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    Si può dare un pane senza offrire un messaggio?



    Tavola rotonda

    (NPG 1971-04-46)

    È una domanda che molti gruppi di impegno sociale si vanno facendo.
    È chiaro che per «pane» si intende tutto il servizio di promozione umana di cui parla la Populorum progressio. Il problema è se il pane va accompagnato o meno da un «messaggio».
    Sono possibili varie prospettive, per delineare una risposta: l'autorevolezza del messaggio, le intenzioni del donatore, il diritto di colui che riceve il pane. Se colui che riceve qualcosa si interroga sul significato del dono, sull'intenzione di colui che gli porge le mani, è chiaro che questa attesa non può restare senza una adeguata risposta.
    Questa chiarezza non è accolta con immediatezza nei gruppi di impegno sociale e politico. Si nota, anzi, una certa reazione contraria a portare messaggi di qualsiasi genere. Forse per modelli di proselitismo sbagliati, cioè giunti a strumentalizzare il pane per contrabbandare con esso il proprio messaggio. D'altra parte, la dissociazione tra pane e messaggio porta, da una parte, un'involuzione nei gruppi, che si vanno progressivamente privando di uno spazio di riflessione e di confronto; e la riduzione, dall'altra, dell'uomo, del povero, ad una pura attesa economica e strutturale.
    Molti gruppi, partiti con chiare prospettive cristiane sono passati, proprio per queste crisi, a ispirazioni marxiste o al rifiuto di ogni «ispirazione». L'esperienza indica il seguente come iter probabile:

    1. L'ispirazione giustificata solo all'interno del gruppo.
    ll gruppo sorge attorno ad una comune ispirazione cristiana. Questa anima il gruppo. Il gruppo si chiede «che cosa può fare». La domanda apre ad una serie di interventi di carattere propriamente sociale. In questa prospettiva, l'ispirazione è mantenuta viva da un interesse solo all'interno del gruppo: l'attività esteriore è frutto, derivazione, emanazione del calore interno, senza movimento di ritorno dall'esterno all'interno del gruppo. Il gruppo ha due momenti, giustapposti: la «riunione» formativa e una organizzativa, pratica, operativa.

    2. L'azione esterna come azione, senza problemi di messaggio.
    Dalla posizione precedente, con il tempo, si giunge ad un secondo stato di cose: l'azione, con la sua consistenza concreta, prende la mano sulla formazione. La riunione attiva acquista più interesse dell'incontro formativo. Se l'azione non include, al suo interno, l'esigenza di messaggi da portare, se è riconosciuta valida in se stessa, facilmente essa marginalizza la riflessione, per il fascino dell'attività. Ma così il prossimo, invece che essere servito, viene inventato secondo le proprie categorie mentali.

    3. L'azione esterna si rende indipendente dal messaggio che ispira il gruppo.
    In questa terza fase, si verifica l'accentuarsi di un movimento già iniziato nella fase precedente: la sempre più forte separazione dell'esperienza dell'azione dai momenti formativi. La maggioranza del gruppo di impegno sociale giunge a dirsi: «Ma che ci sta a fare quella riunione, quando ci sono tante cose da fare, molto più importanti e urgenti!».

    4. L'azione esterna assorbe la vita interna del gruppo.
    Dal passo precedente, in cui gli individui erano più polarizzati sull'azione esterna che sull'ispirazione del gruppo, si passa facilmente a questo ulteriore livello, in cui tutto il gruppo acquista la predominante colorazione dell'azione, invece che dell'ispirazione. Il gruppo intero si domanda: «Che ci sta a fare nel nostro calendario quella riunione?». I momenti formativi sono lasciati all'iniziativa individuale o, peggio, vengono vissuti solo formalisticamente. Sono sentiti dalla parte delle «chiacchiere», quindi da evitare, per passare ai «fatti».

    5. Il gruppo contesta decisamente l'ispirazione cristiana.
    Il gruppo, in una crisi di sincerità, rifiuta le riunioni formative cristiane; assume ufficialmente la sua identità di gruppo di azione, con gesti caratteristici (uscire dalle strutture cattoliche, fondare nuovi gruppi, entrare in altre strutture, di tipo marxista).

    Per tentare un punto su queste situazioni, è nata la tavola rotonda di cui trascriviamo il testo. Interlocutori della redazione di Note di Pastorale Giovanile erano un gruppo di sacerdoti e giovani, impegnati in attività sociali.

    LE SCELTE DI ALCUNI MOVIMENTI:
    UN CONFRONTO CON L'ESPERIENZA

    RIGAMONTI – Faccio immediatamente un'affermazione che condensa la nostra esperienza: ogni azione sociale, oggi, per la sua validità, richiede l'offerta di un messaggio.
    Un tempo, di fronte ad una situazione sociale da «salvare», due erano le reazioni tipiche. Mi spiego con un esempio, come paradosso. Una persona sta annegando. Il cristiano che passava di lì, soccorreva il poveretto, lo portava sulla riva, si rivestiva e se ne andava. Il politico, invece, andava in piazza a gridare: «Ci sono delle persone che annegano: bisogna mettere dei bagnini».
    Oggi le due esperienze vanno sommate: occorrono uomini che salvino subito le situazioni e che denuncino le responsabilità relative. MANI TESE tenta questo.
    La nostra scelta di fondo parte dalla affermazione evangelica: «I poveri li avrete sempre con voi». Questa è la nostra profezia totale, fondamentale, su cui poter verificare continuamente il nostro cristianesimo. La verifica della nostra esperienza umana consiste nell'essere sempre dalla parte degli ultimi.
    E per intervenire, a favore di questi «ultimi» (oggi sono i poveri, domani... chissà: non ipotizziamo nessuna catalogazione), vogliamo valorizzare un'esperienza «storica»: quella di Cristo, Uomo-Dio. Il messaggio sociale lanciato da Cristo, lo riteniamo estremamente valido ed interessante anche al giorno d'oggi. Accanto a questa fondamentale ispirazione cristiana, abbiamo posto una serie di valori umani, su cui possono concordare tutti, anche coloro che non vogliono accettare il cristianesimo.
    A chi aderisce a MANI TESE non chiediamo alcuna espressione esterna di fede, ma la convergenza su alcuni valori, come la preminenza dell'uomo, il diritto allo sviluppo integrale, la libertà interiore, la giustizia sociale internazionale, la fraternità universale.
    La nostra esperienza si condensa allora nella frase di Cristo: «Non chi dice "Signore, Signore!" andrà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio». Non è l'etichetta cristiana che ci dà la garanzia della nostra riuscita, ma gli impegni che cerchiamo di realizzare, attraverso
    una presenza per un problema di attualità come è quello del Terzo Mondo.

    DELPIANO – L'O.M.G. oggi si trova di fronte ad un problema molto concreto. Abbiamo costruito delle scuole. Si tratta di farle funzionare. Se nel momento della costruzione, come edificio materiale, non aveva senso preoccuparsi del messaggio, oggi dobbiamo necessariamente trasmettere qualcosa: dobbiamo fare delle scelte.
    I nostri gruppi sono partiti con la prospettiva di un lavoro per i poveri; non era presente altra preoccupazione, di «colorazioni» o di ispirazioni. Oggi, il problema c'è.
    Ecco la nostra soluzione, quella cui siamo approdati dopo un lungo cammino di maturazione.
    Abbiamo proposto dei valori che scaturiscono spontaneamente dal Vangelo, ma li abbiamo presentati indipendentemente dal Vangelo, come valori umani e basta.
    Con una grande speranza nel cuore, proprio perché ci crediamo: la scoperta della totalità del valore umano, coltivato onestamente, porterà alla scoperta del Vangelo.
    E l'esperienza sta convincendoci che siamo sulla strada buona.

    RASINO – Anche la nostra esperienza è molto vicina a quelle precedenti. Sono d'accordo che un gruppo sociale deve avere una ispirazione. Noi abbiamo scelto una ispirazione decisamente cristiana: il servizio del povero, dell'ultimo, a partire dal Vangelo.
    Il gruppo, come gruppo, ha fatto questa scelta. Esso rimane aperto a tutti. Ma ha alcuni gesti fondamentali, quali per esempio le celebrazioni liturgiche.
    La forza di conformità del gruppo, il clima di amicizia, generalmente riesce a far scegliere a tutti, anche a quelli che all'inizio si erano dichiarati «atei», l'ispirazione cristiana di fondo. Il gruppo diventa quindi strumento di formazione per tutti, nel binomio: ispirazione cristiana e apertura.

    CERAGIOLI  La nostra esperienza, all'interno del movimento SVILUPPO E PACE, è diversa dalle precedenti. Il nostro è un gruppo formato prevalentemente di adulti. Non ha quindi uno scopo direttamente educativo, ma di servizio.
    La nostra esperienza è nata dalla costatazione dell'esistenza di un problema: il Terzo Mondo. Un fatto sociale e politico, che è di tutti, a prescindere dalla ispirazione, dalle ideologie di ciascuno. È un problema che per la relativa novità supera gli schematismi ideologici normalmente presenti in una situazione sociale e politica. Le forze sociali attualmente operanti sono più o meno compromesse: non hanno la possibilità di portare un messaggio, perché non hanno la bandiera pulita.
    Il Terzo Mondo è un segno che ci interpella. Ciascuno risponde con una caratterizzazione personale, perché c'è un pluralismo di vocazioni e di risposte.
    Ci sono in concreto, per un cristiano, due scelte; la prima: la comunità cristiana si impegna come tale per testimoniare il proprio amore e la propria adesione a Cristo; la seconda: ciascuno si inserisce in una qualsiasi struttura esistente della comunità civile e opera al suo interno.
    Noi siamo per la seconda opzione.

    REDIGOLO  Osservo il problema dall'angolo prospettico in cui mi trovo. Quello proposto, mi pare discorso teorico o almeno retorico. Mi spiego.
    Una persona sceglie di far parte di un gruppo, dopo un'analisi della situazione in cui essa è dentro: è frutto di una scelta di valori, di mete, di obiettivi.
    Le attività del gruppo devono essere portatrici e significatrici delle scelte operate dai singoli partecipanti, pena il rischio di diventare semplici evasioni. Con una precisa caratteristica: il senso della limitatezza: il gruppo deve avere la percezione di non risolvere il problema che parzialmente, o di risolverlo a stadi successivi.
    Purtroppo si può giungere a posizioni di schizofrenia, quando le scelte concrete che il gruppo opera sono in aperto contrasto con gli obiettivi, le analisi, la gerarchia dei valori che ci si era proposta.
    Ci sono gruppi sociali alienati e alienanti. L'ideologia prende la parte preponderante e non lascia spazio all'azione. O viceversa.
    Ma questi... non sono gruppi né tanto meno gruppi sociali: sono dei coacervi di persone, in cui il gruppo è solo una zona di riflessione per un avviamento della propria personale esperienza.
    Il grosso problema dei gruppi sociali è quindi la ricerca di un sistema unitario che fonda riflessione e azione. Un sistema unitario che motivi il trovarsi assieme, che spieghi la necessità della azione e che realizzi praticamente i valori per cui ci si trova assieme.
    L'ispirazione, la colorazione di cui si è parlato prima ha, a mio avviso, la funzione di sintesi: quindi diventa un fatto indispensabile.
    Il cristianesimo ha questa capacità di sintesi: in esso c'è un'analisi della situazione storica, è additata una gerarchia di valori, sono offerti degli obiettivi. Ma il cristianesimo è percepibile a partire dalle persone concrete che lo vivono. Chi lo vive, tira verso la salvezza della storia, nella misura in cui lo vive.
    E lo si può vivere anche a livello implicito. Ma anche a questo livello si cammina verso la realizzazione della salvezza. Cristiani e non cristiani, quando sono «impegnati», tutti assieme realizzano il regno di Dio.

    LE ATTESE DELLA POVERA GENTE

    NEGRI  Vorrei suggerire uno spostamento di prospettiva.
    Finora abbiamo preso in considerazione la vita «ab intra» del gruppo. Il rapporto tra pane e messaggio, tra ispirazione e azione affondava le sue radici nel gruppo, nell'eventuale pluralismo di culture religiose dei singoli membri.
    Un libretto di La Pira «Le attese della povera gente», mi suggerisce uno spostamento di visuale: una partenza «ad extra»: mettersi nei panni della povera gente, che si vuol servire.
    Mi chiedo: nella povera gente sussiste l'attesa di un messaggio. Vogliono solo pane o solo messaggio o pane e messaggio?
    Mi pare di dover rispondere, in base alla antropologia culturale, che nessun uomo vuole un pane senza un messaggio. Ciascuno, proprio perché uomo, ha diritto ad un rapporto personale (messaggio), oltre che economico (pane).
    Da qui nasce il problema grossissimo dell'ispirazione. Un gruppo sociale vuole offrire un pane. Quindi deve offrire un messaggio. Perciò deve porsi immediatamente il problema della sua ispirazione. L'affermazione va evidentemente dimostrata.
    Dato il carattere dialogico di ogni rapporto tra persone, chiunque riceve da un altro un pane, si domanda subito il perché. Lo dirà nel linguaggio più rozzo. Ma non può sfuggire all'interrogativo: che cosa vuole costui da me? O lui vuole farsi mio padrone o lui si mette a mio servizio... Nasce immediatamente la richiesta relativa al tipo di messaggio da comunicare. La risposta non sta in chi dà il pane; ma nelle attese di chi lo riceve. Attese superficiali e attese profonde, in collegamento di servizio. Non perché io sono marxista o sono cristiano, devo offrire un messaggio marxista o cristiano. Sarebbe un'ingiustizia.
    Ma il problema è più profondo. Ci sono elementi comuni, a livello di maturità umana, su cui tutti concordano. Questi fanno parte del messaggio, del modo con cui io offro il pane e del perché glielo offro. Ma c'è di più: chi riceve il pane ha diritto ad una novità, un'aggiunta specifica. Questo non si può evitare: ce lo ricorda ancora una volta, l'antropologia. I denominatori comuni, ciascuno li può ricevere dalla propria cultura: i diritti dell'uomo si radicano sulla natura umana e sono percepibili naturalmente. Ma quando si è aperto un dialogo, l'altro, confusamente, rozzamente, aspetta qualcosa di più: quel qualcosa che mi caratterizza. Ciò che prima chiamavo l'aggiunta, la novità.
    Perché mi dai un pane? Non basta la risposta: perché sei e sono un uomo. La «povera gente» mi chiede qualcosa di più: un perché più profondo.
    Solo mettendosi in questa prospettiva opposta, guardando cioè la vita del gruppo «ad extra» invece che «ab intra», è possibile trovare una soluzione al problema posto.
    Il gruppo, provocato dalla sua funzione di servizio, dovrà quindi studiare che tipo di messaggio portare, per fare davvero servizio, per rispondere alle «attese della povera gente». Non basta la mia fede, cattolica o marxista, per decidere il messaggio da portare. Va considerato l'altro. Fino al punto, direi, da rinunciare alla mia fede, per fare un vero servizio. Se il gruppo ha scelto un tipo di messaggio, come il più funzionante, ciascuno rinuncerà alla propria «ideologia» per portare quel tipo di messaggio.

    TONELLI  D'accordo in pieno con Don Negri. Vorrei solo aggiungere una riflessione. Il modo primo attraverso cui porto un messaggio, mi pare possa ritrovarsi nel tipo di intervento.
    Il «come» porto il pane specifica il messaggio che voglio offrire. Mi spiego.
    Per intervenire in una situazione è necessaria una attenta lettura della realtà e un punto di paragone con cui confrontare l'analisi, per un servizio ottimale.
    Sia nell'un caso come nell'altro soprattutto, nessuno è oggettivo, nel senso di freddo calcolatore di dati.
    Ogni lettura della realtà viene filtrata attraverso visioni personali. Questi filtri mentali tradiscono necessariamente la scelta di fondo che ciascuno ha fatto, personalmente.
    Poiché la chiave dell'intervento sta nel missaggio tra il reale e l'ideale e l'ideale è tutto dalla parte soggettiva (è il messaggio che io ho recepito, nei termini in cui io l'ho recepito), ogni intervento denuncia espressamente, con i fatti, un messaggio.
    Posso, in concreto, leggere una situazione in chiave ottimistica o pessimistica, in chiave capitalistica o proletaria, di difesa dell'ordine costituito o di sovvertimento gratuito. E posso pensare che il pane più urgente sia imparare ad usare un mitra o, al contrario, ricorrere alla preghiera.
    In tutto ciò, c'è un messaggio.
    Premesso questo, mi pare sia necessario veramente spostare l'attenzione da me all'altro.
    La realtà più importante è l'altro, da servire. Lo devo servire nella forma migliore possibile, secondo la sua misura.
    Se questo è vero, nascono alcune annotazioni pratiche.
    Il gruppo è veramente lo spazio in cui è possibile decifrare il metodo migliore di servizio, contro il personalismo acceso e individualista. Il gruppo però con una forte e continua capacità di autocritica, di contestazione di ogni assoluto, di ogni formula precostituita.

    MAURIZIO  Io, invece, non mi ci ritrovo, all'interno di questi discorsi. Noi parliamo di «dare» un pane o un messaggio. Io credo che sia tutt'altro, il problema.
    Noi non abbiamo il diritto di andare da un uomo che per determinate situazioni di inferiorità non ha il pane, e dargli questo pane. Il nostro compito è un'altro: creare in quest'uomo la capacità di farsi il pane da solo. Non donare ma insegnare a costruire. Non c'è nessun messaggio da comunicare, in questa prospettiva.
    Il messaggio che possiamo portare è un messaggio che egli già contiene in sè. Ciò che dobbiamo fare è un'opera di maieutica, di rivelazione. Io aiuto ciascuno a scoprire ciò che porta in sé. E l'aiuto in base a ciò che sono: da cristiano, se sono cristiano; da marxista, se sono marxista. D'altra parte, in questo servizio, non contano le parole, ma i fatti. La fede cristiana non è una serie di cose da comunicare, ma una vita da vivere. Il mio modo di vivere comunica già il mio messaggio.

    SERVIRE GLI ALTRI CHE COSA SIGNIFICA?

    BRUNO  Ho provato di persona.
    So che è molto difficile. Il discorso di don Negri è bello... ma molto teorico.
    Troppe volte, il pasticcio più serio è a monte, a monte del pane e del messaggio.
    Spesso mancano le condizioni strutturali perché questo messaggio possa essere recepito. O mancano le condizioni personali.
    Se mi trovo in presenza di chi è sempre stato abituato a ricevere il pane, non gli verrà più da chiedersi perché glielo do: è una cosa naturale, per lui, riceverlo. Oppure, può anche darsi – e non sono ipotesi, mi sembra, ma vita reale di milioni di individui – che in alcune situazioni ci sia una tale oppressione ideologica, una tale mancanza di libertà di pensiero, che la sola idea di un certo discorso possa far sorgere prospettive di paura. O, infine, il caso che forse è più «classico»: di chi è talmente alienato dalla sua condizione sub-umana, di chi ha tanta «fame», che non ha capacità fisiche di ricevere il messaggio. Almeno a breve scadenza, fino a quando non si cambiano le sue condizioni di vita.

    CATERINA  D'accordo.
    Io credo che il cristiano debba mettersi, prima di tutto, con gli altri uomini, e chiedersi: come posso io dare un pane che non duri solo un giorno, che sia veramente una liberazione dell'uomo, perché non abbia fame il giorno dopo.
    Il problema è soprattutto politico. E va affrontato qui, in Italia, nei paesi capitalistici. Perché la fame del Terzo Mondo ha le radici qui da noi. Prima del pane e del messaggio... c'è tutto questo.

    TONELLI  Come eco a quanto è stato affermato negli ultimi interventi, vorrei sottolineare un fatto che penso significativo.
    Servire una persona vuol dire prima di tutto dargli ciò di cui in questo preciso momento, qui-ora, ha bisogno e creargli la coscienza e la capacità di ottenere da solo ciò di cui continuerà ad avere bisogno.
    Si tratta cioè di un'alternanza di servizio e di stimolazione «politica». Il servizio è relativo al bisogno, nudo e crudo. Se non gli do una mano nel momento dell'urgenza, tutto il resto è inutile o, forse, dannoso, perché gli crea delle attese che praticamente saranno sempre insoddisfabili. Se non gli creo, però, una coscienza politica dei suoi diritti, egli sarà
    sempre a battere alla mia porta, quindi, tutto sommato, l'ho schiavizzato a me stesso: lo tengo strumentalizzabile per poterlo manipolare a mio piacimento.
    È quindi problema di equilibrio dinamico tra il pane e il messaggio, o il pane e la capacità di farsi da solo il pane.
    L'esperienza, mi pare, conferma la difficoltà di ritrovare questo punto di equilibrio.

    LA FAME SUPERFICIALE E LA FAME PROFONDA

    REDIGOLO  Ragionando troppo, si corre il pericolo di generalizzare, di allargare il discorso fino a fargli perdere ogni carattere di concretezza. I problemi, a mio avviso, sono molto più precisi.
    Quando dai all'emarginato la possibilità di essere recuperato, gli dai ciò di cui ha bisogno. Quando offri del pane a chi ha fame, gli dai quello che aspetta. A chi è ammalato, l'unica cosa che gli si può offrire è la salute o la rassegnazione; a chi è vecchio, la percezione che non è inutile nella società.
    È un affare di liberazione, di disalienazione. E aggiungo: reciproca. Mentre io do, io ricevo. Il mio dare mi fa entrare in crisi. Da questo continuo progredire, mettersi in discussione, nasce un processo di liberazione. Esistono dei modelli prefissati da presentare?
    A mio parere, assolutamente no: sarebbe un crimine.
    Ho l'impressione che vogliamo portare un messaggio a tutti i costi. Abbiamo sempre il bisogno di aggiungere qualcosina a ciò che diamo. Per me, quando ho liberato uno dalla fame, l'ho messo in una condizione umana decente, mi pare di avergli offerto la possibilità di accettare il nucleo centrale del cristianesimo.

    NEGRI  Non sono d'accordo su quanto è stato affermato. Mi pare il nocciolo della questione del rapporto pane e messaggio.
    L'antropologia contesta l'affermazione che colui che si trova in condizioni economiche bassissime aspetta solo la soluzione del problema economico.
    Quindi o superiamo questo impasse, o arrocchiamo la discussione su questo punto.
    Chi ha fame, oltre il pane o con il pane, aspetta il dialogo: ce lo dice
    non una concezione cristiana o marxista, ma gli studi a carattere positivo-scientifico.
    Se questo fatto è vero, non potrò mai dare un pane senza che l'altro – mi metto sempre nella pelle delle «attese della povera gente» – si aspetti una parola che spiega il perché gli dono un pane.
    Anche quando lo riceve dalla terra, si interroga.
    Pensiamo quanto più lo farà quando lo riceve da un essere libero, capace di dialogo: da un uomo.
    Queste considerazioni, a mio avviso, dovrebbero stare alla base di un gruppo che si butta nell'avventura di comunicare con gli altri. Potrei, al limite, offrire un pane talmente condito di minacce da spingere al suicidio chi lo riceve. E le relazioni dell'UNESCO, sui suoi programmi di civilizzazione, dicono che non è un'ipotesi... tanto per farne una. Dobbiamo avere il coraggio ascetico di spogliarci di tutte le nostre culture, prima di iniziare un rapporto dialogico: siccome è inevitabile che tu scateni l'attesa di un messaggio, mentre mandi una qualsiasi forma di aiuto socio-economico, devi porti onestamente questo problema.

    CERAGIOLI  L'esposizione di don Negri è molto convincente. Mi pare però falsata da una certa impostazione teorica.
    La concretezza dell'azione domina sempre la possibilità di scegliere il tipo di messaggio che posso trasmettere e il modo con cui lo posso trasmettere. Anzi, direi di più: il messaggio che il povero si aspetta è in esatto collegamento con il messaggio che io gli posso dare.
    Io non posso rinunciare alla mia personalità, pur nel pieno rispetto dell'altro, perché mancherei di rispetto a me stesso. Trasmetto la mia vita, la mia fede, ben attento a non condizionare la sua libertà di opzione. Non esiste una scelta del gruppo. Ma di ogni membro del gruppo.
    Tutto ciò apre il discorso del pluralismo, anche nel contesto socio-politico. È sostanziale che un gruppo di impegno socio-politico accetti e comprenda la funzione del pluralismo e delle divergenze. Questa visione non è accettata molto dai giovani. A mio avviso, invece è uno dei fatti fondamentali di una comunità politica democratica. Troppo frequente è il caso di gruppi in cui vengono lentamente ma inesorabilmente emarginati coloro che non la pensano come il gruppo.
    Forse, il Terzo Mondo ha bisogno di gruppi aperti: è una realtà urgente e nuova. Bisogna inventare formule nuove e strumenti di intervento nuovi. Sulla linea del pluralismo e della collaborazione «politica».

    MAURIZIO  Voglio ancora fare notare una cosa. Nell'azione di andare incontro, di «donare», noi non c'entriamo, non dobbiamo imporre niente di nuovo.
    Non accetto le affermazioni fatte di un perché che nasce spontaneo cui dobbiamo dare una risposta. La spiegazione, la risposta è già dentro quell'uomo che si pone la domanda.
    L'unica risposta sta nel dirgli che l'aiuto perché siamo entrambi uomini: è questione di giustizia. Null'altro.
    Noi siamo dei tramiti attraverso cui ogni uomo riesce a tirare dal profondo di se stesso le proprie verità. Noi dobbiamo solo ascoltarlo.

    REDIGOLO - Anch'io la penso così.
    Un povero, che cosa aspetta? La liberazione.
    Questo è quanto dobbiamo portargli, se ci riusciamo. Il resto non è un'aggiunta. Ma è rivelargli: ti aiuto, perché tu sei un valore; non è giusto che tu sia povero. Io non c'entro. Io ti restituisco quello che ti ho tolto: ti restituisco a te stesso.
    Tu sei povero perché hai perso la fiducia in te stesso, nella vita, nei tuoi diritti. Dandoti da mangiare, ti restituisco un senso alla tua vita.

    NEGRI  È giusto: ti restituisco la tua libertà.
    Ma per un certo tipo di cultura, questo può diventare la peggior angoscia. Tu, essere umano, sei entrato nella mia vita... e ora te ne vai? Io cerco uno che mi ami: voglio un padre e una madre. Te lo dico con un linguaggio primordiale, con dei gesti derivanti da culture stranissime. Ma voglio, prima di tutto, questo. E tu... te ne vai?

    TONELLI  Purtroppo il tempo ci chiede di concludere.
    Sono rimasti scoperti due grossi problemi.
    Primo: il gruppo d'impegno socio-politico sposta il suo punto di attenzione. Passa da uno sguardo narcisistico su se stesso, ad un'attenzione disponibile agli altri. Non sono più cristiani e marxisti, convinti di avere qualcosa di proprio da portare, ma persone protese a servire l'altro, per quello di cui egli ha bisogno.
    Come è possibile impostare una progressione di questo tipo di servizio? Secondo: se non è possibile offrire un pane senza accompagnarlo da un messaggio (e su questo ci siamo trovati abbastanza consenzienti), qual è il messaggio più universale? quello che fa maggior servizio? Qui è il vero discorso della cattolicità. Certo, abbiamo una risposta all'interrogativo, di cui siamo convinti: nel cristianesimo è conglobata la totalità delle istanze di servizio all'uomo. Ma il discorso va fatto in termini induttivi, ricercando e confrontando tutte le culture, per recuperare tutti gli aspetti positivi, lasciando solo i disvalori, gli errori, gli assoluti. Ma sarà un discorso da riprendere.


    Per non concludere un tema così scottante nel vago, la redazione offre alcune indicazioni di riflessione, come «proposte» con cui confrontarsi.
    Come mai i gruppi d'azione sociale si ritrovano più a loro agio con i messaggi marxisti e maoisti? Come mai partendo dal cristianesimo finiscono con il passare a ispirazioni marxiste, tanto sovente?
    La colpa è in molta parte nell'astrattismo teologico con cui si è presentato e portato avanti il messaggio cristiano, come ispirazione del gruppo, come «riunione formativa».
    Bisognerebbe cominciare da una critica del linguaggio usato, che comunica l'astrattezza dottrinale ai giovani.
    Un animatore di gruppo ebbe a dire: «Nel mio gruppo d'impegno cristiano mi pongo il problema di che cosa dare al di là dell'eucaristia?». Questo modo di dire già esprime una scissione tra eucaristia e impegno per il Terzo mondo. Perché non dire e pensare così: «Come giungere all'impegno sociale al di dentro dell'eucaristia?», cioè come partecipare alla Messa fino al punto da non poter più rifiutare di rimboccarsi le maniche per il Terzo mondo? Come giungere a vedere il Terzo mondo come volto di Cristo, come carne in cui Dio si è fatto uomo? Come ritrovare in una più forte contemplazione di Cristo, la spinta forte all'azione con Cristo?
    Tutto sta nel capire e presentare bene la cristologia: presentare Gesù veramente incarnato, veramente salvatore, vuol dire includere con massima intensità il Terzo Mondo nell'amore a Cristo, che si è fatto in pratica il Terzo Mondo, assumendo l'umanità reale. Allora ogni passo nell'amore o nella ricerca di Dio è immediatamente un passo nell'amore e nella ricerca del prossimo, della «carne» in cui Dio si è fatto carne (cfr. in proposito lo studio a pag. 24 ss.).
    Ma c'è ancora di più.
    Il gruppo parte da una ispirazione cristiana e si muove in essa. Se al centro di questa ispirazione vi è il vero Gesù Cristo, Dio fatto uomo, il suo incarnarsi è tra gli aspetti più forti di ammirazione e imitazione. Imitare l'incarnazione diventa allora «mettersi nei panni» non di Dio, ma del prossimo. Noi ci fermiamo alla reciprocità: Dio verso di noi, noi verso Dio, ma questo non imita Dio quindi non é soprattutto ciò che Dio vuole. Imitare il «Dio-verso-noi», significa per ciascuno: «io-verso-gli altri» con Gesù Cristo e come Gesù Cristo, cioé possibilmente incarnandomi negli altri.
    Da questa linea ogni contemplazione di Cristo diviene imitazione quando il gruppo si sforza di «incarnarsi» nelle situazioni degli altri, e, per venire al nostro tema, nelle «attese» degli altri: le «attese della povera gente».
    In tale fortissima incarnazione noi troviamo la spinta a quella pratica «comprensione empatica» che ci viene da Rogers e che significa dimenticare le
    proprie idee, le proprie «ispirazioni», le proprie «interpretazioni» della realtà, per capire, assumere, far proprie le idee, le attese, le «ispirazioni» e le «interpretazioni» del nostro prossimo. Dirà magistralmente la Gaudium et Spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi... sono le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo».
    Ora in tale incarnazione, in tale «comprensione empatica», si viene a scoprire che le «attese» non sono mai di solo pane (aiuto socio-economico), ma anche di rapporto personale, di dichiarazione personale, di dialogo, di messaggio, di motivazioni esposte, di significati comunicati. C'è una attesa di ciò nei poveri che serviamo, tanto più acuta quanto più forte è l'aiuto materiale che diamo, tanto più intensa quanto più le aspirazioni primordiali sono deste accanto agli istinti fisiologici. E questo è sempre coesistente: mai l'uomo «vive di solo pane», vuole un messaggio interpersonale, come il bimbo che succhia il latte materno e in esso accoglie il messaggio di un amore umano che lo raggiunge e gli si dichiara.
    Da questa «attesa» reale e insita nei destinatari dell'azione sorge la più forte soluzione del problema. Un gruppo d'impegno sociale così impostato, cioè sulla base dell'incarnazione, non potrà mai identificarsi con la sua azione senza sentire il pressante bisogno di rispondere all'«attesa» spirituale, destata nel povero che serve e allora nella vita interna del gruppo si troverà inevitabile lo spazio per capire meglio questa «attesa», per elaborare meglio questo «messaggio atteso», per non tradirlo.
    In sintesi:

    ♦ per chi parte dall'azione:
    • azione sì, ma che sia onesta verso il prossimo
    • il prossimo ha due «attese»: il pane e il messaggio personale
    • il gruppo fa azione onesta perché cura il pane atteso e cura il messaggio atteso
    • il gruppo all'interno ha riunioni per curare «il pane» e riunioni per curare «il messaggio» atteso

    ♦ per chi parte dall'ispirazione:
    • ispirazione sì, ma che sia cristianamente vera
    • il vero Cristo si incarna nell'umanità reale
    • non si può amare il Cristo senza incarnarsi nel prossimo
    • incarnarsi vuol dire prendere sul serio le «attese» della gente
    • tali attese sono due: il pane e il messaggio
    ecc. come sopra.

    Nei due iter si salva l'indissolubilità tra azione e contemplazione: la spinta all'azione trae con sé la spinta alla contemplazione e viceversa e in tal modo «le attese della povera gente» sono rispettate e la «attesa» di ogni partecipante al gruppo, come persona umana, è salvata.
    (G. Negri)


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