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    Tra democratizzazione e politicizzazione della scuola: partecipazione attiva o eversione del sistema?



    Germano Proverbio

    (NPG 1971-12-19)

    Il «Corriere della Sera» del 12 agosto 1971 riferisce una serie di dati che dovrebbero far pensare gli uomini della scuola.
    «... Le due principali novità (della nota illustrativa che il ministero della P.I. ha trasmesso al ministero del Tesoro) – oltre al fatto che gli stanziamenti sono stati accresciuti di circa 450 miliardi e passano quindi complessivamente a 2.621 miliardi – consistono una nelle voci che sono state scelte come settori da incrementare immediatamente e su cui riversare la maggior prodigalità manifestata dallo Stato per la scuola, l'altra nella nuova "filosofia" a cui tutto il bilancio si ispirerà nel prossimo anno.
    Le voci che spiccano sono le seguenti: la spesa per l'aggiornamento degli insegnanti prevista per il 1972 è di 11 miliardi e 744 milioni di lire, contro un miliardo e 744 milioni spesi quest'anno. "Con tali fondi, precisa la nota, si intende avviare una azione a largo raggio sul corpo insegnante, la cui lievitazione numerica durante gli ultimi anni non è stata sempre accompagnata da adeguati sforzi volti a garantire una seria preparazione professionale". Un'altra notevole variazione in aumento è quella che si propone nella spesa per studi, indagini, rilevazioni, che passa dai 40 milioni attuali ai 3 miliardi e 365 milioni.
    Impegni di spesa non trascurabili sono infine previsti a vantaggio delle casse scolastiche della scuola media e secondaria superiore e per i servizi di informazione e consulenza scolastica a favore degli alunni delle scuole secondarie (un miliardo e 250 milioni)».
    Tutto questo ci impegna.
    Il progetto editoriale in corso di realizzazione prevede un massiccio intervento sui problemi della scuola italiana.
    Introducendo l'articolo apparso sul numero precedente, davamo già le chiavi di lettura e le motivazioni della nostra scelta. A partire da «quelle» annotazioni, diventa leggibile questo studio e i successivi in cantiere.
    La nostra è una rivista di «pastorale»: preoccupata quindi di educazione alla fede.
    Ma per la verità di questo processo di maturazione cristiana, è necessario inserirsi nei gangli di un processo strettamente educativo. Non è possibile una educazione alla fede, oggi, se non all'interno di una precisa linea di umanizzazione. Fare la nostra strada indipendentemente dalle direttrici lungo il cui asse «si fa l'uomo», significa condannarsi a priori al fallimento e in definitiva a non servire l'uomo, non farne un figlio di Dio... anche se lo si imbottisce di mille parole di fede.
    La scuola è una delle principali agenzie di socializzazione. Specialmente oggi che tende, soprattutto a livello di scuola media, ad essere «scuola a tempo pieno».
    Ha inoltre un peso notevole nella costruzione di una personalità capace di vivere nel nostro contesto culturale: la scuola è pluralista e quindi «educa» al pluralismo; tocca i punti nevralgici dell'uomo, rivelandolo a se stesso; inserisce in una «storia» e apre al futuro.
    La scuola è perciò (o dovrebbe essere) veicolo di umanizzazione, propedeutica indispensabile alla educazione alla fede. Può cioè fornire l'entroterra e le condizioni oggettive alla fede o può tradire questo servizio e chiudere alla fede, educando ad un umanesimo autosufficiente o creando una definizione di uomo, inconciliabile con I'«uomo nuovo», chiamato ad essere figlio di Dio.
    Da qui la responsabilità e l'interesse immediato per ogni operatore pastorale. Lo studio di Proverbio avanza una serie di ipotesi e di indicazioni riformistiche, per fare della scuola uno spazio di servizio all'uomo e non più il luogo privilegiato di posizioni classiste, una potente struttura di sostegno all'immobilismo sociale, al quotidiano bruciar l'incenso all'«ordine costituito».

    I TERMINI DEL PROBLEMA

    I linguisti direbbero che anche parole nuove (almeno nell'uso), così «trasparenti» al loro primo apparire – come democratizzazione e politicizzazione, partecipazione ed eversione – sono diventate in un giro assai breve di tempo «parole opache»: logorate e consumate da un rientrare nell'ampio e generico repertorio dei lemmi inventariati. Occorre anche per esse un recupero da parte di chi sa far rivivere la parola impoverita: azione non certo della tecnica, ma della poesia, dell'arte cioè che crea e ri-crea. Questo forse per dire che vogliamo presuntuosamente assumerne il compito? L'intento è più modesto e commisurato con le nostre possibilità: vorremmo soltanto, dai fatti, scoprire il senso dei termini che portano questa nota su un terreno – che è per diritto terra di tutti – in cui si agitano i problemi della scuola.
    Prima ancora di democratizzazione della scuola dovremmo parlare di pubblicizzazione di essa (altri direbbe di laicizzazione o di mondanizzazione): nell'età dei principi illuminati, la scuola che era stata per lungo tempo privilegio di pochi – le classi dei nobili e degli aristocratici –, si volle estendere a strati più larghi della popolazione, che non potè tuttavia raggiungere per la struttura di istituzione di privilegio che aveva di fatto conservato. Con questo vizio di origine nacque anche la scuola italiana, con la legge Casati del 1859. Il cammino che poi dovette percorrere per diventare la scuola di tutti, la scuola democratizzata, ben sappiamo quanto sia stato lungo e difficile: la democratizzazione ebbe tappe lente, con lunghi tempi di sosta e di inerzia. E quando raggiunse un momento decisivo – la scuola dell'obbligo fino al 14° anno di età istituita nel 1962 – fu più per un fatto politico che non per una presa di coscienza, promossa o maturata. I fatti lo proveranno: la democratizzazione della scuola, come gesto che partiva dai vertici politici ma che non veniva recepito dagli stessi utenti o aventi diritto all'istruzione, si svuotava nei tortuosi meandri della burocrazia e della amministrazione.
    La democratizzazione in realtà comportava la politicizzazione della scuola: esigeva cioè che la scuola cessasse di essere un momento, un fenomeno staccato della vita della comunità, cui spetta, per diritto e per dovere, di assumerne in proprio la gestione e la conduzione. I gestori privilegiati (insegnanti ed amministratori), con gli utenti della scuola (allievi e famiglie, gruppi sociali e politici...), erano chiamati a prendere coscienza del posto che alla scuola spettava: Freire parlerebbe di coscientizzazione (P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Milano, Mondadori, 1971).
    Ma politicizzarsi significò immediatamente porre in crisi la scuola, facendone esplodere le contraddizioni: una crisi di identità – come di tutte le istituzioni cariche di storia – alla cui soluzione si offrono le più contrastanti risposte: da quella che propone l'eversione di tutto il sistema, a quella che invoca una partecipazione allargata e responsabilizzata alla gestione della scuola, aperta al confronto con il progresso tecnologico, non per farsi asservire, ma per metterlo a servizio della liberazione dell'uomo.

    LA SCUOLA DELLA DELEGA

    «Se la scuola trema, è perché la sua credibilità è entrata in crisi»; così gli autori di un articolo de Il Manifesto nel febbraio 1970 (R. Rossanda, M. Cini, L. Berlinguer, Tesi sulla scuola). Essi pervengono alla soluzione massimalista della distruzione, movendo dalle considerazioni sul prodotto della scuola, che è lo studente: egli ha preso oggi coscienza del suo non essere «né sostanza né accidente nel quadro del meccanismo di riproduzione del capitale», sino a pensare che altro non gli resti se non di «cancellarsi e sprofondare in seno alla classe, miticamente al suo servizio, in realtà – la tentazione dell'intellettuale essendo dura a morire – con un'ambizione di guida». Ambiguità e alienazione della condizione dello studente quindi: chiave della rivolta studentesca ed espressione di una scuola che lo studente rifiuta, chiedendole «non di adeguarsi, ma di cessare di essere». Il discorso de Il Manifesto si fa ovviamente più elaborativo, quando da una considerazione di tipo storico sui prodotti della scuola – che se tenta di essere uguale continua tuttavia a dare prodotti disuguali, legata ad un assetto sociale che le diede la stabilizzazione –passa alla denuncia di alcune cause del fatto, come quando afferma «che la scuola produce insegnanti, ma non forma insegnanti; non gli istituti magistrali, che pure avrebbero questo scopo e dei quali si concorda generalmente nell'affermazione dell'inutilità, non l'università, che forma allo stesso modo i laureati che potranno insegnare o no, considerandosi bastante il possedere la laurea per concorrere a un posto nella scuola». La tesi della «distruzione della scuola» trova il nostro consenso se l'istituzione che si vuole distruggere è quella che di fatto si è costituita come un luogo separato all'interno della comunità, un luogo di «addetti ai lavori», un monopolio della trasmissione del sapere e dell'educazione, a cui viene conferita una delega piena e assoluta per gestire una realtà che è diventata sempre più estranea alla realtà sociale. Ma questa scuola è già morta per naturale consunzione: quello che conta è riconoscerne la fine e, come rileva L. Lombardo Radice rispondendo agli articolisti de Il Manifesto (I termini della didattica scuola-società in Riforma della scuola, XVI n. 3 marzo 1970), dire chiaramente se respingiamo o accettiamo «come obiettivi validi l'istituzione di una scuola obbligatoria a pieno tempo, l'estensione della scolarità obbligatoria al 16° anno, l'unificazione di fondo della istruzione secondaria superiore (cultura generale e scientifica comune, più culture speciali opzionali), le richieste di sviluppo e trasformazione dell'istruzione superiore».

    Le cause

    Sulla proposta alternativa di Lombardo Radice ritorneremo, inserendola in un discorso che si fa necessariamente più ampio; ora ci interessa rifarci al fenomeno denunciato dell'estraneità della scuola rispetto al tessuto sociale, per considerarne le cause. Se queste si possono primamente attribuire alla stessa scuola, o meglio a quanti finora l'hanno di fatto gestita – amministrazione burocratica e personale insegnante – più sensibili agli interessi corporativistici che non a quelli di una scuola aperta agli appelli e alle istanze che le venivano dall'esterno, non è men vero che le responsabilità possono ricadere sui vasti settori della stessa società, che hanno rinunciato a far valere i loro diritti sulla scuola e ad esercitare i doveri di una presenza attiva, non formale né accademica. Così si sono andate creando le barriere e si è consolidato il sistema delle deleghe. Pensiamo ai sindacati: è solo da poco che essi si sono decisi ad affrontare il problema della scuola, come momento determinante per una promozione culturale, preliminare a qualsiasi impegno di carattere politico. E pensiamo all'assenza dei genitori dal luogo della scuola: essi, giustamente, potrebbero ricorrere al meccanismo di rimozione di responsabilità ed accusare chi non ha loro procurato gli strumenti per un'azione di loro spettanza. Ma pure la legge istitutiva della scuola media unica in Italia è stata scritta e pubblicata; e in essa si parla, per esempio, di doposcuola. Quanti genitori hanno saputo appellarsi a questa legge per richiedere il doposcuola? Anche i programmi della scuola media unica sono stati scritti e pubblicati: quanti genitori li conoscono, li hanno letti? Avrebbero potuto richiamare gli insegnanti restii alla riforma (i nettamente favorevoli risultano essere soltanto uno su tre: cfr. V. Cesareo, Insegnanti Scuola e Società, Milano, Vita e Pensiero, 1969), a rispettare la lettera delle indicazioni metodologiche, a tradurne in atto lo spirito, che è ancor più ampio e innovativo della lettera.
    «Che cosa conoscono i genitori effettivamente della vita scolastica?», si chiede E. Gelpi (Scuola senza cattedra, Milano, Ferro Edizioni, 1969, p. 61)  «Frammenti episodici di ampiezza diversa filtrati attraverso l'esperienza individuale dei propri figli: resoconti delle interrogazioni, compiti da firmare, note di biasimo da prendere in visione, circolari sulle ricorrenze ufficiali ecc.». E gli incontri con la scuola si effettuano in un appuntamento tra un genitore e un insegnante, in evidenti condizioni di non parità: il primo infatti si presenta a titolo strettamente personale solitamente per richiedere informazioni, mentre il secondo è sempre coperto dalla istituzione-scuola, alla quale i genitori stessi hanno delegato l'istruzione e l'educazione dei propri figli. «La relazione dei genitori con gli insegnanti si immiserisce nella piccola discussione sui voti o sul cattivo comportamento del ragazzo, considerando questi fatti come i più salienti nell'attività educativa» (E. Gelpi, op. cit., p. 61).
    Un richiamo ad un nuovo modo di sentire la scuola ci viene ora anche da un discorso che I. Illich sta conducendo da un certo tempo su quello che egli chiama il problema della descolarizzazione (cfr. I. Illich, Comment éduquer sans école?, in Esprit, giugno 1971, pp. 1123-1152). Educare senza scuola è possibile, secondo Illich, soltanto se la società intera diventa protagonista e insieme oggetto dell'azione educativa; se si creeranno continue possibilità di incontri al di fuori dell'ambiente scolastico tradizionalmente inteso. La fine della scuola come istituzione a sé, consentirà la fine della divisione dei compiti, che verranno affidati a tutta la comunità e che non costituiranno quindi la professione di pochi.

    LA GESTIONE ALTERNATIVA DELLA SCUOLA

    Se la scuola è un affare di tutta la comunità, a questa ne è affidata la gestione, in un coinvolgimento permanente e istituzionalizzato di partecipazione e di responsabilizzazione. Non si vuole una società senza scuola; si vuole piuttosto una scuola gestita dalla società, o meglio dalla comunità: solo così le proposte innovative (scuola a tempo pieno, estensione dell'obbligo, riforma della secondaria superiore, ecc.), potranno trovare il momento per una loro non mistificata attuazione. È già troppo che sia stato detto una volta: la legge per la nuova scuola media c'è e ci va bene, peccato che sia stata affidata agli insegnanti (cfr. Lettera a una professoressa, Firenze, L.E.F., 1967).
    A monte sta evidentemente il rifiuto del principio della delega: gli insegnanti non delegano il potere al capo d'istituto; gli studenti e i genitori non delegano agli insegnanti l'intera organizzazione degli studi; gli studenti non delegano agli insegnanti la valutazione ma assieme ad essi ne ricercano i modi e gli strumenti più idonei; la costruzione dei libri di testo non è lasciata all'arbitrio delle case editrici, e la loro adozione alla scelta incontrollata degli insegnanti...
    Le parti chiamate più direttamente in causa, sono, come si è visto: gli insegnanti, gli allievi e i genitori. La loro partecipazione alla gestione della scuola si può collocare in due momenti così genericamente distinti:

    • Un momento assembleare, a cui partecipano insegnanti, allievi, genitori, esperti (medico, psicologo, sociologo), rappresentanti dei sindacati, degli enti locali e delle associazioni culturali.
    Qui si dibatteranno i problemi più generali per la conduzione della scuola, e per l'elaborazione dei programmi: quelli che riguardano particolarmente la vita di lavoro e i modi di abitare della comunità, in quanto rappresentano i condizionamenti sociali più gravi, che possono far capire il perché di tante bocciature e di tanti «abbandoni» da parte della scuola.

     Un momento esecutivo, in cui verranno prese le decisioni didattico-operative sulla base delle indicazioni emerse dai lavori assembleari. Vi partecipano gli insegnanti – a livello di consigli di classe o di gruppo – i rappresentanti degli allievi, dei genitori e degli altri gruppi componenti dell'assemblea (sindacati, enti locali, associazioni culturali). La partecipazione degli esperti può essere saltuaria.
    Ma al di là di questi organi gestionali che potranno essere istituzionalizzati, vi sono altri modi e altri strumenti di lavoro per garantire una reale partecipazione della comunità alla vita dell'istituzione scolastica. E. Gelpi (op. cit., p. 21) propone ad esempio l'istituzione di seminari permanenti. «Partendo da una realtà associativa che può essere diversa (un'associazione di genitori, un comitato di quartiere, una sezione di partito, una camera del lavoro), a seconda delle diverse situazioni ambientali, si può costituire un gruppo di lavoro che si propone di studiare i problemi della scuola e che decide di riunirsi periodicamente con dei temi annunciati in anticipo per permettere a tutti di portare un contributo. Un seminario aperto a tutti e non solo limitato agli insegnanti permette di verificare il processo educativo nella sua dinamica e di avere quindi la possibilità di rivederlo continuamente».
    Lo stesso autore (op cit., p. 78) a titolo esemplificativo propone alcuni temi come schema di seminario per insegnanti, genitori ed anche allievi delle scuole secondarie superiori:

    1) La struttura della scuola italiana e sua relazione con la società.
    2) Scuola nuova ed educazione attiva.
    3) Osservazioni sull'ambiente in cui una specifica scuola è inserita.
    4) Rapporti con le istituzioni e le associazioni.
    5) Relazioni tra la famiglia e la scuola.
    6) Le teorie dell'apprendimento e l'istruzione programmata.
    7) La metodologia attiva nella scuola:
    a) l'insegnamento individualizzato
    b) il lavoro di gruppo
    c) le ricerche.
    8) Relazioni fra i metodi pedagogici, i programmi scolastici e i libri di testo.
    9) I mezzi audiovisivi e l'insegnamento.
    10) Riflessioni sulle didattiche delle varie materie.
    11) Vita associativa nella scuola e tempo libero.
    12) L'educazione degli adulti nelle prospettive dell'educazione permanente.
    13) La valutazione e l'orientamento scolastico e professionale.

    LA SFIDA TECNOLOGICA

    La scuola e il maestro sono nell'ordine della profezia: «La scuola siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l'arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità [...], dall'altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico [...]. E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare «i segni dei tempi», indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso» (Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, Milano, Mondadori, 1970, p. 250).
    La scuola ha rinunciato – e l'analisi delle cause sarebbe lunga e difficile – al suo ruolo profetico: ha accettato la neutralità della cultura, ha usato della ragione contenendola nello spazio assai limitato e circoscritto che il sistema «legale» le ha consentito, si è avvilita nella riproduzione di modelli consunti, non ha restituito all'uomo pensante la creatività e l'inventiva della fede e della speranza, che la società del benessere e dei consumi ci ha da tempo sottratto. La scuola ha rinunciato ad un progetto sul futuro, che non sia viziato dai modi con cui costruiamo le strutture per il presente, trascinando gli schemi del passato.
    Ma oggi la scuola non può rimanere così inerte, sarebbe un altro segno della sua fine. Deve accettare la sfida dello sviluppo tecnologico per non lasciarsi sopraffare, ricuperando proprio in questa civiltà della macchina, il suo compito profetico.
    Il primum movens non sono più le idee: sono le cose; «nel passato (...) può sembrare che le idee abbiano assolto il ruolo di movente principale e di elemento dinamico nella metamorfosi culturale, ma nel mondo moderno è da ritenere che l'accentuazione venga posta saldamente sulle cose» (W. K. Richmond, La rivoluzione nell'insegnamento, Roma, Armando Editore, 1969, p. 35) ; viviamo cioè in una età dominata dalla tecnologia scientifica.
    La scuola istituzionale si trova a doversi continuamente confrontare con le nuove agenzie di informazione e di socializzazione, che costituiscono una scuola competitiva o parallela: i mezzi di comunicazione di massa ne definiscono globalmente lo spazio. Di fronte all'irruzione di questi mezzi, non è con l'indiscriminata assunzione e adozione di essi che la scuola tradizionale possa risolvere il problema della sua nuova funzione e della sua sopravvivenza: essa dovrà soprattutto scoprire il suo nuovo ruolo di mediazione critica della cultura, che le diverse agenzie extrascolastiche continuano a trasmettere.
    Tutto questo comporterà una revisione profonda e impietosa delle sue strutture, dei contenuti, dei metodi, degli strumenti: l'assunzione di questo atteggiamento auto-critico, senza alcun ricorso ancora a strumenti tecnologici, può essere più producente che non il creare una scuola fornita di tutte le apparecchiature, quando queste servissero soltanto a mascherare l'assenza di un cambiamento profondo di fronte ai modi in cui vengono considerati i fondamentali pilastri del sistema tradizionale.

    LA CRISI DELLA STRUTTURA

    I «pilastri» del sistema, che reggono ormai faticosamente, sia per naturale obsolescenza sia per l'urto dall'esterno, si individuano nella classe, nella lezione, nel libro di testo, nei modi di verifica o di valutazione.

    • La classe è la prima delle strutture messe in crisi, intesa come una organizzazione rispondente ad un gruppo di allievi considerato per istituzione «omogeneo», sottoposti tutti agli stessi processi, negli stessi tempi, sugli stessi ritmi, con identici programmi, sotto la guida di uno o più insegnanti aventi compiti predefiniti. Alla classe si contrappone, come formula alternativa, il gruppo di lavoro (team learning), non legato ai livelli di età ma ai livelli di apprendimento, né a standard medi di risultati positivi in tutte le materie: ad esempio, un allievo può essere in un gruppo per le scienze, in uno più avanzato per la lingua, in uno più arretrato per le scienze sociali...
    Alle strutture del team learning corrispondono, dall'altra parte, quelle del team teaching, cioè del gruppo di insegnanti che operano in stretta collaborazione con i gruppi di apprendimento. Il team teaching è più che un accorgimento o una metodologia che voglia inserirsi nel contesto ampio della problematica dell'educazione moderna: comporta infatti una revisione del curriculum formativo degli insegnanti, dell'organizzazione del personale docente, degli aggruppamenti degli allievi.

     La lezione rappresenta ancora il modo in cui si attua ampiamente l'insegnamento, contro tutte le indicazioni provenienti dalla psicologia del comportamento e dell'apprendimento, che stanno a dimostrare come i risultati anche apparentemente ottimali della lezione tradizionale sono spesso illusori. E non è rimedio efficace l'introdurre, nel contesto della lezione pronunciata, i cosiddetti sussidi didattici – come la presentazione di immagini con tutti i mezzi di riproduzione. Si tratta piuttosto di individuare e di mettere a punto un processo di coordinamento tra il momento dell'apprendimento individuale e il momento dello stimolo-rinforzo che l'insegnamento dovrebbe promuovere: il modo logico con cui l'insegnante interpreta e ordina, attraverso la lezione, le conoscenze da trasmettere, non corrisponde ai modi con cui, non il gruppo-anonimo ma ogni individuo del gruppo, può acquisire e far propria la conoscenza.

     Il libro di testo riproduce e accentua la portata negativa della lezione. Il libro infatti stimola un semplice comportamento mnemonico da parte dell'allievo, condizionato a riprodurre, memorizzandole, le nozioni che gli vengono proposte, senza mettere in atto alcun processo di acquisizione personale. Il materiale stampato richiede inoltre una capacità di maturazione e non un requisito che si possa semplicemente postulare.
    Quanto ai libri di testo c'è da rilevare ancora la speculazione commerciale che ne fanno gli editori, più preoccupati di rispondere ad una certa richiesta del mercato – come avviene per qualsiasi genere mercificabile – che non promuovere nello stesso mercato una crescita e una sensibilità maggiore verso una scuola che è da fare. Il male è così diffuso che non se ne vede il rimedio: i tentativi di spezzare il circolo chiuso produttori-utenti vengono prestissimo fatti rientrare, condizionati dal gioco del sistema.

     La verifica-valutazione infine viene esercitata su elementi e con mezzi per lo più casuali e accidentali: i dati non sono quasi mai quantitativamente e qualitativamente rappresentativi, come campionatura dell'universo dei contenuti acquisiti, né gli strumenti sono rigorosamente validati o standardizzati. La misurazione dei requisiti iniziali, o livelli di partenza, e del raggiungimento dei livelli terminali richiede una scienza della misurazione dei risultati molto più avanzata di quella attualmente in uso: ne deriva che gli obiettivi più importanti rischino di essere trascurati, mentre ci si concentra sui risultati più facilmente misurabili.
    Si fa sempre più urgente pertanto la necessità di cercare nuovi metodi per la valutazione delle attitudini, del grado di motivazioni e del rendimento degli allievi; intanto, finché non si sarà raggiunta una certa perfezione nelle tecniche di misurazione obiettiva, sembra che anche i docimologi più convinti siano d'accordo nell'insistere meno sulla perfezione del processo di valutazione per affidarsi ai giudizi soggettivi degli esperti. In questo senso si prefigura un ruolo diverso dell'insegnante, che risponde non tanto ad una specializzazione psico-docimologica, quanto ad un atteggiamento globale diverso nei confronti degli allievi, ad una capacità diagnostica su ciò che essi compiono e sui processi di formazione personale.
    Anche la possibilità di ricorrere a forme e modi di autovalutazione può essere seriamente considerata, se si pensa all'impiego delle tecniche dell'istruzione programmata, con l'informazione di ritorno o feed-back, che costituisce il momento del controllo o dell'autocorrezione.
    E così merita attenzione la valutazione collettiva, intesa come ricerca comune, tra insegnante e gruppo, per individuare i criteri e gli strumenti valutativi più idonei, che non considerino soltanto il rendimento (motivazione, applicazione, qualità del lavoro, produttività), ma anche il comportamento (impegno corresponsabile, rapporti interpersonali, maturazione razionale ed emotiva).

     La crisi che ha investito le strutture della scuola istituzionale – particolarmente la classe e la lezione – e che è esplosa sotto la spinta accelerata del progresso tecnologico, trova le sue origini, non esclusive ma certamente prioritarie, nel distacco che si va sempre più determinando dal tradizionale concetto di disciplina e nel conseguente superamento delle barriere interdisciplinari. Ne è prova «la tendenza a ridurre la specializzazione, ad accentuare le cosiddette «aree comuni» della preparazione professionale, piuttosto che conservare l'attuale estrema frammentazione dei tipi di formazione [...]. Il modello professionale di docente degli anni '80 non è infatti quello di uno specialista, che insegna la sua disciplina in termini isolati ed esclusivi ma piuttosto quello di un educatore (nel senso etimologico della parola) che possiede e domina una certa area di conoscenze per affinità e per specializzazione; l'accento viene posto sulla stimolazione di processi intellettuali come fondamentale obiettivo dell'azione professionale e del tipo di formazione che a questa corrisponde» (Centro Europeo dell'Educazione, Laboratorio Multimedia, Roma, Fratelli Palombi Editori, 1970, pp. 228-229).
    La diagnosi che abbiamo condotto sulla realtà della scuola non ha mancato di prospettare quali potrebbero essere gli interventi non rinviabili e quelli che consentono tempi meno urgenti: il discorso sarebbe tuttavia da riprendere proprio su questi punti, per formulare ipotesi di lavoro traducibili nella verifica della sperimentazione.


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