
    Ero stata educata ad andare in chiesa a parlare: pregare era dire tante parole al Signore. Invece oggi ascolto. Le prime volte, questo mi faceva stare male. Davvero. Non ci riuscivo. Mi pareva una cosa impossibile. Nel gruppo ho scoperto che le mie difficoltà erano di tutti. Ci siamo, allora, messi assieme.
    Abbiamo stabilito un'ora di adorazione da vivere assieme. Questo «obbligarci», mi ha aiutato. Ci ha aiutato.
    Io ho fatto esperienza di romitaggio. Un deserto più duro. Sono vissuto due giorni da solo, nel silenzio.
    Ho riscoperto tutti i valori che avevo ritrovato nel deserto e che avevo perso, rullato dalla vita di tutti i giorni. La vita non è semplice...
    Ho sentito il bisogno di riprendermi. Di riproporre, in questi due giorni di solitudine, i temi del deserto.
    Il gruppo mi ha protetto alle spalle: nei giorni prima del romitaggio e durante.
    Se non fosse stato per il gruppo, avrei mollato, più di una volta. Mi dava la forza di continuare, di tirare avanti, di sbagliare e di riprendermi.
    Se ho pensato di venire a fare il romitaggio è perché c'è stato un desiderio comune, di tutto il gruppo, di continuare.

    La scuola di preghiera nella vita quotidiana

    Oggi i giovani sentono il rischio dell'alienazione. Non vogliono, cioè, fare delle cose «speciali», che non siano inserite nella vita di tutti i giorni.
    Voi avete l'impressione che la scuola di preghiera e il deserto c'entrino con la vita quotidiana, oppure no? Preghiera e vita vanno d'accordo?
    Vanno d'accordo, in pieno. La mia vita è diventata diversa da quando ho incominciato a pregare.
    Pregando ho scoperto chi sono e che cosa devo fare.
    Altro che alienazione, la preghiera. Senza preghiera, la vita sì che è alienata!
    lo non ho fatto romitaggio. Ho cercato di vivere una esperienza diversa. Provare a fare il deserto a casa mia. Una cosa che non avevo mai fatto. Ho concluso il deserto oggi, venendo su.
    Perché l'ho fatto? Per fare una scoperta che mi pare importante. Quando ci sono momenti difficili non è sempre possibile avere l'opportunità di un deserto. Anzi, non è neppure giusto. È un po'... scappare. In questi giorni ho provato a vedere se riuscivo a fare chiarezza in me, standomene a casa, con tutta la gente che ho sempre attorno. Ho cercato di organizzare la giornata come la si vive qui.
    Qui si fa lavoro manuale, pregando. Io dovevo studiare o aiutare in casa. L'ho fatto pensando al significato del lavoro.
    Mi sono poi fermata due volte durante la giornata a fare adorazione e a leggere la Parola e a meditare. La cappella è stato il profondo di me stessa. Ho cercato infine di stare vicino veramente a tutti quelli che ho vicino. Spesso si passa la vita accanto ad altri, senza neppure accorgersene, senza nemmeno regalare un sorriso.

    Preghiera: un pomeriggio perso all'«impegno politico»?

    Un'ultima questione, legata proprio al fatto di aver trascorso un pomeriggio qui. Qualche giovane potrebbe dirvi: avete impiegato male il vostro tempo. Con tutto il bisogno che c'è in giro di aiutare i poveri, di liberare gli oppressi, di... fare un po' di rivoluzione, voi ve ne state tranquilli a discutere e a pregare! Ha ragione, secondo voi, chi la pensa cosi (e non sono pochi!)?
    La preghiera è una perdita di tempo che aiuta a recuperare tempo. Lo ha insegnato il padre. Ed è vero.
    La vera preghiera è quella che ci cambia. Come?
    Diventare diversi significa aiutare gli altri, riorganizzare la nostra giornata...
    Io non credo alla rivoluzione che cambi solo le cose dall'esterno. La preghiera mi aiuta a cambiare dentro. Forse è la cosa più importante.
    Io sento molto forte l'esigenza della rivoluzione: cambiare il sistema. Ma mi pare che non sia in contraddizione con lo spendere un pomeriggio a riflettere e a pregare.
    Mi pare che le due cose vadano molto assieme. Nel momento in cui mi impegno a cambiare qualcosa, devo avere la forza per farlo. E soltanto nella preghiera io trovo la forza per avere un impegno che sia veramente servizio verso gli altri e non egoismo, una ricerca di me stessa, della mia idea e della mia affermazione.
    Cambiare significa realizzare un modo diverso di essere. Quale? La preghiera mi aiuta a costruire un progetto che poi cercherò di realizzare.
    Per questo non trovo mai che è tempo perso mettermi a pregare, anche se ho una gran voglia di agire.


    T e r z a
    p a g i n A


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