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    Educazione liberatrice in America Latina



    Egidio Viganò

    (NPG 1972-11-02)

    In molti contesti, dalle pagine di questa rivista come altrove, è affiorato il discorso sulla «educazione liberatrice», letta come il volto nuovo di ogni impegno educativo.
    Per molti, ormai, il tema è scontato. La «parola» evoca immediatamente prospettive precise, di contenuti e di metodi.
    Per altri, forse, il termine corre il rischio incombente a tutte le parole nuove: servire a mascherare, con etichette altisonanti, la trita realtà di sempre. Qualche volta si percepisce istintivamente che con «quella» parola si mira soprattutto là... ma è oggettivamente difficile stringere tra le mani qualcosa di concreto.
    Tutti motivi, questi e altri, che ci chiedono di ricorrere ad una «explicatio terminorum», per dirla nelle categorie classiche...
    Lo facciamo, partendo dal concreto.
    In America Latina, l'educazione liberatrice tende a diventare una prassi corrente, almeno a livello di sensibilità. Che cosa, quindi, in America Latina si vive, con questa tensione? Quali sono i contenuti specifici con cui si definisce la nuova percezione? Questo articolo tenta una risposta agli interrogativi.
    È necessario, però, aggiungere due cose importanti, almeno dal nostro punto di vista.
    Crediamo che la storia della Chiesa (e le esperienze delle varie chiese locali) è un «luogo teologico».
    Ci spieghiamo, per i non addetti ai lavori...
    Non ci interessa ciò che fanno in America Latina, solo perché ormai siamo inseriti in una prospettiva mondiale e quindi ogni soluzione investe anche I nostri problemi. E neppure a solo titolo di modello.
    Prima di tutto, ci interessiamo della loro vita ecclesiale e delle nuove percezioni che là sono affiorate, per una dimensione di fede. L'esperienza della chiesa dell'America Latina «rivela» a noi una chiave di comprensione della perenne Parola di salvezza. Ascoltare ciò che si fa in una chiesa locale è un atto di fede, necessario per leggere oggi il Vangelo.
    Il taglio dello studio è decisamente pastorale: affonda le sue radici nella teologia per aprire ad indicazioni a carattere educativo. A questo livello si situa perciò bene all'interno di due filoni di temi che la rivista sta portando avanti: l'impegno politico e la scuola.
    L'articolo non si limita alla denuncia o a prospettare un «dover-essere», come molte volte è stato fatto in precedenti studi, ma, mentre tocca risvolti educativi e «costruttivi», fa proposte concrete ed operative. Tanto concrete... che l'autore è preoccupato di leggerci, all'interno, i rischi immanenti.
    Con questa chiave di lettura, lo studio può assumere un significato molto più ampio di quanto può apparire dal titolo. Coinvolge la situazione pastorale italiana, in alcuni punti tra i più nevralgici (impegno politico, fede, secolarizzazione, ideologie e pericolo di un certo orizzontalismo...).
    L'approccio è facile: basta un minimo di sensibilità e quel pizzico di inventività pastorale che «Il rinnovamento della catechesi» raccomanda a tutti gli operatori (RdC, 159 e 162).

    SITUAZIONE DELL'AMERICA LATINA

    Deficienza

    Per parlare di «Educazione liberatrice in America Latina» è necessario ricordare, anche se assai brevemente, alcuni aspetti della situazione di sottosviluppo riguardo all'educazione, senza pretendere di toccare tutta la enorme problematica economico-sociale-politica.
    C'è o c'è stato finora, riguardo all'educazione, una situazione di inadeguatezza e di deficienza, o, per essere più esatti e più incisivi, di vera ingiustizia. Accenniamo rapidamente:
    • masse enormi emarginate dalla cultura (su 300 milioni, 100 milioni di analfabeti!);
    • un'educazione formale – l'educazione chiamata sistematica – di tipo classica, con un metodo anacronistico di trasmissione di bagagli di nozioni, e quindi o un sistema scolastico umanistico orientato alla difesa dello statu quo, o un sistema scolastico tecnico-professionale pragmatista e immediatista per ottenere soluzioni svelte di piccoli problemi;
    • per ciò che si riferisce alla cosiddetta educazione asistematica, un massiccio assenteismo e un uso dei mezzi di comunicazione assai politicizzato, ideologicizzato e poco liberatore;
    • una enorme lentezza nella democraticizzazione dell'educazione, soprattutto a livello universitario; trapianto di preoccupazioni universitarie di altre culture, che non rispondono ai problemi propri del Continente;
    • inesistenza o insufficienza di studio e di riflessione in alcuni campi di particolare urgenza come quello socio-politico e quello di una teologia viva e orientatrice.

    Volontà di cambio

    Ho riunito fin qui dei «titoli» di alcuni elementi di inadeguatezza e di ingiustizia nell'ambito educazionale. È indispensabile aggiungere che in America Latina c'è una forte e crescente coscienza di questa inadeguatezza ed ingiustizia: i latino-americani oggi sono coscienti di questo enorme squilibrio e non accettano più una simile situazione; vivono, per dirla con un termine caratteristico nell'ambiente, in atteggiamento di «rivoluzione». L'inadeguatezza e l'ingiustizia, divenuti oggetto di coscienza, provocano un atteggiamento rivoluzionario. Il latino-americano di oggi (almeno il più rappresentativo) non accetta l'attuale situazione e cerca un cambio molto profondo. Ha la coscienza chiara che la soluzione ai suoi problemi non gli viene da un'altra cultura; la soluzione non procede da una collaborazione educativa colonializzatrice, ma da un impegno originale di globalità culturale.
    Il problema dell'educazione appare così immerso vitalmente nel campo socio-politico. È in questo campo che il latino-americano di oggi cerca la sua vera possibilità di crescita e di indipendenza; è in questo campo che si concentrano i grandi problemi della sua attuale liberazione. Orbene: è anche in questo campo che appare una sfida urgente al cristianesimo. Il latino-americano impegnato nei cambi dell'ambito socio-politico si trova con un elemento di investigazione, di critica, d'interpretazione della sua situazione che non è cristiano, e che gli si presenta come scientifico: il marxismo. Sorge allora, nel suo atteggiamento rivoluzionario, una concreta tentazione marxista; gli sembra che il marxismo gli si avvicini con più capacità oggettiva d'interpretare e di risolvere i problemi urgenti della liberazione.
    Parlo di «tentazione», parlo di ciò che si sente; parlo di una situazione in cui ho vissuto fino a ieri. Il fatto che in un determinato momento il clima intellettuale e l'ambiente politico di una repubblica si vada saturando di marxismo, obbliga tutti a fare una specie di lavaggio cerebrale della propria mentalità; e noi abbiamo trovato che una quantità non piccola del bagaglio nozionale che avevamo ricevuto non ci serviva più. Sentirsi spogliati, quasi denudati, di una cultura superata; sentirsi obbligati ad affrontare la realtà, a leggere più la prassi che i libri e con vera oggettività, è come incominciare da capo, non perché piccoli, ma perché responsabili. Voler dialogare sinceramente con la gioventù universitaria di tal ambiente, con professori, con amici che si dicono marxisti «perché» sono cristiani, con operai e sindacalisti, con tanti emarginati ormai disillusi, diviene inaspettatamente quasi impossibile; ci si trova fuori acqua; si sente che la propria mentalità e il bagaglio delle nozioni che si hanno in testa si muovono in altri piani; ci si sente come estraniati ed alienati dalla vera realtà vissuta.
    Si sperimentano anche certe vertigini della tentazione: se il problema è la liberazione dell'uomo, e si presenta in concreto un solo metodo portatore di efficacia immediata, bisognerà accettarlo anche se non piace tanto: magari anche sbagliarsi, ma sbagliarsi in favore dell'uomo! È un senso di simpatia per l'uomo paragonabile un po' a quello che sentiva San Paolo riguardo alla salvezza dei suoi connazionali: Io mi farei anche anatema pur di salvarli. Anche oggi qualcuno potrebbe dire: magari mi sbaglio con questa analisi scientifica del marxismo, ma mi sbaglio in favore dell'uomo, mi sbaglio in favore della libertà.
    Non è che io voglio, in questo momento, giustificare tale tentazione; mi preoccupo solo di presentare realisticamente una situazione.
    I cambi profondi e rapidi si faranno alla luce di una critica la più scientifica possibile della situazione socio-politica e con un impegno realista che usi gli strumenti che fanno marciare la storia. Se adesso ci vengono a dire che lo strumento che fa marciare la storia è la critica marxista della prassi, bisognerà non solo discutere se tale affermazione vale o non vale, ma anche individuare delle alternative e illuminare cristianamente le possibilità concrete.

    LINEE ECCLESIALI

    La Chiesa vuole essere presente nell'attuale trasformazione dell'America Latina secondo gli orientamenti del Concilio Vaticano II. In questo senso ha preso posizione ufficialmente a Medellìn nell'anno 1968. Ne conoscete i documenti. Il Popolo dei credenti dovrebbe essere il fermento della trasformazione dell'America Latina. Essere «Chiesa» vuol dire essere solidali alla storia dei popoli latino-americani; quindi essere presente in dialogo con le loro necessità concrete. Se voi prendete i documenti di Medellìn, vedrete che anche l'ordinamento delle Conclusioni dei Vescovi partono dalla promozione umana del Continente. I primi cinque grandi temi sono temi di «promozione umana»; poi vengono i temi «dell'evangelizzazione e della catechesi»; e, infine, quelli delle «strutture ecclesiali» da rinnovare.
    In questa presenza dialogata ordinata alla trasformazione dell'America Latina, l'Episcopato presenta varie linee di rinnovamento.
    Ci interessa, qui, ricordarne due:
    – prima, la rinnovata ecclesiologia del Vaticano II, ossia l'impegno vitale del Popolo di Dio, con tutto ciò che significa questa espressione, di capovolgimento nella maniera di realizzare la pastorale e di vivere la vocazione ecclesiale con partecipazione e corresponsabilità;
    – seconda, il superamento della dicotomia tra la fede e la vita, tra fede e storia: presentare una fede, un essere cristiano che dia un senso concreto alla costruzione della nuova società latino-americana, quindi una fede che sia fermento della storia, come già diceva la «Gaudium et spes».
    Secondo l'Episcopato, nell'attuale situazione latino-americana il «mezzo-chiave» per la Chiesa di realizzare la sua missione è proprio l'educazione: per liberare i popoli latino-americani dall'alienazione, per essere presenti in dialogo in questa ricerca rivoluzionaria, che cosa deve fare la Chiesa? Medellin risponde: educare!
    Perché questa scelta? Lo dice chiaramente il documento sulla Giustizia: perché in un momento di cambio di strutture e in un momento di tentazione marxista è necessario sottolineare che l'originalità del cristianesimo è il cambio dell'uomo. Non che non si debbano cambiare le strutture. Senz'altro, senza cambio di strutture non c'è cambio in America-Latina; però il cambio di strutture senza l'uomo nuovo, è insufficiente e, di fatto, ingannevole; l'originalità cristiana che si deve sottolineare oggi è il cambio dell'uomo, vincolato senz'altro con il cambio delle strutture, ma come primordiale, come causa dello stesso cambio delle strutture: «L'originalità del messaggio cristiano non consiste direttamente nell'affermazione delle necessità di un cambio di strutture, ma nell'insistenza sulla conversione dell'uomo, che esige poi anche quel cambio. Non avremo un Continente nuovo senza strutture nuove e rinnovate; soprattutto però, non ci sarà Continente nuovo senza uomini nuovi, che alla luce del Vangelo sappiano essere veramente liberi e responsabili» (Giustizia, n. 3).
    L'uomo è il responsabile e l'artefice principale dei suoi esiti e dei suoi insuccessi; da qui la scelta dell'educazione come mezzo-chiave; però si tratta di una educazione creatrice, ossia una educazione che abbia un obiettivo molto concreto, proprio in vista del cambio profondo da realizzare. Un'educazione che deve servire per costruire una nuova società, degli uomini nuovi, per l'America Latina di domani. Quindi un'educazione «liberatrice», che renda capace l'uomo latino-americano di superare le schiavitù e le inadeguatezze in cui vive per costruire una comunità umana nuova, in cui sia possibile essere più libero e, quindi, anche più cristiano. Per realizzare una simile educazione liberatrice, Medellìn pensa sia un errore da evitare quello di identificare l'educazione con i mezzi con cui la si è realizzata finora, come sono la scuola, il collegio, l'università. Sottolinea l'importanza di dedicarsi a settori nuovi che reclamano con urgenza la presenza dell'educatore; però riconsidera anche la funzione specifica della scuola e dell'Università, sottolineandone il rinnovamento.

    EDUCAZIONE LIBERATRICE

    Ma che cos'è questa «educazione liberatrice» che ci propongono i documenti di Medellìn per l'America Latina di oggi?
    È un'attività formatrice preoccupata dello sviluppo integrale dell'uomo latino-americano, secondo le attuali esigenze di trasformazione del Continente.

    Caratteristiche

    ♦ Innanzitutto, l'educazione liberatrice è una «educazione permanente». Che cosa implica di novità il concetto di «educazione permanente»? È un'educazione che si riferisce all'uomo nella sua totalità, durante tutta la sua esistenza e per renderlo capace di affrontare tutti i problemi della vita. La preparazione dell'uomo a vivere la totalità della sua vita. Però, trattandosi dell'America Latina, significa la preparazione dell'uomo a vivere in una società totalmente differente da quella che si è conosciuta fino adesso. L'antica stabilità e sicurezza è sparita; la cultura di ieri deve, in un certo senso, cadere. Che cosa si costruisce al suo posto? Non è da credere che ci siano delle formule già fatte per la sostituzione!

     Nuova pedagogia. Non si tratta di «sostituire» ma di «creare». E per creare non c'è proprio bisogno di formule, ma piuttosto di una mentalità nuova, di una fantasia giovanile e di una metodologia dinamica di partecipazione. L'educazione permanente esige una nuova pedagogia, tanto che si è inventato un termine distinto: invece di «pedagogia» si parla di «andragogia». In tale rinnovata attività educatrice, i mezzi per fare pedagogia, e particolarmente la scuola, cambiano totalmente la loro immagine; implicano un dialogo permanente di ricerca in comune tra i classici «educatori» ed «educandi», ossia esigono un capovolgimento metodologico: non c'è più solo un maestro che fa tutto, ma c'è un fare insieme, c'è la partecipazione. Tre rinnovamenti pedagogici caratterizzano questa «andragogia»: l'autovalutazione, l'autoformazione e l'autogestione. Ossia, una forte partecipazione e coscientizzazione nelle attività pedagogiche.

     Coscientizzazione. L'educazione permanente ha come preoccupazione molto concreta l'analisi della situazione in cui si vive e la creazione di un progetto di soluzione dei problemi più urgenti che opprimono. Di qui il qualificativo di «liberatrice» all'educazione che si vuol realizzare, perché tanto l'analisi della realtà quanto il progetto di soluzione fanno vedere che si tratta del superamento di schiavitù e di alienazioni indegne dell'uomo libero.

     L'educazione liberatrice esige una nuova antropologia, sente un forte bisogno, anzi l'indispensabilità, di una intelligente e costante presenza del «filosofo» e del «teologo». L'educazione liberatrice eleva un forte clamore per esprimere una incontenibile esigenza: la necessità di una antropologia filosofica e teologica, un'antropologia cristiana. Senza di essa non si rinnova né si sviluppa una nuova pedagogia.

     Clima di originalità. Voglio indicare adesso alcune caratteristiche originali che accompagnano concretamente l'educazione liberatrice.

    Aspetti originali

    • Centralità della prassi storica. L'educazione liberatrice parte da fatti e da interrogativi ricevuti realisticamente dal mondo; considera con somma attenzione i condizionamenti economici e socio-culturali; prende in conto le nuove relazioni che esistono oggi tra l'uomo e la natura, l'umanizzazione della terra; ed ha una sensibilità speciale per i segni dei tempi. Ognuno di questi aspetti potrebbe essere un argomento da sviluppare; qui li enumeriamo semplicemente per descrivere quell'elemento che costituisce la sensibilità della prassi storica. Per ciò che si riferisce specificamente alla fede, c'è da enumerare in questo campo la preferenza a sottolineare gli aspetti antropologici della rivelazione e la preoccupazione di tradurre vitalmente la dottrina in ortoprassi.

    • Realismo della liberazione, come una conseguenza di questa centralità della prassi storica. Si pensa la libertà come una utopia – nel senso positivo della parola –, come una meta da raggiungere; non è che esista la libertà nella storia, esiste piuttosto il libero arbitrio ed esiste il processo di crescita verso la libertà, ossia l'impegno di liberazione. La libertà rimane sempre come una specie di ideale da raggiungere. In tale impegno liberatore c'è, in concreto, un doppio lavoro da fare: la denuncia delle schiavitù o delle alienazioni, e l'annuncio del progetto per superarle. C'è una cosa chiara in questo realismo della liberazione ed è: l'opzione per l'uomo. Educare vuol dire aver sicurezza della meta suprema dell'uomo e saperlo condurre verso di essa.

    • Esigenza comunitaria. L'opzione per l'uomo non è la scelta di una visione individualistica, ma è un'opzione per l'uomo in processo di socializzazione; quindi di un uomo che non realizza la sua personalità se non in comunione, e quindi non realizza la sua educazione e il suo processo di liberazione se non attraverso un'attività di partecipazione e di corresponsabilità.

    • Rinnovamento della «scuola». Come dicono i Vescovi a Medellìn, la scuola, l'università, dovrebbero essere una vera comunità specializzata in sintonia e collaborazione con la comunità nazionale in costruzione. Cosa vuol dire fare di una scuola o di una università una comunità? Vuol dire cambiarne gli statuti e le strutture ed accettarne praticamente un capovolgimento; integrare la comunità scolastica nella più ampia comunità locale e aprirla alla comunità nazionale e latino-americana; renderla dinamica e viva, con capacità di progetti costruttivi e di sperimentazioni; aprirla al dialogo ecumenico e culturale con tutti; in una parola, come dice il documento di Medellìn sull'Educazione (n. 19, e): «Partire dalla scuola per arrivare alla comunità, trasformando la stessa scuola in centro culturale, sociale e spirituale della comunità; partire dai figli per arrivare ai genitori e alle famiglie; partire dall'educazione scolastica per arrivare agli altri mezzi di educazione».

    • Nuovi orizzonti dell'evangelizzazione. Superare ogni pretesa di ridurre la catechesi ad una ideologia e presentare l'evangelizzazione realmente come è: la parola di Dio, che porta l'uomo storico concreto alla sua maturazione integrale e alla sua libertà totale. Quindi un Vangelo che assume i cambi e li battezza; un Vangelo che ama i segni dei tempi e per questo si dedica a salvarli senza lasciarsi abbagliare da luci subordinate.

    • Nuovo contenuto del qualificativo di «cattolicità». Quando si parla di educazione «cattolica», di scuola «cattolica» o di università «cattolica», che cosa significa questo qualificativo? Questo termine applicato alla scuola è nato in una struttura di cristianità con una ecclesiologia apologetica. Oggi, invece, si vuol indicare con esso che una scuola o una università è «cattolica» se implica tutto un mondo nuovo di contenuti e di modalità di vita, ispirati all'ecclesiologia del Vaticano II applicata alle strutture stesse della scuola, più in là di una interpretazione clericale e di privilegio. La dimensione di cattolicità, partendo dal suo senso profondo più originale di visione di totalità delle cose, dovrebbe condurre la scuola a una capacità di orientamento ed aperture più grandi dell'ambito ristretto d'ognuna delle scienze, instaurando un dialogo tra le varie discipline.

    TENTATIVI PER UNA TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE

    Dicevo che la situazione latino-americana esige riflessione originale e ripensamento filosofico e teologico. C'è un tentativo, non dico riuscito, ma certo in via di realizzazione, per costruire una teologia della liberazione. Già nel secolo XVI il grande domenicano Francesco De Vittoria diceva che «La funzione del teologo è tanto vasta che nessun argomento, nessuna disputa, nessuna materia, sembrano aliene alla sua professione». Deve essere per questo che il Cano, se non mi sbaglio, affermava forse maliziosamente «theologus vir impossibilia»; dovrebbe, infatti, saper di tutto. Una cosa, però, vorrei proclamare con chiarezza: che è impossibile portare avanti un discorso profondo di educazione nuova se non c'è un ripensamento della fede su questi problemi e se non c'è un rinnovamento della teologia. In America Latina si sente l'urgenza di un tale ripensamento; ci si è anche impegnati a iniziarlo; non dirò che si è già arrivati, però si sta, al riguardo, facendo uno sforzo per realizzarlo. C'è, dunque, un tentativo di costruzione di una teologia della liberazione.
    Che cosa sarebbe questa «teologia della liberazione»?:

     Innanzitutto chi tenta di fare questa teologia della liberazione ha coscienza che non deve cadere nella tentazione di storicismo. Riflettere criticamente sulla prassi storica, non vuol dire necessariamente andare a rimorchio degli avvenimenti; è vero che al concentrarsi nella prassi storica c'è anche un vero pericolo di diventare storicista, però ci può essere pure la coscienza di non volerlo divenire. Si sente l'urgenza di incorporare le scienze antropologiche, soprattutto della sociologia e della psicologia, alla riflessione della fede, per non andare più avanti con una teologia astratta e disimpegnata, «marziana», direi quasi, ma per fare una teologia concretamente vincolata con la prassi storica; che divenga una scienza che serva l'uomo, che di essa ha veramente bisogno e ne anela le luci.

     Quali sono i temi preferiti in questo sforzo di costruire una teologia della liberazione? Vi enumero solo dei titoli e vedrete che c'è uno spazio enorme di riflessione: «povertà»; «speranza»; «escatologia»; «salvezza», (che cos'è la salvezza più in là di una visione individualista imperante finora); relazioni tra «creazione e redenzione»; tra «carità» e «politica»; tra «pace» e «rivoluzione»; «ideologia e utopia»; il tema di una «spiritualità della liberazione»; «eucaristia» e «lotta di classe»; ecc. Vedete che ce ne sono dei temi, e temi di attualità viva; se ci fossero riviste di teologia che illuminassero su di essi, sarebbero assai ricercate e lette!

     Come va questo tentativo per costruire una teologia della liberazione? Direi che è ai suoi inizi. Certo l'America Latina sente il bisogno di essere appoggiata e illuminata anche da altri; dal momento che apparteniamo insieme, europei e americani, ad una cultura occidentale che ha grandi elementi in comune.

    ALCUNI PERICOLI SERI

    In una situazione tanto dinamica e inventiva appaiono anche dei pericoli; se ne sente nell'aria la presenza. Da alcuni documenti stessi in preparazione della settimana dei «cristiani per il socialismo» si desume che questi pericoli sono tutt'altro che insignificanti. Ne vogliamo indicare alcuni, per far vedere che c'è anche coscienza della loro esistenza e volontà di evitarli.

    Pericolo di «orizzontalismo»

    In che cosa consiste questo pericolo? Nel ridurre la missione dell'educazione liberatrice della Chiesa a una azione semplicemente socio-politica, che condiziona tutte le altre attività, anche quelle pastorali. Più ancora: accetta una concezione della salvezza e una concezione della morale di tipo collettivista, per cui il peccato si ridurrebbe solo ad un'ingiustizia di ordine sociale e la salvezza sarebbe solo la liberazione sociale e politica. È significativo, a questo proposito, un articolo presentato da IDOC-8, di un sacerdote cileno, P. Richard, degli «Ottanta» (= «los ochenta», gruppo di sacerdoti impegnati nella costruzione del socialismo), professore di scrittura della Facoltà di Teologia di Santiago. In esso si fa una grave critica alla teologia «classica» e alla mentalità cristiana «borghese»; in essa, a mio avviso, si può percepire ciò che significa «orizzontalismo». Dice che la riflessione cristiana e teologica avrebbe invertito la visione della realtà sociale nella coscienza politica dei credenti; il primo posto lo occuperebbero i valori eterni, diventati dei «soggetti», e il secondo posto l'occuperebbe l'uomo, diventato un «oggetto». Bisognerebbe disfare e capovolgere questa mentalità «cristiano-borghese», partendo dalla «razionalità socialista» della prassi (bisogna riconoscere che per «socialista» non intende, in astratto, parlare di un sistema marxista concreto, ma piuttosto del processo di socializzazione generale che è uno dei segni dei tempi, anche se poi, nella pratica, aderisce a un progetto concreto di socialismo marxista). La «razionalità socialista» della prassi storica dell'America Latina di oggi mette come fatto basico iniziale la situazione rivoluzionaria; il fatto «rivoluzione» sarebbe anteriore ad ogni giudizio, anche di fede; lo «specifico cristiano» sarebbe posteriore a tale fatto. Per essere oggettivi bisognerebbe partire da questo fatto, senza aggregati ideologici e di fede. Introdurre lo «specifico cristiano» nell'assunzione di questo fatto equivarrebbe a preferire un elemento aprioristico, che darebbe il primato a una ideologia nella maniera di aderire alla realtà. Non so se sono stato molto fedele nel riferire il pensiero dell'autore; ad ogni modo vorrei far vedere che c'è, qui, un vero pericolo di storicismo; in definitiva, questo fatto «rivoluzione», messo come primo elemento generale, anteriore ad ogni giudizio di valore, può divenire un pericoloso sostituto della «fede»; infatti nel parlare di «rivoluzione» non ci si riferisce semplicemente a «un fatto», ma se ne dà già una interpretazione; quando alcuni parlano della rivoluzione come elemento prioritario, anteriore alla stessa parola salvatrice del Vangelo (ossia, anteriore alla stessa adesione della fede alla persona di Gesù Cristo), partono concretamente non da un semplice «fatto» ma già da una scelta di interpretazione, come dimostra poi tutta la loro maniera di procedere. Cosa vuol dire che la rivoluzione è un fatto? È un fatto umano che implica già dei valori, delle scelte, dei giudizi e delle riflessioni. Chi afferma la priorità assoluta di un tale fatto dimostra di avere una mentalità in cui la politica va sostituendo la funzione specifica della fede. È di Richard l'affermazione che la storia non cambia per l'impulso della «carità», ma per l'iniziativa della «politica». Ma, dico io, se la carità non ha nessun atto specifico proprio perché è la forma delle altre virtù, il mettere in contrasto la «carità» con la «politica» fa percepire una interpretazione erronea della carità e della sua presenza nella storia. Un cristiano dovrebbe parlare di «carità politica», e non di una dicotomia tra carità e politica. La carità cristiana nell'informare la politica non ne cambia la natura; potrà esserci, è vero, una politica senza carità, però chi la fa con carità non la adultera né la indebolisce, altrimenti non potremmo più essere cristiani, perché rovineremmo tutte le cose; dobbiamo, infatti, far tutto con carità.

    Pericolo del «secolarismo»

    Si tratta di una mentalità che non si traduce tanto in «movimenti» di azione, ma che si sente nell'aria, soprattutto tra gente dedicata agli studi. Che cosa intendo dire con il termine «secolarismo»? Io lo connetto immediatamente con i «segni dei tempi». Direi che consiste in questo: mettere sullo stesso piano d'importanza e di giudizio la rivelazione e i segni dei tempi; quindi, entrare in un pericolo di relativismo. Il mettere sullo stesso piano concettuale la fedeltà alla parola di Dio e la fedeltà al mondo, significa che il salto qualitativo della cultura umana, in una determinata situazione storica, in cui si crea una nuova cultura, esige un salto qualitativo della fede anche nei suoi contenuti sostanziali.
    Esiste, evidentemente, anche il pericolo contrario di non prendere in conto i segni dei tempi: è un anacronismo assai grave, del quale ora non intendiamo parlare. Però considerare che la rivelazione di Gesù Cristo e la evoluzione del mondo si trovano sullo stesso piano, è inaccettabile perché Gesù Cristo deve evangelizzare tutti i segni dei tempi ed ha lasciato tale missione alla sua Chiesa. Noi dobbiamo essere capaci di battezzare i segni dei tempi: quindi di assumerli, di capirli, di entusiasmarci per essi, ma con il dovere di battezzarli, perché i segni dei tempi sono di per sé ambigui e, storicamente, inclini a un orientamento peggiorativo, perché la storia umana ha un peso particolare di peccato. Se non c'è una capacità di distinzione tra Regno di Dio e Mondo si cade in un relativismo naturalista per cui i valori umani dei segni dei tempi divengono il criterio supremo per giudicare le scelte operative della pastorale dell'educazione.

    Pericolo di «disfattismo ideologico»

    La percezione della necessità di costruire una nuova società e una nuova cultura fa cadere facilmente in reazioni critiche per cui ideologicamente si negano le istituzioni e gli strumenti che si sono usati fino adesso. Così, ad esempio, nel processo di «descolarizzazione» si arriva ad attaccare frontalmente, non solo la scuola cattolica, ma la scuola in se stessa come una struttura borghese che, per sua propria natura, non farebbe altro che prolungare lo «statu quo» (per questo Illich la chiama la «vacca sacra» delle società capitaliste; ne fa una critica in un certo senso interessante, ma poi la distrugge senza offrire delle alternative valide). Dunque: un disfattismo ideologico per cui determinati strumenti di educazione sono squalificati in se stessi; determinate iniziative o possibilità di lavoro sono buttate via con argomenti poggiati su una filosofia dello Stato accettata anacronisticamente senza critica; così si dice, per esempio, che è un'attività di supplenza destinata a sparire. Ma uno si domanda: che cosa vuol dire «supplenza»? Su che filosofia dello Stato si fonda questo concetto? Non c'è una critica seria al riguardo. Si accetta una simile affermazione e si procede superficialmente a smantellare gli animi e le istituzioni, svuotando pericolosamente non poche vocazioni educative e mutilando le energie creatrici della fantasia per un impegno aggiornato e realista di rinnovamento delle istituzioni.

    UNA CONCLUSIONE PIENA DI SPERANZA

    Ho parlato di pericoli, ma non vorrei svisare il senso globale di questo articolo che è coscientemente positivo e aperto a una forte speranza.
    La situazione dell'America Latina interessa tutto l'Occidente. Io credo che l'America Latina ha da dire oggi una parola a tutta la cultura occidentale, perché si trova nella situazione speciale di dover costruire una nuova società, di dover inventare una educazione liberatrice nel senso spiegato, di dover orientare la riflessione teologica verso temi particolarmente vitali e che abbisognano di urgente approfondimento cristiano. Io considero questa situazione dell'America Latina come un'ora di crescita, non solo per il proprio Continente, ma per tutta la nostra cultura occidentale; è lì che si stanno realizzando con maggiori possibilità di esito tanti orientamenti del Vaticano II. Non penso sia trionfalismo ingenuo credere che di lì ci possa venire una lezione per tutti; il Signore sempre si è servito di strade paradossali: dagli umili, dai poveri, vengono lezioni per tutti; bisogna, forse, saper buttar via un po' il complesso di superiorità che gli europei portano con sé senza accorgersene; si possono ricevere delle lezioni anche da chi fino adesso non ne ha date.
    Dove c'è crescita, c'è rischio; sarebbe utile pensare un po' a una «teologia del rischio». Non si può vivere senza rischi oggi; non è morale evitare delle soluzioni solo perché implicano dei rischi.


    T e r z a
    p a g i n A


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