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    La comunità come luogo per la corresponsabilità



    Pino Scabini

    (NPG 1970-12-07)

    Ogni riflessione sulla corresponsabilità assume il tono stanco della genericità se non morde sul concreto.
    Accontenta e culla la sensibilità dei benpensanti o stuzzica l'emotività dei riformisti arrabbiati. Ma non approda a nessuna movenza operativa. È un discorso inutile, quindi: come ogni discorso che stempera nelle mille parole la difesa dello statu quo o avanza, con demagogico populismo, istanze irrealizzabili.
    La corresponsabilità è dialogo, tra due interlocutori concreti, per realizzare un fascio preciso di fini, in una ricerca del punto dinamico di equilibrio tra tensioni ben difficilmente eliminabili.
    I fatti sono su questa linea. Basta rileggere l'ultimo intervento di questo studio: la parola dei giovani.
    Ecco, allora, il primo presupposto: la comunità (la percezione, cioè, di essere «assieme» perché «convocati») è lo spazio in cui è possibile impostare, seriamente e costruttivamente, una proposta di corresponsabilità.
    Certamente, le indicazioni che seguono, sono di tipo ottimale: sottolineano un punto d'arrivo. Purtroppo, chi è dentro, ha forti dubbi sulla possibilità di realizzare, di fatto, una vera comunità, ove la corresponsabilità stia di casa, senza tante infrastrutture.
    L'ideale non è l'unica componente di una programmazione di servizio. Ma è componente. Va quindi presa in attenta considerazione.

    Un interrogativo che attende risposta: data per scontata la necessità e fatto della comunità educativa, in cui trovano ragion d'essere gli educatori e gli educandi, qual è il modo di esercitare la propria responsabilità da parte dell'educatore, nel compito di formare alla funzione pastorale gli educandi, in particolare i giovani, così che diventino costruttori di chiesa?
    L'oggetto immediato del discorso è l'educatore, ma si dovrà calare l'educatore nel contesto della comunità, perché chi educa è la comunità; la comunità ecclesiale, di cui le associazioni, i gruppi, sono una espressione, un segno (AA, 18).

    EDUCATORI ED EDUCANDI NELLA COMUNITÀ CHE EDUCA 

    Osserva L. Evely: «Qual è il motivo per cui la maggior parte dei giovani che abbiamo educato, a cui abbiamo insegnato, che hanno frequentato il catechismo, perdono la fede? Essi non hanno mai avuto la prova decisiva, l'argomento proporzionato alla loro esigenza, la sola evidenza che li avrebbe dispensati da tutti i ragionamenti. Essi non hanno mai incontrato la chiesa. Eppure essi si sono avvicinati alla chiesa più spesso di quanto non avrebbero voluto, più sovente di quanto non sarebbe stato necessario. Ma è stato soprattutto in simili occasioni che non hanno incontrato la chiesa, cioè una comunità di adulti in Cristo, che riescono ad amarsi gli uni con gli altri: il Cristo vivo nell'unione dei suoi membri. Si parla di chiesa del silenzio. In realtà, una chiesa silenziosa, pietrificata, sonnolenta, senza scambio, senza comunione, senza il minimo calore o gioia di essere insieme in Cristo al servizio del mondo, può essere la nostra, oggi. La vera chiesa del silenzio è quella in cui si tace, in cui non si fa nulla: quella che non parla né a noi né agli altri» (Il credo dell'uomo di oggi, Assisi, 1968, p. 221 ss.).

    IL MISTERO DELLA SALVEZZA SI COMPIE NELLA COMUNITÀ DEI CREDENTI

    La citazione di Evely avvia una riflessione assai comune, oggi, non solo a livello dottrinale ma anche sul piano esistenziale: se si vuole crescere in Cristo, bisogna passare attraverso la comunità ecclesiale presa nella sua completezza, ossia nella sua unità e nella sua varietà. l testi del Nuovo Testamento insegnano elle il mistero della salvezza si compie e si inserisce nella storia attraverso la comunità dei credenti; ed è nella comunità dei credenti che si sviluppa anche la vocazione personale dei singoli uomini. Ci limitiamo a poche citazioni:
    • La preghiera di Cristo (Giov 17,21) : «Padre, che tutti siano un solo essere, come tu ed io siamo un solo essere, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato».
    • Le sintesi finali di Atti 2,41 e ss. e 4,3 e ss.; ancora, Atti 6,1 e ss.: l'elezione dei diaconi nasce dall'interno della comunità. E non si legge senza commozione lo stupendo versetto finale di Atti 2: «Intanto il Signore aggiungeva alla comunità, ogni giorno, gente che si salvasse».
    • Del resto Giovanni 11,52, testimonia alla prima comunità cristiana il senso della morte di Cristo: Gesù è morto «non per la sua nazione soltanto, ma anche per raccogliere insieme i dispersi figli di Dio». Tutto il senso del mistero pasquale è in questo «raccogliere insieme», questo stare insieme, questo «fare comunità», che la coscienza oggi pare esprima con più forza che nel passato.
    Ecco un punto estremamente importante nel discorso avviato: il «primum» storico, concreto, immediato, di natura pastorale è fare comunità. Perché piacque a Dio santificare e salvare gli uomini non salvandoli individualmente, ma riunendoli in un popolo. L'obiettivo non solo del lavoro di associazione ma del nostro essere, la motivazione più profonda, è nel fare comunità, perché di qui passa la salvezza. La comunità converte, edifica ed annuncia il mistero di Dio (cfr. Lumen Gentium 9; Gaudium et Spes 32; Unitatis redintegratio 2).

    QUALE COMUNITÀ?

    Vivere in comunità, crescere in comunità, fare comunità; ma quale comunità?
    Non un'assemblea religiosa generica: non si sta insieme solo per dare il tributo di lode e di culto a Dio.
    Non una pura esperienza di democrazia interna: non si sta insieme unicamente per vedere di trovare il proprio posto nel miglior modo, con il massimo rispetto gli uni degli altri.
    Non un coacervo sentimentale di propositi e di illusioni: non si sta insieme perché è bello stare insieme.
    È invece una comunione di persone, ossia una unione di persone umane, un'intima relazione di queste con le Persone divine e tra di loro, che è pegno e strumento dell'unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano. Questo stare insieme è un fatto storico ma anche misterioso, perché si sta insieme in quanto si rivela e si produce l'unione con Dio e con tutti i fratelli.
    È un organismo visibile in cui opera lo Spirito Santo.
    una comunità pasquale, sempre in dinamismo, sempre in tensione, sempre capace di «passare» (il significato della «pasqua»): Giovanni direbbe da questo mondo al Padre (13,1), noi diciamo da un tipo di esistenza storica come la nostra ad un'altra esistenza che non è più soltanto storica. Una comunità pasquale, quindi, acquistata con il sangue di Cristo; Chiesa di Lui, di Cristo, non di uomini quella attraverso cui passa il mistero di salvezza.
    La comunità di cui parliamo non è tanto o soltanto di quelli che cercano e scelgono Cristo, ma di coloro che sentono di essere chiamati dall'alto, trasformati interiormente e convocati mediante la Parola di Dio. In sintesi: è una comunità essenzialmente basata sul mistero di Cristo che agisce nello Spirito Santo, grazie al quale gli uomini s'incontrano con il Padre in una profonda relazione d'amore e si uniscono tra loro in fraternità (1 Giov 1,6-7).

    LA PERSONA CRESCE NELLA COMUNITÀ

    La comunità fa crescere nella fede, alimenta e compie l'unità tra cristiani, mette in stato di servizio l'uno verso gli altri: il gruppo dei cristiani verso i propri fratelli e la chiesa verso il mondo.
    È nella comunità che la fede cresce. La fede è un dono personale dato dallo Spirito. Ma questo dono personale cresce nel momento in cui si ascolta la Parola in seno ad una comunità. Chi ha la garanzia dell'indefettibilità, cioè di accogliere autenticamente la Parola e di esserne custodito, non è la persona o il piccolo gruppo, ma la comunità nel cui seno è chi ha il compito di proporre autorevolmente la Parola (LG 12; DV 10). Così la vita di unità, che è la caratteristica del cristiano, diventa piena quando si è inseriti nella comunità. Attraverso la liturgia, e in particolare attraverso l'Eucaristia, si rappresenta e si effettua l'unione di tutti i cristiani. Presbyierorinn Ordinis osserva che è illusorio voler educare alla comunità o pretendere di fare comunità senza partire dall'Eucaristia e senza finire nella Eucaristia (n. 6).
    Infine è insieme alla comunità che il singolo credente esercita il suo servizio, cioè la carità, sia come singolo all'interno della comunità stessa e verso tutti gli uomini, sia come chiesa verso il mondo (GS 3). Questo esercizio di carità cristiana riguarda l'ordine soprannaturale e l'ordine naturale, cioè tanto l'annuncio del Vangelo e la santificazione quanto l'animazione con lo spirito evangelico del mondo e delle sue strutture. Esso inoltre non è mai monopolio di nessuno all'interno della Chiesa: non basta il ministero dei preti per l'evangelizzazione ma occorre quello dei laici, che «sono cooperatori anch'essi della verità» (PO 6). Anche l'animazione di un'istituzione temporale nello spirito evangelico non è mai fatta da alcune persone con esclusione di altre; è tutta la comunità che è interpellata e compromessa nella crescita del singolo credente.

    COMUNITÀ E COMUNIONE

    La comunità di cui parliamo è una comunità originale, senza modelli nel campo umano. La sua legge costituzionale è la comunione, vale a dire un fatto permanente di unità e di comunicazione.

    ♦ Unità è riunione incessante, espressa anche visibilmente, con grandi e piccoli segni.
    Vuol dire superamento di divisioni, di scissioni, di ghetti, di sette: è logico. Ma anche superamento di distinzioni eccessivamente accentuate. Ad esempio non è solo il prete che forma; non è solo il laico che agisce. Nessuno nella chiesa esaurisce tutto il dinamismo della chiesa stessa. Nessuno è tale da non aver bisogno dell'altro. Unità allora è anche superamento di distinzioni legittime ma eccessivamente accentuate. È mettersi in fraternità.
    Unità è ancora promozione dei segni di unione. Il Concilio ne enuncia due. Sono: gli organismi collegiali (consigli di laici, consigli di presbiteri, consigli di religiosi, consigli pastorali e, ad altro livello, la collegialità dei vescovi); e le associazioni. Se si vuol leggere il Concilio integralmente bisognerà tenere conto di queste indicazioni: pare che qualche volta, quando si fa un'eccessiva critica all'associazionismo, si saltino disinvoltamente (Cfr. CD 28; AA 18,19,20 e 26).

    ♦ Comunicazione è apertura, servizio, donazione sulla scia di Cristo:
    «Amatevi come io vi ho amati» (Giov 13,35). È circolazione di carità. In questa apertura, trova posto la «localizzazione» della chiesa, ossia la chiesa legata ad un «luogo». S'intenda bene. Una chiesa è locale non quando nasce dal basso e si costruisce dal basso («Qui c'è molta gente, ci mettiamo in mezzo un prete o – meglio ancora – un vescovo, e allora abbiamo la chiesa locale»). La Chiesa locale è la chiesa di Cristo, universale, unica, indivisa, che si cala e si incarna in un luogo, con l'attenzione agli uomini e alle situazioni, diventando così manifestazione di Cristo, mediante il mistero della Parola e dell'Eucaristia, presieduta dal vescovo.
    Essa è essenzialmente connotata da due caratteristiche:
    • È una chiesa missionaria dinamica. Se non è missionaria non è chiesa locale; se non è capace di donarsi come Cristo si è donato, è un luogo geografico, non una chiesa. Forse molte delle difficoltà che incontriamo oggi derivano proprio dall'aver prestato superficialmente il termine «chiesa» locale a qualche espressione geografica.
    • Una chiesa attenta alle esigenze concrete di questi uomini che sono in questo luogo, in queste situazioni. Ne consegue che non necessariamente le chiese locali sono uguali; anzi: le chiese locali avranno una propria fisionomia, perché sono l'incarnazione dell'unica chiesa di Dio nei contorni della storia, dove le situazioni sono diverse e gli uomini hanno le loro differenze.

    ALCUNE CONSEGUENZE

    Dal discorso fatto finora, si possono derivare alcune indicazioni in ordine alla funzione degli educatori.

    La comunità «edifica»

    Se è la comunità che «edifica», ossia educa e fa crescere nella vita secondo lo Spirito, gli educatori sono capaci di formare nella misura in cui sono «dentro» alla comunità ecclesiale.
    • La responsabilità diventa «corresponsabilità»; mettendosi all'interno di una comunità ecclesiale, standoci dentro, ci si accorge che il vicino non è tanto un oggetto, quanto piuttosto un «soggetto». La corresponsabilità ha la sua radice nel fatto che tutti i membri della Chiesa sono «soggetti» agenti di pastorale, cioè dell'azione di sviluppo della chiesa. Tutti i battezzati sono dei portatori di doni che fanno crescere la chiesa; ma ciò ha senso se ogni singolo battezzato ha coscienza e sceglie di stare dentro alla comunità, in modo dinamico. Ciò impegna all'attenzione per la chiesa e in particolar modo per la chiesa locale; attenzione che, al posto di essere un puro fatto esteriore, diventa un autentico costruire la chiesa con le proprie capacità.

    • Siccome la comunità che edifica è singolare, anche le sue azioni sono singolari. In questa prospettiva, l'educazione cristiana, non si limita ad essere istruzione o educazione, anche quando questa parola è presa nel senso più pieno; ma si trasforma in azione pastorale, che accompagna una persona nella sua crescita fino a farla diventare un «uomo perfetto in Cristo», passando attraverso la comunità.
    Questo vuol dire che bisognerà ricorrere ai grandi mezzi ecclesiali. Non c'è educazione e non c'è formazione, non si è educatori e non si è veramente dei corresponsabili, se non nella misura in cui stando «dentro» alla comunità se ne assumono i mezzi. Quelli della chiesa sono i mezzi «poveri» della Parola, della liturgia e della carità che edifica, cioè del servizio. Tale realtà può aiutare a superare alcuni pericoli, come il naturalismo o l'individualismo, comunque non si educa e non si cresce in un qualsiasi modo.
    Conviene essere molto attenti a questa indicazione che viene dalla natura stessa della comunità in cui viviamo. Ne riceve luce anche la questione delle tecniche e, prima, dei metodi: utilissimi, ma sempre a servizio dei fondamentali mezzi accennati. Un oratorio, un gruppo giovanile, una associazione, o è fondata sulla Parola, sulla liturgia e sulla carità, oppure non è segno di chiesa. Dovremo richiamarcelo fortemente, in questi anni, per non lasciar passare invano un vero momento di grazia che abbiamo a nostra disposizione e di cui veramente risponderemo di fronte alla storia.

    • Non si forma un qualsiasi uomo, ma l'uomo nuovo, cioè l'uomo adulto in Cristo, l'uomo perfetto, come dice ripetutamente la Gaudium et Spes (22-41-63-76, ecc.).
    È importante focalizzare un po' l'attenzione su questo punto. Chi è l'uomo nuovo? Negli scritti di S. Paolo è contenuta una serie di progressioni, che tentiamo di presentare in sintesi.
    a) L'uomo in Cristo è un uomo generato da Dio e vivente in Cristo stesso; quindi l'uomo nuovo sta con gli altri, ma non come gli altri. Ciò naturalmente non significa che il cristiano è superiore agli altri uomini, ma che è originale rispetto a loro (Ef 2,15; 2 Cor 5,17; Ap 21,1).
    b) Questo uomo nuovo è l'uomo adulto, non più bambino e non «vecchio». Nel linguaggio di S. Paolo, bambino è colui ancora legato ad esteriorità o ritualismi, amante della discordia e della divisione, incapace di essere fermo e costante. Cfr. 1 Cor. 2,6; 13,10-11; Col 1,25; Ef 4,13 ss.; Ebrei 5,12-15.
    c) Infine, l'uomo nuovo è l'uomo radicato nella libertà, che è il nome nuovo della maturità. Il cristiano è essenzialmente un uomo libero (P0 6).

    Nella comunità trovano posto e giustificazione i vari ministeri

    Se è la comunità che «edifica» non bastano i preti, non bastano i laici (per dire i due ruoli principali). Tutti i ministeri sono importanti, nessuno è esaustivo.
    Nella comunità trova posto il ruolo del presbitero: educatore della fede, padre e maestro (PO 6 e 9). Occorre molta riflessione, per non dare adito a confusioni. Sul piano dei valori ontologici, è certamente il popolo di Dio animato dallo Spirito Santo che è all'origine di tutto; ma sul piano storico, che è anche quello pastorale, la genesi della comunità ecclesiale – e, con le dovute proporzioni, anche dei piccoli gruppi – è legata alla presenza del prete (Cfr. Y. Congar, Ai miei fratelli, Queriniana, 1968, p. 53). Un piano non contraddice l'altro. Gesù Cristo ha scelto prima i suoi discepoli; poi tra i discepoli ha scelto un collegio apostolico; sugli apostoli ha fondato la sua chiesa. Questo avvenimento storico non mortifica il piano di Dio, che ha fatto il popolo intero destinatario dei suoi doni. Ma fa riflettere molto: il ruolo del presbitero non può essere né mortificato, né messo in disparte, né tantomeno contrabbandato o strumentalizzato.
    Una comunità allora non costruisce, non edifica senza il ruolo del prete; però con la stessa forza bisogna dire che una comunità non edifica senza il ministero dei laici, «cooperatori della verità». L'osservazione di Presbyterorum Ordinis (n. 6) completa magnificamente la descrizione che del ruolo dei laici fa la costituzione Lumen Gentium ai numeri 30-38. Vuol dire che non c'è mistero di salvezza («veritas») che non esiga non solo la presenza, ma anche il contributo attivo dei laici. Questo dev'essere ribadito fortemente quando si parla della comunità nel suo aspetto dinamico e formativo. È possibile ancora all'interno di una associazione distinguere così marcatamente i ruoli del prete e dei laici? Si può dire allora, come si diceva fino a pochi anni fa, che il prete è l'assistente spirituale, i laici sono i dirigenti organizzativi? Non è negare il dinamismo più profondo che anima chi sta dentro la Chiesa? In realtà, tutti in qualche modo fanno ciò che una volta si chiamava azione spirituale. Nello stare insieme di preti e laici, nel richiamarsi vicendevolmente sta la fecondità della chiesa (Cfr. AA 14 e 21).

    Dentro la comunità si sviluppano compiti specifici

    Bisogna riconoscerli e creare per essi il giusto spazio perché siano convenientemente esercitati. Tra gli altri, vorremmo richiamare il compito specifico delle associazioni o gruppi – grandi o piccoli, istituzionalizzati o meno – quali segni esprimenti la comunità più grande. Essi sono una testimonianza rivelatrice e uno strumento di sviluppo della comunità (AA 18).
    molto importante fare pace con questa verità pastorale. Anche da un punto di vista storico, si può affermare che senza i gruppi la chiesa locale rischia di non essere veramente tale, perché essi sono capaci di infondere quel dinamismo, quella missionarietà di cui si parlava prima; essi la portano a condizioni di concretezza, di attenzione ai singoli uomini e alle singole situazioni.
    Dentro ai gruppi si sviluppano poi funzioni tipiche. Per esempio, quella di educatori, che si potrebbero meglio definire «responsabili con compiti speciali». Coloro cioè che sono capaci di educare all'equidistanza, adatti a garantire il proprio posto a ciascuno, e nello stesso tempo a far sì che l'unità sia sempre più visibile, perché la persona cresca.

    Riepilogando: la comunità educa; i piccoli gruppi fanno sì che la comunità sia in grado di educare; ma i piccoli gruppi crescono solo se ciascuno dei suoi membri esercita i propri compiti; tra gli altri, vi è il compito dell'educatore, colui che aiuta a crescere secondo le esigenze della persona inserita nella comunità.

    L'ESERCIZIO DELLA CORRESPONSABILITÀ 

    In questa prospettiva, prendono forma dei grandi orientamenti per l'esercizio della corresponsabilità da parte degli educatori. O, meglio, perché cresca nella chiesa la corresponsabilità, mediante l'azione degli educatori.

    ORIENTAMENTI DA ASSUMERE OGGI

    Anzitutto occorre essere attenti ad alcune indicazioni che il Concilio enuncia per l'opera formativa.

    L'ascolto e il servizio del piano di Dio

    Non è mai sufficientemente messo in rilievo che le vie di Dio non coincidono di per sé con quelle degli uomini; il piano divino viene prima dei progetti e dei criteri umani, e gli uomini – ivi compresi coloro che sono chiamati «maestri» – non sono i possessori della verità, ma sono posseduti dalla verità (Mt 23,8-10).
    Bisogna assumere pertanto le linee del progetto di Dio, che il Concilio esprime con una serie di annotazioni estremamente concrete.

    • La prima e fondamentale condizione di esistenza del popolo di Dio sta nell'uguaglianza dei suoi membri in dignità e libertà. Una libertà che è fondata sul comune possesso dello Spirito e che deve sempre essere rapportata all'unità (LG 9). Non solo: questi membri del popolo di Dio non sono principalmente soggetti all'autorità, ma soggetti di autorità. Se dunque i laici hanno un posto nella chiesa, necessariamente devono in essa avere una voce; altrimenti è illusorio parlare dei laici come «soggetti» attivi nella comunità dei credenti.

    • La dottrina del urbani (LG 12). Se la chiesa è un popolo che deriva la sua origine dallo Spirito Sunto che ad ognuno distribuisce i suoi doni, si dovrà meditare attentamente che si riesce a far crescere un ragazzo solo con il rispetto del dono dello Spirito che è in lui, senza soffocarlo, ignorarlo o strumentalizzarlo. In verità, il n. 12 della Lumen Gentium è un punto nodale di discussione. Esso insegna che lo Spirito è la fonte della libertà dei figli di Dio. La chiesa è baluardo di libertà quando è docile allo Spirito. Forse è ancora abbastanza radicata la convinzione che il cristiano ha la libertà perché gli è concessa da un altro uomo; ma il cristiano è libero perché lo Spirito Santo è la fonte della sua libertà. Ne deriva un atteggiamento di profondo rispetto, di riconoscimento e di promozione della libertà di tutti.
    Sempre in tema di carismi, è logico pensare che anche i pastori della chiesa hanno dei doni dello Spirito, cioè sono pastori perché sono dei carismatici. L'obbedienza ad essi dovuta è quella chiamata corresponsabile, vale a dire quella dell'aiutarsi insieme riconoscendosi i doni vicendevoli, per far crescere la Chiesa.
    I pastori riconoscono i carismi, non li rendono validi. Il riconoscere è un esercizio di autorità, è chiaro; però i carismi sono tali non perché i pastori li rendono validi, ma soltanto in quanto li riconoscono.
    E infine: i carismi sono autentici quando come contenuti sono evangelici, e come modalità di essere propendono verso l'unità. Chi è portatore di carisma inclina al dialogo, non alla rottura; alla comprensione, non all'intransigenza; alla fortezza e alla chiarezza, non alla connivenza e al compromesso.
    Il ricordare tutto questo aiuta a ribadire che il primo compito degli educatori è di formare dei membri di una comunità con i mezzi di Dio e secondo il suo piano, non secondo i propri gusti. Di conseguenza, non sono le piccole devozioni che formano, ma i grandi mezzi di Dio: la Parola, la Liturgia e la Carità. Non si comincia con le spiritualità, ma con la spiritualità; le spiritualità legittime vengono dopo. Si può essere attenti ad alcuni aspetti della vita della chiesa, se prima si è attenti a tutti gli aspetti.

    Ascolto, rispetto e servizio della vocazione di ciascun membro della Chiesa

    Bisogna ascoltare, rispettare e servire la vocazione di ogni uomo, perché suscitata dalla liberissima azione dello Spirito Santo. Il discorso porta alla domanda se gli educatori impongono o propongono. Dietro a suggestive parole di libertà, si nascondono talvolta forme dittatoriali; invece lo stile dell'educatore è sempre uno stile di proposta.
    Una simile visione delle cose porta a revisionare anche lo stile della direzione spirituale, dando spazio alla figura dei «consiglieri» spirituali: non è un diminuire il compito del direttore spirituale; al contrario, è aumentarne le responsabilità.
    Nella stessa scia di riflessioni, emerge che i preti non sono onniscienti; che per educare i laici, ad esempio, essi hanno bisogno dei laici: un prete da solo, in rapporto alla specifica vocazione laicale, non riesce a cogliere la ricchezza del suo prossimo.
    Infine, un educatore non sarà mai un accentratore, l'uomo di un'idea sola, di un hobby personale che matura nella sua intelligenza e nel suo cuore. È piuttosto l'uomo che è capace di rispettare coloro che ha davanti, facendo sintesi e diventando centro unificante dei doni che sono sparsi attorno a lui.

    • La formazione del singolo nella comunità
    C'è una duplice direzione dell'attività educativa: verso la persona e verso la comunità. O, meglio, verso la persona inserita nella comunità.
    Non mancano i problemi. Il primo è l'educazione alla fede. Essa nasce da una risposta libera e personale, e perciò dovrà essere suscitata ed educata in un rapporto personale. L'educatore deve avere ben chiaro, nell'esercizio della sua responsabilità, che non è l'istituzione che salva, ma è il rapporto personale del singolo con Cristo, del singolo che è dentro una comunità. Un rapporto personale e dialogico nello stesso tempo. L'incontro personale dell'educatore con un ragazzo costituisce un valido aiuto perché la fede sia sempre più libera, sempre più «umana».
    Però, contemporaneamente a questo, ecco l'altro problema. Una vita comunitaria che educa i suoi membri attraverso la testimonianza e l'azione, comporta un giudizio sulle realtà quotidiane e sulle comuni condizioni di vita; ma a questo punto nasce il problema del pluralismo delle opinioni. Esse vanno rispettate. Un gruppo non è necessariamente omogeneo in questo senso – almeno, questa è la mia convinzione –; il gruppo è tanto più vivo quanto più riesce ad esprimere ciò che sente profondamente ognuno dei suoi membri. L'educatore – ciò è di vivo interesse – rispetta il pluralismo delle opinioni, diventandone – come dire? – un centro unificante; è colui che riesce a far emergere ciò che è comune in tutte le opinioni. È abbastanza difficile rispettare il pluralismo e fare unità: ma sono ambedue esigenze essenziali per la vita di un gruppo.

    • L'educatore non è un plagliatore, colui che prende l'esperienza fatta in un luogo e la trapianta in un altro perché là è ben sortita; gli tocca invece tenere conto delle esigenze degli uomini che ha davanti e delle situazioni concrete in cui si trova. Il discorso ha parecchi risvolti e non manca di interrogativi; ma la sua applicazione all'associazionismo e all'educatore non è indebita.

    PERICOLI DA EVITARE

    Brevemente, a titolo d'esemplificazione:

    • Naturalismo: è il primato del naturale e del temporale sulla visione di fede. Quando si riduce tutta un'associazione ad un'esperienza di organizzazione, s'incappa in una visione angusta quanto lo sono i postulati naturalistici.
    • Ritualismo: dare un'importanza eccessiva, anche nella formazione, ai riti, o ridurre la liturgia e i sacramenti a semplici cerimonie va a danno della scoperta del mistero.
    • Escatologismo esclusivo: vivere la propria vita a livello puramente «spirituale», senza sentire l'impegno di incarnarla nel mondo, condurre molti ragazzi a vivere per se stessi, nell'illusione di essere «buoni». Buoni per che cosa? «Dicono di amare Dio e non amano nessuno» (Péguy). Nessuno dubita che la verifica dell'autenticità di una esperienza spirituale sia l'impegno nella realtà.
    • Individualismo: considerare la propria fede un affare privato o un appannaggio dei singoli gruppi. Accanto all'individualismo della persona, non si può ignorare che sta nascendo anche un individualismo di gruppo: il gruppo che si chiude in se stesso, il gruppo che è fatto di perfetti, il gruppo che immediatamente giudica gli altri.
    • Collettivismo: l'insufficiente assunzione di responsabilità personale, il gregarismo, il fare massa, lo stare insieme perché il «vogliamoci bene» è sempre utile. Alla sua origine ci sono due esagerazioni: l'esagerazione dell'autorità che diventa autoritarismo (con l'autoritarismo si forma un branco, non una piccola comunità o un gruppo di credenti che sanno obbedire); e l'esagerazione della partecipazione o, meglio, un disordine di partecipazione che porta all'anarchia (con l'anarchia fatalmente nasce la ribellione). In entrambi i casi, si tratta di educazione insufficiente, di formazione non completa.

    VALORI DA PROPORRE, OGGI

    Nella presente situazione storica alcuni valori meritano la preminenza sugli altri.

    La libertà cristiana

    Viene spontaneo sottolineare più la qualifica (cristiana) che non il soggetto (libertà). Il cristiano è libero non perché ha ricevuto da Dio un codice di leggi, sia pure scritto da Lui con il proprio dito, come era capitato con le leggi dell'antica Alleanza; ma perché ha ricevuto la legge di Dio scritta nel suo cuore dallo Spirito Santo. E libero colui che ubbidisce allo Spirito Santo e vive secondo le sue indicazioni. Per questo la libertà cristiana comporta anzitutto la presenza dello Spirito Santo, perché solo dove c'è lo Spirito c'è libertà (2 Cor 3,17). Esige anche la risposta integrale dell'uomo a questa presenza, fino a far posto a Dio, allo sparire esteriore dell'uomo: è libero colui che si trasforma secondo la legge dello Spirito Santo. E siccome questa è una legge di amore, allora la libertà sta nel servire gli altri con amore. Non si legge mai a sufficienza Gal 5,13: «Voi, chiamati alla libertà, mettetevi al servizio gli uni degli altri». Il sigillo autentico di libertà è l'impegno per gli altri, l'uscita da se stessi per far posto all'amore personificato di Dio e tradurlo nella propria vita. L'educazione alla libertà diventa pertanto concepire Dio come colui che è dentro di noi e che ci spinge verso gli altri. Su questa linea si possono poi trovare i metodi e le tecniche. Qui vogliamo solo ribadire che oggi è estremamente importante educare alla libertà cristiana.

    L'impegno e la responsabilità

    Educare alla responsabilità non è tanto educare a rivendicare i propri diritti, quanto ad assumerli con responsabilità. Può capitare frequentemente che un educatore, prete o laico, stia vicino ad un ragazzo e lo aiuti a diventare un ribelle. Ma il ragazzo non ha bisogno di aiuto per scoprire In me stemmo gli aneliti e i fremiti della libertà radicale. Il lavoro dl educazione comincia dal prendere atto della potenzialità ribelle dell'adolescente per farla maturare verso l'impegno generoso, che consenta al ragazzo di interessarsi a fondo del Terzo Mondo, e nello stesso tempo lo renda capace di riconoscere l'educatore che gli è vicino come un fratello e magari come autorità, come uno che ha dei doni particolari.
    Questo tipo di impegno educativo comporta anche l'educare ad avere piena coscienza dei propri limiti. Il ragazzo, quando si impegna, capisce immediatamente, se è serio, che non riesce a fare tutto, che ha bisogno di essere aiutato a dare generosamente se stesso e, infine, che il dono di sé è continuamente soggetto ad un dinamismo di crescita. Quello che si è dato oggi non è definitivo, perché domani è un altro giorno, e si deve ricominciare a donare. In questa prospettiva, si può ritenere non educativo immergere il ragazzo, durante gli esercizi spirituali, in un clima saturo di emozioni, dove si crea una tensione tale per cui è capace di dire sì anche alla proposta più esigente, salvo poi, una volta uscito da quel clima, a non afferrare nemmeno più i termini del problema. Bisognerà aiutarlo a capire che il dono generoso di se stessi è di tutti i giorni, e che la forma migliore di servizio è quella normale e quotidiana.
    Si tratta dunque di far assumere delle responsabilità, e non soltanto di rivendicare alcuni diritti.

    Il discorso però rimane astratto se in pratica non si trovano spazi liberi per l'assunzione di responsabilità. E si fa anche abbastanza spinoso, a questo punto. E il caso di domandare a preti e laici se veramente per i ragazzi, all'interno della parrocchia o in un ambito più vasto, ci siano spazi in cui essi riescono ad assumersi delle responsabilità. Forse si dà troppo sovente ragione ad Eudokimov che, parlando della libertà, osserva: «La Chiesa di Cristo ha ricevuto e predicato il messaggio della libertà, ma gli altri lo mettono in pratica». Si ha l'impressione, a proposito di responsabilità, che se ne parli molto, e non si dia sufficiente spazio al suo esercizio.

    I valori evangelici

    • Il pensiero corre immediatamente al valore della comunione. Espresso molto poveramente suona così: è meglio stare insieme che fare da sé; è preferibile far crescere delle esperienze in cui preti e laici sono insieme, al posto di altre – suggestive – in cui i laici sono da soli e i preti sono isolati.
    • L'autorità. È un valore evangelico – quando è spogliata dall'autoritarismo, e quando è rispettosa del suo ambito, beninteso –. Bisognerà avere il coraggio di presentarla come valore. Senza autorità non c'è la chiesa, e non c'è nemmeno una piccola comunità ordinata, perché l'autorità è un dono dato dallo Spirito ad alcune persone, per il bene comune. Il giovane non formato al senso dell'autorità rischia di crescere in modo unilaterale.
    • La povertà. Dà autenticità all'uso dei mezzi. Si ha la impressione che si parli molto di povertà in senso di pauperismo, ma non si abbia il coraggio di educare alla povertà evangelica. Si può dire veramente che le associazioni in genere all'interno della chiesa educhino alla povertà?
    • La verginità: per quello che è e per quello che significa. Di conseguenza, si sveli il valore della vocazione non solo cristiana, ma anche religiosa e sacerdotale.

    ATTEGGIAMENTI CHE L'EDUCATORE DEVE ASSUMERE OGGI

    Quanto agli atteggiamenti che riguardano la persona dell'educatore oggi, si può fare la seguente proposta:

    • Un atteggiamento di amore, che lo pone in una situazione di uguaglianza con gli altri. Quando si ama, quando si vuole bene davvero, evangelicamente, le questioni di superiorità o di preminenza non esistono: perché l'amore pone sullo stesso piano. Si comprende anche che coll'amore si inizia l'evangelizzazione perché si rivela Dio che è amore infinito. Come si esplicita questo amore? In varie forme: pazienza, perseveranza, misericordia (anche nella Confessione). Amore non è paternalismo, non è autoritarismo; l'educatore che si pone su un piano di amore è uno che dona se stesso e paga di persona.
    Il dinamismo storico che pervade il mondo sembra esigere i valori rapidamente accennati. Quando mai nella storia è stato così acuto e struggente come oggi il desiderio di povertà e di libertà?
    • Conoscenza di persone e competenze di problemi. Per conoscere, bisogna ascoltare; per essere competenti, occorre studiare, ma non solo intellettualmente; s'impone l'esigenza di verificare e ricercare per mezzo delle esperienze. Un educatore che non passa attraverso l'esperienza, è fallito in partenza, perché valuta in modo statico la gente che ha davanti: in realtà gli uomini camminano e cambiano perché sono vivi.
    • Infine, un adattamento alle esigenze delle persone, specialmente nella presentazione del messaggio evangelico. Forse è un problema di linguaggio; ma pare soprattutto un problema di testimonianza. Si riesce ad avvicinare un altro se gli si testimonia concretamente come si vive la povertà, la verginità, la libertà, ecc.

    I compiti sono molteplici e le esigenze complesse; il grande segreto di tutto il compito educativo alla corresponsabilità è la santità.
    J. Lotz, nella sua «Storia della Chiesa», dice che nel secolo XVI la maggior gloria della Chiesa cattolica, che ne ha reso possibile un rinnovamento interno e gli ha dato consistenza al momento della cosiddetta «controriforma», è stata una meravigliosa fioritura di santità. I tempi odierni non sono moto dissimili, per chiederci ancora una volta che si cammini, con apertura verso lo Spirito, nella santità.

    Due sussidi indispensabili per la comprensione del DOCUMENTO BASE (Il rinnovamento della catechesi):

    DOCUMENTO BASE - pp. 512, L. 2.200
    L.D.C. Torino-Leumann
    (commento analitico ad ogni paragrafo, linee di lettura di sintesi)

    IL RINNOVAMENTO DELLA CATECHESI IN ITALIA - pp. 152, L. 1.400
    Università Salesiana Roma (P.za Ateneo Salesiano 1)

    (le dimensioni di fondo del DB, lettura di sintesi di ogni capitolo)

     


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