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    E mio fratello viene con me



    Nino Barraco

    (NPG 1970-10-57)

    I poveri, la pace e i giovani in una società di cuori duri che apprendono dai giornali la morte degli altri.


    La «marcia della fame» e la «marcia della pace» caratterizzano, al di là di ogni mito, il cammino della storia di oggi. Anche qui, i giovani ne sono protagonisti e martiri. La pace! Una parola! A voler tralasciare le grandi tensioni internazionali, il furore belluino delle stragi, il terrore scatenato da carnefici e sicari dementi, prova a mettere la pace in queste piccole, minute notizie di ieri e di oggi:

    • Atroce fine di un ragazzo di 11 anni. Muore impiccato per imitare l'eroe del fumetto. S'è passato il cappio intorno al collo, ma nel momento in cui avrebbe dovuto liberarsi e sparare sui banditi, è scivolato strozzandosi.
     Risolto il giallo della morte in prima classe. Pugnalata per la minigonna. Il delitto sul direttissimo ha il volto di un giovane musicista di sedici anni che voleva conquistare la bella professoressa, e, come una furia, la uccide a coltellate.
     È morto nella cava al suo primo giorno di lavoro. Aveva 15 anni. Era stato respinto a scuola. Così aveva deciso di abbandonare gli studi e aiutare il padre gravemente ammalato.
     Tragica lite. Un giovane di 21 anni strangola il fratello dl 19 dopo aver litigato per banali motivi. Il fatto alla presenza della madre che invano aveva supplicato e tentato di separarli.

    Dov'è la pace? Sì, mi serve sapere che un calcolatore elettronico in quaranta secondi è in condizione di eseguirmi più di 15 mila suoni (compormi la Nona sinfonia di Beethoven con i suoi 250.000 suoni, diventa una sciocchezza); mi serve sentire la voce di due americani a 400 mila chilometri di distanza dalla terra. Però, però non mi basta. Ho bisogno di una voce, di una parola più vera, meno artificiale, meno metallica. Ho bisogno di amore, io. Diceva già, ai suoi tempi, Pio XII che il mondo moderno ha costruito, in modo quasi impensabile e fantastico, un corpo tecnico sorprendente, eppure muore asfissiato, chiede un «supplemento d'anima».

    IL PROSSIMO: STRUMENTO PER IL MIO AVERE

    Amore! Da dove incominciamo? Da Dio? La Trinità è Amore. E Cristo? È l'incarnazione di questo Amore. Come poter parlare di Lui? San Paolo, in una lettera bellissima agli Efesini, scandaglia le dimensioni: «Così che radicati e fondati nella carità, voi possiate comprendere con tutti i santi, la larghezza, la lunghezza, l'altezza, la profondità: e conoscere la verità di Cristo, che trascende ogni conoscenza, per essere riempiti di tutta la pienezza di Dio».
    E noi? Se vuoi entrare nella vita eterna, ama il prossimo tuo come te stesso... Se vuoi essere perfetto, vendi quanto hai, dallo ai poveri e poi vieni e seguimi... Se vuoi: due piccole parole, un programma di vita lasciato alla libertà, alla scelta dell'uomo. Ma appunto, perché affidato alla mia risposta, il prossimo invece di conoscere l'amore, è diventato strumento per il mio avere, strumento per il mio piacere, strumento per il mio potere. Con tutto il denaro profuso nel massacro di 60 milioni di vittime durante l'ultimo conflitto mondiale, sarebbe stato possibile dare un villino con giardino e un'automobile a ogni famiglia del mondo. Perché non lo si fece? Perché mancava l'amore.
    C'è da tremare e da rabbrividire. Se i popoli si mettessero d'accordo! Scrisse uno scienziato nel 1951: «Con il denaro sprecato in un solo mese dl guerra mondiale si sarebbe potuto irrigare il deserto del Sahara». E nel 1953, l'allora Presidente degli Stati Uniti, Eisenhower, un generale quindi che se ne intendeva, poteva affermare: «Ogni cannone che viene costruito, ogni nave da guerra che viene varata, ogni razzo che viene allestito, rappresenta una offesa per coloro che hanno fame, che hanno freddo e che non hanno di che mangiare e di che coprirsi».
    Duemila anni fa, Cristo passava per la Palestina mostrando dei segni: guariva i malati, liberava gli oppressi, moltiplicava il pane. La Chiesa continua oggi la sua missione annunziando il Messaggio e mostrando dei segni. Riecheggiano le grandi voci, i documenti di Pio XII, l'esempio del Cardinale Léger, la testimonianza dei vescovi di oggi. Rivive l'ansia di giustizia di tutti i secoli, la ripetizione umile del grido di dolore: «Date loro da mangiare», l'offerta perenne della Chiesa quale pane sacramentale e pane corporale.
    Paolo VI offre la sua tiara alla fame del mondo. Agganciando questi segni alla «Rerum Novarum» di Leone XIII, alla «Mater et Magistra», alla «Pacem in Terris» di Giovanni XXIII, la «Populorum Progressio» mobilita i singoli e le nazioni al terribile esame di coscienza: «Quando tanti popoli hanno fame, quando tante famiglie soffrono la miseria, quando tanti uomini vivono immersi nell'ignoranza, quando restano da costruire tante scuole, tanti ospedali, tante abitazioni degne di questo nome, ogni sperpero pubblico o privato, ogni spesa fatta per ostentazione nazionale o personale, ogni estenuante corsa agli armamenti diviene uno scandalo intollerabile. Noi abbiamo il dovere di denunciarlo. Vogliano i responsabili ascoltarci prima che sia troppo tardi».

    I RESPONSABILI?

    I responsabili? Io, tu, gli altri. Siamo tutti!
    Due uomini si scambiano dei pugni: scriviamo sulla stampa che, per questa esibizione, ricevono due milioni e 794 mila lire per ogni secondo. È il reddito di 100 contadini algerini durante un anno. Carestie, tuguri, epidemie: quando l'amore diserta il mondo, allora Natale diventa... la festa dei cani, ed i mostri vengono adorati come idoli. Raoul Follereau insorge, e lancia al mondo l'appello della responsabilità: «Un giorno di guerra per la pace»!
    Un giorno di guerra: basta squadernare l'atlante geografico dello Naie nel mondo. Alla mensa della civiltà del benessere, dell'opulenza, si asside oggi un numero esiguo di Nazioni immensamente ricche: rappresentano il 16% dell'umanità e posseggono il 70% delle ricchezze del mondo. Un tale apocalittico fenomeno di ingiustizia mette sul ciglio della violenza più che i tre quarti dell'umanità, cioè l'84%, che deve dividersi il magro pasto del 30% delle restanti risorse mondiali.
    La fame degli uomini – è stato detto – anticiperà la fine del mondo. È il rischio in cui si vive. Il male si manifesta alle origini: su 900 milioni di bambini, ben 500 milioni soffrono per insufficiente nutrizione. Le malattie e la fame falcidiano in partenza l'umanità in cammino. È inutile dire dell'ultima conferenza di Nuova Delhi. Incomprensione e delusione. I paesi industrializzati versano a quelli in via di sviluppo circa 10 miliardi di dollari l'anno, ma questa somma equivale a meno dell'1% del loro reddito nazionale. Le proporzioni atterriscono. Se dovessimo considerare il nostro superfluo con la misura delle necessità altrui! Ogni anno sono 40 milioni di persone che muoiono per denutrizione: quaranta milioni! E circa 20 milioni di persone gemono per la lebbra sulla faccia della terra! Lebbrosi, badate, che potrebbero guarire.
    Ed intanto, piglia il costo, non di una guerra, non dico di un mese di guerra, ma il costo di un solo prototipo di bombardiere atomico. Con esso si potrebbe pagare un intero anno d'insegnamento a 250 mila insegnanti elementari; costruire e mantenere 30 facoltà scientifiche universitarie con un migliaio di studenti ciascuna; costruire 75 modernissimi ospedali ciascuno con 100 posti letto. Ed il costo dell'odio? Che cosa non si potrebbe costruire con l'amore, al di là dello stesso risparmio della guerra!
    «Amatevi come io vi ho amato». Ecco il comando pressante e drammatico della storia d'oggi. Giovanni XXIII: «Figlioli miei, amatevi tra voi. Cercate più quello che unisce che ciò che divide. Nell'ora dell'addio, o meglio, dell'arrivederci, richiamo a tutti ciò che più vale nella vita: Gesù Cristo benedetto, il suo Vangelo, la sua santa Chiesa, la verità e la bontà...».
    La pace degli uomini e dei popoli è qui: in questo amore, in questa carità, che è «pienezza della legge», perfezione della giustizia. Altrimenti non ci sarà garanzia: continueremo a sapere che le spese per gli armamenti nucleari aumentano, che da 72 mila miliardi del 1962, siamo passati a 110 mila miliardi del 1968 (lo ha dichiarato U Thant nel messaggio inviato alla Conferenza pe il disarmo); continueremo a domandare come sia possibile vivere in un mondo che svena, ogni giorno, il corpo di Cristo, giacché corpo di Cristo è tutta l'umanità. Non solo: ma dopo aver massacrato, dà le giustificazioni. Come Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?».

    DI CHE COLORE È LA PELLE DI DIO

    I giovani, quelli non avvizziti, hanno capito. Bisogna incominciare daccapo, partire dal di dentro. La pace dei trattati conta poco: spesso è la carta dell'ingiustizia di chi vince con chi perde, del vincitore che si finge equo e del vinto che si protesta innocente. Bisogna creare una mentalità della pace. «Di che colore è la pelle di Dio?». Nera, rossa, gialla, bruna, bianca, perché Lui ci vede uguali davanti a Sé. «Viva la gente», cantano i giovani. Sì: «Ho visto stamattina mentre andavo a lavorare – il lattaio, il postino e la guardia comunale – Per la prima volta vedo gente attorno a me – Ieri non ci badavo, non so proprio perché». È questa la strada della pace, «la mia strada che porta a Te – E mia sorella viene con me – E mio fratello viene con me – E batte le mani chi viene con me – per la mia strada, Signore, che porta a Te».
    La strada della pace: la pace del condominio, la pace dei giochi, la pace dell'ufficio, la pace che ama e dissente sempre da noi stessi, dal nostro egoismo. Ecco la conclusione onesta di ogni discorso che voglia contestare il torto dei popoli (o dei loro capi) che fanno la guerra! L'eccidio di un villaggio nel Vietnam, la strage in una banca di Milano, la furia drogata in una villa d'America nascono dalla mente, dall'interno. Così, la pace del mondo incomincia nel cuore di ogni più piccolo uomo. La pace di chi crede nell'unica paternità di Dio: sotto la volta delle cattedrali, sui marciapiedi della città, nell'entroterra del porto, nei corridoi del convento, nel LEM che mette piede sulla luna.
    «La Messa è finita, ma Cristo rimane con noi! Con noi nella vita! La Messa è finita! La parola che abbiamo ascoltato è con noi, è con noi, è con noi. La gloria che abbiamo cantato è con noi! Il pane che abbiamo mangiato è con noi. È con noi! La Messa è finita ma Cristo rimane con noi!». Nella nostra casa, nel cantiere navale, nella fattoria, nella Parrocchia, considerata non più come chiesa parrocchiale, ma come comunità di
    tutte le realtà umane che costituiscono la vita del corpo e che sono chiamate a diventare Chiesa.
    Ecco la pastorale della carità e della pace affidata a tutto il popolo di Dio, a tutte le categorie, specialmente quelle evangeliche: i poveri, i semplici, i sofferenti. Convertirsi a questa mentalità, vuol dire rispondere al piano amoroso del Padre, ai doni dello Spirito, alla grande preghiera, al testamento dell'amore di Cristo. «Tema più necessario e urgente non si poteva proporre», ha affermato Paolo VI. E tutto il Concilio nella «Gaudium et spes»: «La legge fondamentale della umana perfezione, e perciò anche della trasformazione del mondo, è il nuovo comandamento della carità».
    Davvero, non si possono conoscere certe cose senza che, ad un certo momento, non ci si ritrovi poveri e mendicanti. Poveri di tutto, mentre pensavamo di essere ricchi; disagiati per il nostro potere, i nostri soldi, i nostri vantaggi che non ci daranno giustificazione. Responsabili per le parole che scriviamo sui nostri giornali: parole stupide spesso, fascinose, indulgenti allo schiamazzo di chi gode. Come si fa a vivere tranquilli in un mondo nel quale un terzo delle persone si preoccupa di conservare la linea, mentre gli altri due terzi non sanno come riempire lo stomaco?
    Cinque bambini sono morti asfissiati mentre i genitori cercavano nella notte lavoro; ventotto operai sono rimasti sepolti e bruciati dalle fiamme della miniera. Che si può dire? Si sviene di paura: «Mentre noi viviamo una vita troppo felice protetta da Te, ci sono milioni di esseri umani che muoiono... senza aver meritato di morire!».
    Ti muoiono cinque figli mentre cerchi lavoro. Ma la stessa disoccupazione non è la morte? Morte dello spirito, per cui il disoccupato ha la sensazione di non servire a nulla, non crede più a nessuno, perde la forza nelle idee e nelle convinzioni. Gli entusiasmi diventano cose di lusso; il matrimonio è ritardato; s'infanga ogni morale; la società sussulta: i lupi, quando sono affamati, invadono i villaggi e si vedono obbligati dalla necessità di ammazzare o di perdere la vita!
    La mancanza dei mezzi più elementari al proprio sostentamento aggrava le malattie non curate in tempo o addirittura le determina. Il continuo assillo al quale è sottoposto il disoccupato, per sé e per i suoi familiari, diviene causa di esaurimenti, non di rado porta al delitto e quindi alla espiazione, al manicomio o al sanatorio, od anche al rifiuto del pane non guadagnato.
    Pane: non ammette più remore il grado di maturazione storico-sociale;
    non ammette remore la premessa religiosa del messaggio evangelico diretto a chi soffre, con la conseguente valutazione del giorno del giudizio; non ammette più ritardi la considerazione metafisica del lavoro come esigenza ontologica della persona. E c'è poi la prospettiva economica di tanti soldi che lo Stato è costretto a spendere per coloro che non hanno lavoro; sperpero, oltre che disastro morale, corrispondente ad un consumo senza corrispettivo di produzione. Anche per queste prospettive sociali, valgono le parole di S. Agostino: «È cosa buona che tu dia del pane all'affamato, ma sarebbe meglio che tu facessi in modo che nessuno avesse fame».

    LAVARE GLI OCCHI DI CHI NON VEDE

    Mi scrisse qualche anno addietro un collega che seguì i viaggi di Paolo VI in Palestina ed in India: «Lo scandalo della città che respinge il Bambino in una grotta è ancora reale a Betlemme oggi, dopo 1966 anni...». No, non ci si può salvare se si accetta una realtà del genere dopo averla conosciuta. Sconvolti dall'atroce miseria che hanno potuto contemplare in quei Paesi, alcuni giornalisti hanno deciso, al loro ritorno, che non potevano rimanere inerti di fronte ad una realtà tanto drammatica. Il contrasto tra i loro bambini, ben nutriti, ben vestiti, ben alloggiati, e quelli che hanno visto a Bombay o nel paese di Gesù, sdraiati la notte sui marciapiedi o nelle grotte perché non avevano altra casa, sottoalimentati, quasi nudi, è sembrato loro il segno preciso della responsabilità del cristiano nella nostra epoca.
    Essi hanno formato, così, una piccola «rete» di amici che, convinti di mettere nel loro bilancio e nel loro cuore la voce «poveri», si impegnano a versare un contributo mensile (per questo, le offerte «una tantum» vengono rispettosamente rifiutate) ed inviano quindi la somma raccolta al Padre Paul Gauthier che vive a Nazareth e a Betlemme tra gli arabi: una compagnia di muratori, intorno a cui stanno sviluppandosi alcune cooperative edilizie.
    Al gruppo è stato dato il nome di una bambina di Nazareth, Radiè Resch: è morta di polmonite in un tugurio quando la costruzione della sua casa si era arrestata per mancanza di fondi. Nel delirio continuava a ripetere: «Io laverò i vetri della nostra casa». Padre Gauthier ha scritto allora:
    «Radiè è andata in una città migliore; e di lassù ci aiuterà a lavare gli occhi di chi non vede la necessità di dividere i suoi beni con i poveri». Navighiamo, volenti o no, nella corrente di una rivoluzione universale. L'Asia si sveglia, l'Africa è in piedi. Popoli prostrati nel letargo, come il russo, l'indiano, il cinese, stanno trasformando le loro strutture. I troppo grandi, i troppo potenti, i troppo ricchi debbono riflettere. Nessuno ha il diritto di essere felice da solo!
    La Chiesa non può essere complice di una storia che ha vanificato il messaggio del Figlio di Dio. Nel Vietnam, nel Biafra, nell'America del Sud, sulla strada di Praga le muraglie dell'egoismo preservano il forte ed avviliscono i deboli. La fame e l'ingiustizia sono un capitolo antichissimo: si chiamano carestia in India, uragani nei Caraibi, inondazioni nel Messico, epidemie in Africa, ma si chiamano anche, a due passi da me, in casa mia, povertà e morte nei quartieri Michelangelo, San Pietro, Acquasanta, Borgonuovo, Falsomiele, Fondo Patti, Bonagia, Quattro Camere, Fondo Raffa, Papireto, nei quattro mandamenti di questa mia Palermo, che è Palermo di chi cresce, ma anche degli studenti, degli operai, di tutti gli umili, di chi soffre, di chi lotta: «Pietà, pietà cuori duri – voi che siete sempre seduti – e apprendete dai giornali – la morte degli altri».
    Con gli avanzi della più misera città europea si potrebbe sfamare una città del Biafra! È così! Maledetto, allora, il nostro denaro che ha capovolto i veri valori, logorato e sommerso lo spirito, che ci ha portati a rifiutare e a respingere prima Dio e poi i fratelli!

    GUARDIAMOCI ATTORNO

    Che vuol dire contestazione? La prima contestazione incomincia da noi. Ho qui il ritaglio di alcune dichiarazioni dell'Arcivescovo di Recife, Helder Camara, conosciuto ormai come il «vescovo rosso» per la sua coraggiosa opera a favore dei contadini del nord-est brasiliano. Parlando a Parigi ha avuto delle parole abbastanza forti.
    «Senza dimenticare – Egli ha detto – i grandi esempi di dedizione, di sacrificio e anche di eroismo... abbiamo noi parlato abbastanza forte e chiaro ai latifondisti, ai grandi e ai potenti, o chiudiamo gli occhi e li aiutiamo a conservare una buona coscienza, quando cercano di coprire clamorose ingiustizie con elemosine per la costruzione delle chiese (spesso scandalosamente grandi e ricche, in contrasto visibile con la miseria circostante) e con elemosine per le nostre opere sociali?».
    Dinanzi a Cristo di Rio de Janeiro, Werenfried van Straaten, scappando fuori da una casa ammuffita di tre metri per sei, dove abitano, sotto un tetto di bidoni di latta sventrati, dodici persone, correndo all'aria libera dalle orribili favelas per rigettare come un cane malato, piange così: «Non è forse inevitabile, Signore, che il piccolo Vicenti diventi un comunista quando verrà a sapere che sua sorella Esmeralda fu costretta, per poter sopravvivere, a vendere il suo corpo sulla spiaggia mondana di Copacabana? Che cosa dobbiamo fare? Perché le ragazze della lontana Europa stanno tanto meglio di Esmeralda? Perché non hanno bisogno di sfilare come gazzelle dalle lunghe gambe davanti ai milionari i quali nei loro Casinò vicino alle favelas spendono in gozzoviglie il denaro accumulato succhiando il sangue dei poveri? Prendi Signore, finalmente, possesso di noi... Dacci il coraggio di privarci di tutto il superfluo, non per paura del comunismo, ma per coscienza del nostro dovere di cristiani».
    La Chiesa ha sempre parlato. Dinanzi a certe «contestazioni», Marx, Lenin o Stalin impallidiscono. Il primo contestatore fu Cristo: «Razza di vipere... sepolcri imbiancati!», parole per le quali oggi ci sarebbe la querela. Ecco San Basilio: «Se uno spoglia chi è vestito, si chiama ladro. E chi non veste l'ignudo quando può farlo, merita forse altro nome?». San Cirillo di Alessandria: «E ridicolo e rivoltante che i ricchi usino vasi e piatti d'oro e d'argento, e che certe matrone si faccian fare d'oro perfino i vasi per gli escrementi di modo che alle ricche non è possibile nemmeno evacuare senza fasto!».
    Dopo duemila anni, rivolgendosi ai «campesinos» di Bogotà, Paolo VI può affermare senza esitazione (sono le parole più drammatiche che la storia abbia ascoltato): «Voi siete un segno, voi un'immagine, voi un mistero della presenza di Cristo. Il sacramento dell'Eucaristia ci offre la sua nascosta presenza viva e reale; ma voi pure siete un sacramento, cioè un'immagine sacra del Signore fra noi, come un riflesso rappresentativo, ma non nascosto, della sua faccia umana e divina...».
    Che si vuole di più? Quando sei arrivato a questa identificazione, non c'è un «oltre».
    Allora? Poter vedere con gli occhi puliti: sarà quello il giorno in cui ci chiameremo davvero fratelli, avverandosi finalmente nel mondo la comunione degli uomini tra di loro e di loro con Cristo! Per quel giorno (ahimè! quanto lontano da questa civiltà costruita sul contrasto dei potenti e delle pistole, sul gioco del dominio e degli interessi, sull'irrisione dei valori dello spirito) subiscono quotidianamente il torto delle farneticazioni dei violenti e dei fanatici, migliaia di vittime, di eroi umili e oscuri.
    Kennedy andava dicendo amaramente: «Ci sono le tribù senza lavoro, le serrature delle nostre porte, le prigioni per quelli che le sfondano». E con lui possiamo attestare: «Non basta permettere il dissenso. Dobbiamo esigerlo. Perché ci sono molte cose dalle quali dissentire. Dissentiamo dal fatto che milioni di persone siano condannate alla miseria mentre la Nazione continua ad arricchirsi. Dissentiamo dall'odio che nega una vita piena ai nostri connazionali per il colore della loro pelle. Dissentiamo dalla mostruosa assurdità di un mondo in cui le Nazioni sono pronte a distruggersi e in cui gli uomini devono uccidere altri uomini. Dissentiamo dalle città che ottundono la sensibilità e trasformano gli atti della esistenza quotidiana in una lotta penosa».

    PER LA CHIESA NESSUNO È ESTRANEO

    Dissentire da noi stessi. La Chiesa di oggi mi piace appunto per questo. Per l'onestà della sua posizione. Essa per prima ha fatto un Concilio per dichiararsi disponibile alla revisione. Ed è per questo che non so finire senza farvi l'elogio di Paolo VI, di questo Papa che abbiamo.
    Il Papa che abbiamo! In una notte straordinaria di mistero e di stelle, quasi prefigurata da Isaia, mentre Borman, Lovell e Anders – tre uomini della terra – giravano attorno alla luna, la luce degli angeli investiva gli altiforni delle acciaierie di Taranto, dove Cristo scendendo dal cielo, tornava a nascere sulla terra.
    Natale 1968. E la Stella ha segnato la notte dei prodigi. Un Uomo bianco si aggira tra altri uomini in tuta, vicinissimo alla colata incandescente.
    il presepe umano visitato dal Papa: «Siete più contenti voi che io sia qui, o sono più contento io di trovarmi in mezzo a voi?». E poi: «Sappiate che vi vogliamo bene... siamo venuti per dirvi che vi portiamo nel
    cuore...».
    È davvero meraviglioso questo Papa che abbiamo! Se dovessimo riassumere le emozioni che ogni volta suscita in noi, diremmo che è un uomo «che soffre». Sofferenza dentro e fuori di sé. La sua anima ha lo spasimo delle aperture universali, l'affiato dell'ispirazione, la fantasia della carità, la spinta possessiva del soccorso, il disagio del richiamo nell'esercizio dell'autorità.
    Sì, è un Papa che soffre. Le mani nelle mani, la fratellanza nel cuore, sembra dire ad ogni gesto: senza atti continui di umiltà non salveremo il mondo. E il Papa che recita il «Pater noster» con il Patriarca di Costantinopoli Atenagora; che si incontra con l'Arcivescovo di Canterbury: «I suoi passi non arrivano in una casa straniera; essi giungono in una casa che Ella per sempre validi titoli può dire anche sua». È il Papa in preghiera ad Efeso, presso l'altare dove il legato di Leone IX depose la bolla di scomunica della Chiesa d'Oriente; il Papa interprete del Vaticano Secondo: «Per la Chiesa cattolica nessuno è estraneo, nessuno è escluso, nessuno è lontano; è in certo senso un presente. Lo dica il cuore di chi ama; ogni amato è presente!».
    Paure e tracotanze, clericalismi e agguati. Si riproduce oggi la stessa problematica dei primi convertiti. Bisogna che il cristiano talvolta si astragga, si difenda, si immunizzi; bisogna che in altre circostanze, invece, si interroghi per penetrare e redimere il mondo con lo spirito della fede. Compito, certo difficilissimo, soprattutto in un'epoca come la nostra in cui la sollecitazione carismatica sembra avere il sopravvento sui valori normativi; in un momento in cui la funzione profetica rischia di diventare lussuria delle parole e concupiscenza dell'esotico; oggi in cui manca il silenzio nel quale si avvera la nascita del Verbo.
    Così Paolo VI. Un esercizio faticoso; un esercizio vigilante ed intenso, che ormai ha abilitato questo Papa ad esprimere uno stile di vita pontificale che potremmo chiamare nuovo e responsabile, aperto e amareggiato, ecumenico e trepidante.
    Eccolo all'ONU per rivolgere alle nazioni il messaggio del mondo nuovo: «Colui che vi parla è un uomo come voi; è vostro fratello, anzi uno dei più piccoli fra di voi... Non ha nessuna potenza temporale, nessuna ambizione di entrare con voi in competizione... Non abbiamo nulla da chiedere, nessun problema da sollevare, al massimo abbiamo un desiderio da formulare, un permesso da sollecitare, quello di potervi servire in ciò che è di nostra competenza, con disinteresse, umiltà e amore».
    il Papa che, con altrettanta lealtà, si può ritrovare in mezzo ai netturbini di Roma per proclamare la dignità del lavoro: «Quanto più modesta, sconosciuta e dimenticata appare una categoria agli uomini, tanto più degna di essere chiamata al regno di Dio appare alla luce del cristianesimo». Il Papa che non ha paura: «Noi continueremo a denunciare le inique sperequazioni economiche, tra ricchi e poveri».
    Un Papa che ha coraggio; capace di affrontare mille incognite; persuaso che è suo dovere vedere da vicino, ascoltare, stringere le mani, parlare a tu per tu, nelle viuzze di Gerusalemme, nei suburbi di Bombay, nella solenne aula dell'ONU, nella sconfinata Cova d'Iria a Fatima, nelle basiliche di Istanbul, nella periferia miserabile e nelle piazze formicolanti di Bogotà, tra le lamiere dell'acciaieria che ti strugge, nell'Africa nera che uccide ed è uccisa. Un Papa che ha bisogno di informarsi direttamente, di sentire il palpito, il gemito e l'urlo della folla, che ha bisogno di dare se stesso, quasi nel desiderio di essere consumato nel rogo di tutte le ansie, le sofferenze, le aspirazioni umane.
    Il discorso al Parlamento in Uganda è di una purezza trasparente. Senza sottintesi, senza prepotere: «Chi siamo noi? Non vi illuda, per caso, l'opinione che certa mentalità corrente si fa di noi: siamo uomini piccoli e deboli come tutti, e forse più degli altri». E perciò: «La Chiesa non ha interessi temporali propri, non fa politica nel senso proprio di questa parola... non intende imporre le caratteristiche della così detta cultura occidentale... se Essa ha qualche preferenza, questa è per i Poveri». La Chiesa! Ma la Chiesa – è drammatico, è terribile, eppure meraviglioso! – la Chiesa sono io! Sentirsi come Chiesa e, quindi, coinvolti nella Chiesa. Io sono Chiesa, ho la responsabilità della Chiesa, io faccio Chiesa nella mia vita familiare, nei miei rapporti di lavoro, nella mia professione. Scoprire me stesso come dono di Dio, momento per momento.

    LA NUOVA VOCAZIONE DEI LAICI

    Un dono che Dio vuole fare ai miei fratelli. Io collaboro con il «fare» di Dio, faccio camminare Cristo: ma potete immaginare una funzione più
    esaltante? Ecco la vocazione offerta ai laici: «Passare dalla concezione inerte e passiva a quella cosciente ed attiva, dallo stato cristiano più di nome che di fatto allo stato di fedeli convinti di potere condividere con la Chiesa la pienezza comunitaria, la responsabilità operativa, la dolorosa e gloriosa testimonianza».
    Una crisi provvidenziale, un confuso smarrimento sconvolge il mondo moderno: la crisi dell'abitudine, e, quindi, la rivincita e la presa di coscienza di un Dio visto non più con gli occhi della domenica, ma anche e precisamente quello del lunedì, del nostro mondo di lavoro, della vita di tutti i giorni, di un Dio che si ritrova come il cuore ineffabile di ogni realtà, che simpatizza con i sofferenti e parteggia per la gioia escatologica della vita, che sta dalla parte della risurrezione.
    Un Dio che ci chiede di pulirci le mani, ci chiede di riscattare una società egoista, contagiata dal peccato, che produce a catena uomini tranquilli ed egoisti, ci chiede una testimonianza continua, dal lavare i piatti al fabbricare i missili, una testimonianza d'amore per essere scandalo al mondo, per essere comunità, Chiesa più pura, più credibile, più libera dai condizionamenti politici ed economici, pronta ad affrontare, in chiave rigorosamente evangelica, i temi dello spirito e della guerra, dello sviluppo e della fame, nella convinzione che queste, sì, sono oggi le vere «materie miste» che hanno una consistenza religiosa.
    Cristianesimo non è polizza o bandiera, ma convitalità con i fratelli, ricerca di espressioni di lavoro nuove, creative, inventive; partecipazione, nella comunità e nel mondo, alla missione sacerdotale, profetica e regale assegnata da Cristo ad ognuno di noi; vitalità di cose che si propongono e vitalità spirituale di chi le propone; integrazione della propria santificazione apostolica con il momento della evangelizzazione e della animazione esterna; scelta all'interno della Chiesa di un impegno che può essere magari meno clamoroso ma più vero, che abbia gesti ed atteggiamenti di sincero colloquio, di profondo senso critico, di coraggiosa speranza.
    Bisogna diventare cristiani: ecco tutto. Si è fatta la crociata al materialismo storico e dialettico e non ci si è accorti che noi, per primi, ci siamo organizzati in una società che sollecita allo spreco, alla lussuria, all'edonismo, secondo uno schema di vita che è praticamente ed assolutamente materialista. Abbiamo combattuto la violenza – e facciamo bene – ed intanto abbiamo ridotto il Cristianesimo ad una quiescenza prudente, solidale con i gestori del potere, adatta a prestare più orecchio alle autorità del mondo che a Dio, dimentichi di S. Paolo: «Non siate conformati a questo mondo, ma trasformatevi».
    Una realtà da trasformare in umana e divina. Dentro questa realtà, il respiro di un Papa che accoglie in sé l'anelito del mondo: «Uomini, siate uomini; uomini, siate buoni; uomini, siate magnanimi!». È il Papa che apre il processo di beatificazione di Pio XII e di Giovanni XXIII, un servizio reso anche alla storia. E se dei due Pontefici – è stato giustamente detto – sarà proclamata in avvenire la santità, non si avranno due santi diversi nella misura che si crede: uno «astratto» e l'altro «umano». Potrà distinguerli, invece, il tono fondamentale della loro personalità, che in Pio XII fu la sofferenza, e in Giovanni XXIII la letizia.
    Il Papa, che abbiamo oggi, accomuna i toni di tutti e due i Predecessori. Che vuol dire ripresenta al secolo il volto dolorante della Veronica e la veste luminosa del Tabor; l'ardente carità per coloro che piangono, sono soli, poveri, abbandonati, senza lavoro, e l'augurio – per il cuore e per i popoli – di quella «pace» di giustizia e di fede con cui si apre e si chiude il Vangelo; il dramma continuo di ciascuno di noi in cui è Caino che uccide, Caifa che si straccia le vesti, Pilato che si lava le mani, Pietro che rinnega: «Non lo conosco».


    T e r z a
    p a g i n A


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