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    Corresponsabilità o non corresponsabilità: noi la pensiamo così



    (NPG 1970-12-54)

    La corresponsabilità, come fatto, chiama in causa i giovani.
    Per essere autentici, non potevamo parlare di loro senza farli parlare.
    Per questo, con un gruppo di giovani, abbiamo riletto tutto l'impianto della monografia. Ecco il loro parere.
    Non è l'ultima parola sulla corresponsabilità. Come non può essere l'unica parola quella nostra, di noi adulti.
    Neppure è il «parere dei giovani»: essi accettano difficilmente di essere rappresentati.
    È quindi una voce e una testimonianza: vale per quello che dice e non per chi lo dice.
    Interlocutori:

    Giusi: frequenta – come esterna – la seconda classe magistrale in un grande Istituto retto da religiose.
    Luciana: compagna di Giusi.
    Beppe: universitario. È impegnato in un Oratorio parrocchiale della periferia di una grande città del Nord.
    Gianni: universitario. Lavora all'interno di una comunità parrocchiale.
    Lino: neo-diplomato. Lavora in una comunità parrocchiale e con gruppi spontanei.
    Renato: studente. La sua opera si svolge in un oratorio e all'interno di un istituto.
    Umberto: impiegato. Ha passato vari anni in collegio retto da religiosi; attualmente, è impegnato in un gruppo spontaneo.
    La redazione di Note di Pastorale Giovanile (NPG).

    CHE COS'È LA CORRESPONSABILITÀ?

    NPG: Oggi si parla molto di corresponsabilità. A tutti i livelli e in mille contesti. È una di quelle parole che fa moda. Ma c'è molto di più. Ha tutta una densità al suo interno.
    Forse l'unico modo di intenderci è di ricuperarla: di cercare cioè assieme quale significato (urgenze, contenuti, motivazioni) abbia, per noi-qui-ora, il termine «corresponsabilità».

    BEPPE: Per me, corresponsabilità è, molto semplicemente, la messa in comune delle responsabilità, sia da parte degli educatori, se vogliamo usare una terminologia «collegiale», sia da parte degli educandi.

    UMBERTO: La corresponsabilità, come la vedo io, può essere definita così, su un piano funzionale: progettare insieme, prima di fare – qualunque cosa: da una catechesi ad un'opera di educazione all'organizzazione di una manifestazione sportiva o ricreativa –; fare insieme, lavorare insieme alla realizzazione; e infine, revisionare insieme il lavoro svolto, in clima di sincerità e di amicizia.

    LINO: Per me, corresponsabilità è in fondo collaborazione, cioè divisione di responsabilità.
    E vorrei mettere in risalto questo fatto: i preti non si rendono conto di quello che deve essere il loro posto. A mio parere, il prete in una parrocchia – è l'ambiente di cui ho esperienza – deve svolgere semplicemente le mansioni spirituali; tutte le altre, di carattere pratico, devono essere lasciate ai laici. Così, ognuno ha un suo compito e una sua responsabilità.

    BEPPE: Non sono d'accordo con Lino. Secondo lui, il prete deve occuparsi solo dell'aspetto spirituale, i laici del resto. Invece, anche su cose spirituali i laici devono dire la loro, così come il prete ha pieno diritto di intervento in questioni amministrative, organizzative... Cioè preti e laici insieme si occupano sia dell'aspetto materiale sia delle cose dello spirito. Si tratta di stabilire una catechesi, una liturgia, Ci si riunisce, si discute e si decide, tutti quanti; poi, i dettagli organizzativi vengono lasciati a chi ha tempo e possibilità.
    Ma non è né corresponsabilità né comunità questa divisione in «zone di intervento» troppo nettamente delimitate.

    RENATO: II mio discorso, forse, è più teorico di ciò che abbiamo Nembo finora.
    Secondo me, il problema della corresponsabilità non è un problema «vitale», nel senso che lo si scopre così, di primo acchito. È un problema che si pone quando si è riusciti a capire che cosa sia comunità. Comunità è un insieme di persone che hanno fatto una scelta comune, e che cercano di viverla tutti allo stesso modo – naturalmente, col pieno rispetto dell'individualità e della personalità di ciascuno.
    Di più: si parla molto di comunità, ma raramente si considera che, nel nostro caso, si fa tra una categoria di persone che ha delle caratteristiche ben definite: è una comunità di cristiani. Cioè di tutti coloro che credono nella risurrezione di Cristo, e vivono di conseguenza. Una comunità che si forma automaticamente, quindi, allo stato implicito, a livello spirituale: tutti scegliamo Dio allo stesso modo, e in quel momento preciso siamo già comunità.
    Storicamente, assistiamo al frazionamento di questa grande comunità che è la Chiesa in tante comunità locali, che, pur avendo un'unica matrice fondamentale – imitare il Cristo –, si realizzano in modo diverso, a seconda del tempo, del luogo, del «mondo» in cui sono inserite. E qui entra in ballo la corresponsabilità. Io la vedrei a livello di organizzazione di pastorale, per esempio: cioè un prendersi degli obblighi, degli impegni per condurre l'evangelizzazione. Se si capisce che il cristiano è un «mandato», uno di cui Dio si serve perché la Sua parola continui sulla terra nei secoli, allora si pone il problema della corresponsabilità: cioè di come si possa – insieme, visto che siamo una comunità – adottare un metodo, una «politica» di evangelizzazione.

    CORRESPONSABILITÀ E COMUNITÀ

    NPG: Renato ci ha introdotti nel cuore del problema, portando in campo un elemento molto importante: la comunità.
    In che rapporti stanno, secondo voi, corresponsabilità e comunità? E che «tipo» di comunità è necessaria se si vuole un clima di corresponsabilità?

    UMBERTO: Perché ci sia corresponsabilità ci deve essere la comunità. Corresponsabilità, dicevo, è decidere insieme prima di fare, poi fare insieme e alla fine verificare insieme. Ma se non c'è comunità allo stato
    almeno embrionale, questo non è possibile. Se non c'è – e chi è pratico un po' di gruppi o di qualunque tipo di comunità, Io sa – se non c'è possibilità di comunicare, di amicizia reciproca, a un certo punto è impossibile riuscire a lavorare insieme.
    Questo è il punto principale.
    Per me, due elementi essenziali per la comunità sono la fiducia reciproca e il dialogo.
    Una fiducia non solo a parole, ma fiducia nei fatti: che vuol dire essere disposto a correre dei rischi, anche a restare imbrogliato dagli altri.
    E poi dialogo. Dialogo che non vuol dire solo parlare insieme, ma vivere insieme, avere simpatia gli uni per gli altri, «avere gli stessi sentimenti»
    gli uni per gli altri.
    Questo è un presupposto essenziale della corresponsabilità. Se non c'è comunità non può esserci corresponsabilità.
    Il che non vuol dire che dove non c'è comunità, non si debba impostare un certo discorso di corresponsabilità: perché sono due cose che si influenzano a vicenda. La comunità favorisce, fa crescere la corresponsabilità, e nello stesso tempo è anche attraverso la corresponsabilità che si forma
    la comunità.

    GIANNI: Io ho soprattutto esperienza di tipo «parrocchia e oratorio». Ora mi pare che il discorso sia lo stesso. Sono pienamente d'accordo con Umberto.
    Prima di parlare di corresponsabilità, è urgente fare una comunità.
    Non soltanto mettersi assieme con uno scopo pratico, per fare tante cose, ma essere corresponsabili in virtù della parola di Cristo, perché la prima testimonianza da dare è quella della comunità. Una comunità che poi, proprio perché è tale, riesce a lavorare meglio, riesce a raggiungere altri fini; però il riuscire a fare di più non è certo la preoccupazione maggiore. La prima preoccupazione è invece proprio quella di creare questa comunità perché è già un bene di per sé, non perché è un mezzo.

    RENATO: A me pare sia necessario aggiungere un'idea.
    D'accordo: la comunità viene prima della corresponsabilità.
    Ma, quando io parlo di comunità, io intendo un gruppo ristretto di persone «che si è scelto». Che, cioè liberamente decide di stare assieme, di fare qualcosa assieme, crede in uno stesso ideale, fa un lavoro comune.
    Per cui la comunità è un fatto mobile: non è mai una realtà che si fossilizza. Si può costruire al momento e si può cambiare al momento. In questo contesto, è possibile un discorso di corresponsabilità.

    NPG: Penso che su questo tema convenga spendere qualche parola di approfondimento.
    Le riflessioni sulla comunità che Renato ha fatto sono molto interessanti. Però, storicamente, esistono già delle comunità strutturate: un collegio, una parrocchia, un oratorio.
    Ci sono due possibili posizioni.
    O neghiamo ogni forma di corresponsabilità, accontentandoci di un semplice cercare di sopravvivere, mettendoci d'accordo, per non divorarci a vicenda, perché le comunità di fatto non sono «comunità» vere: non ne adeguano la definizione. Oppure cerchiamo elementi più possibilisti su cui impostare la corresponsabilità.
    Che cosa ne dite?

    BEPPE: È molto difficile formare comunità in ambienti di collegio, in parrocchia: sono strutture già fatte, in cui non c'è una libera scelta di partecipazione.
    Anche negli oratori.
    Perché anche gli oratori sono strutture già fatte. La comunità non c'è: spesso c'è solo una massa informe, di persone «forzate», o lì per mille fattori, tutti poco personalizzati.
    I gruppi spontanei sono favoriti in questo. Invece, coi gruppi già precostituiti, cosa si può fare? È difficile...
    Ad un certo punto, tutto il problema della comunità e della corresponsabilità passa in secondo ordine, rispetto proprio al problema di convivere insieme.

    GIUSI: Io penso che è difficilissimo formare una comunità in una scuola, proprio perché non è una cosa spontanea che io vada a quella scuola. Può esserlo ad un certo livello: il fatto, ad esempio, che scelga le magistrali anziché lo scientifico: ma, per il resto, la libertà c'entra ben poco. Già per questo motivo è difficile fare comunità a scuola.
    Poi ci sono varie altre difficoltà.
    Quando la comunità, la si vuole fare per forza, perché sembra una cosa un pochino alla moda, allora si tira fuori: «Facciamo la comunità a scuola!». Tutti sono d'accordo: almeno quelli che si danno da fare un po' (c'è sempre un gruppo a cui non importa niente di niente).
    Ma poi, od profondo, non cambia nulla. Spesso è proprio solo per coprire le apparenze. Rimane la stessa atmosfera di paternalismo (sempre la direttrice o le altre suore che prendono tutte le decisioni). La comunità non esiste: è soltanto un nome.
    Forse è più facile fare qualcosa nell'ambiente d'oratorio: ma la tentazione di fondo è la stessa: parole e nessuna azione concreta: si discute, si portano avanti tanti discorsi, poi, ad un certo punto, si fa una revisione e si torna da capo.
    Secondo me la comunità esiste soprattutto quando c'è un interesse comune a tutti: si cerca di realizzare qualcosa e, alla fine, si scopre di essere diventati più amici: ecco la comunità!

    LUCIANA: Parlare di corresponsabilità, di comunità, adesso, nell'ambiente in cui io vivo nove mesi all'anno, mi sembra ancora una méta molto lontana. Anche perché, come diceva prima Giusi, ci sono molti ostacoli. Secondo me, soprattutto c'è mancanza di dialogo: se non esiste un certo dialogo non ci può assolutamente essere comunità.
    Penso dipenda un po' dalle ragazze e un po' dalle educatrici. Tra compagne, non c'è molta collaborazione.
    E le educatrici di solito si rivolgono a noi piuttosto paternalisticamente. Si vede che pensano: «Io sono l'insegnante, io sono già riuscita ad arrivare ad un certo livello; tu hai ancora molta strada da fare, non sai niente, per cui io ti istruisco».

    NPG: Vorrei chiedervi: se è vero – e credo che tutti noi siamo d'accordo – che la corresponsabilità esige l'esistenza di una comunità, e se è vero, come voi affermate, che nelle scuole, nei collegi, negli oratori una comunità è impossibile; allora all'interno di una scuola, di un collegio, di un oratorio, l'unica cosa che si può fare... è di cercare di non mangiarsi troppo a vicenda e di sopravvivere?

    GIUSI: Io, all'inizio, non ho detto che per la corresponsabilità sia essenziale una comunità. Certo, nella comunità la corresponsabilità c'è senz'altro. Ma una certa corresponsabilità ci può essere anche fuori della comunità piena.
    La comunità, nella scuola che frequento, mi sembra talmente distante e irraggiungibile, che preferisco mirare a qualcosa di più vicino.
    Non è che la escluda: se si riesce a fare, tanto meglio: ma nel mio ambiente proprio non la vedo, per ora.
    Non per questo, me ne sto con le mani in mano.
    Cerco di fare un discorso di rottura: gli schemi paternalistici debbono saltare per lasciare spazio ad un'aria più fresca, più giovane, in cui veramente ciascuno sia valutato per quello che è. E poi si vedrà Tutto questo mi sembra sia già creare un po' di corresponsabilità. O almeno metterne le premesse.

    LUCIANA: Io sono d'accordo con quello che ha detto Giusi, riguardo alla comunità nella scuola: è molto difficile perché ci sono delle strutture e un sistema che è troppo distante.
    Per fare comunità, dovremmo esserci scelte liberamente, ed avere i medesimi scopi. Ora, non so fino a che punto sia vero...

    CORRESPONSABILITÀ: DIVISIONE DI CORRESPONSABILITÀ?

    NPG: Si è parlato molto del fatto comunità: ci ha lasciato parecchi elementi scoperti e certamente una notevole perplessità di fondo sulla possibilità di costruirla all'interno dell'organismo collegiale e, forse, parrocchiale. Cerchiamo di aggirare l'ostacolo.
    È stato affermato che la radice della corresponsabilità è la messa in comune delle responsabilità: cioè è la percezione che la responsabilità non è monopolio di alcuni, ma è fatto di tutti; che tutti sono responsabili «in solido»: tutti hanno lo stesso peso di responsabilità in questo «affare» educativo. Il problema dell'educazione non è 100 dell'insegnante e O dell'allievo, ma è 100 dell'uno e 100 dell'altro
    Cosa ne pensate di questo?
    Credete prima di tutto che almeno questo sia la radice per poter fondare un discorso di corresponsabilità all'interno di una «comunità» educativa e pastorale?
    Pensate inoltre che coloro che finora hanno gestito la responsabilità, troppe volte monopolizzandola, siano disposti ad accettare queste linee di riflessione?

    UMBERTO: Anche su un piano semplicemente umano, la corresponsabilità è un diritto di ogni uomo proprio perché è uomo, a parte il fatto che lui abbia 16 o 66 anni.
    Però, concretamente, che si possa fare questo discorso con un 80-90% degli educatori che ci sono – forse sono pessimista... –, ora come ora mi sembra impossibile.

    BEPPE: Penso anch’io come lui. Diminuisco solo un po' le percentuali: ma comunque l'idea di fondo è la stessa.
    Io parlerei anche di difficoltà da parte degli educandi di assumersi la responsabilità della propria educazione.
    Vedo che nel gruppo di cui faccio parte, c'è ancora troppo la mentalità di chi dice: «Beh, io sono educato dagli altri, e quindi prendo. Se non voglio, non prendo. E basta». Non si partecipa attivamente alla propria educazione.
    E questo per me è un problema essenziale. Io lo vedo nel mio gruppo. Sono arrivato al punto una volta, durante una riunione, di dire che era ora che si svegliassero, che si rendessero conto che la loro educazione era anche un problema loro, non era un problema solo degli altri.

    RENATO: Quando si parla di responsabilità, bisogna già essere arrivati ad un grado di maturità.
    Mi spiego.
    Essere responsabili diventa una esigenza solo quando si è già percorsa una certa strada. Quando si è capito chi è il cristiano, allora si scopre automaticamente di essere responsabili: abbiamo degli impegni e dobbiamo farvi fronte, ognuno di noi.
    È cioè un'esigenza nata spontaneamente proprio da una ben condotta forma di catechesi, che faccia comprendere il senso del proprio essere Chiesa.
    Non si educa alla responsabilità e alla corresponsabilità con tanti bei discorsi, ma dando un'esatta visione della vita, del cristianesimo.

    GIUSI: Premessa l'uguaglianza universale degli uomini, è chiaro che questo discorso dovrebbe diventare accettabile per qualsiasi persona, quindi anche per gli educatori (e le educatrici). Il fatto che io, fondamentalmente, sia uguale a loro, implica che possa avere le stesse responsabilità che loro hanno. Soprattutto quando queste responsabilità riguardano me personalmente.
    Questo discorso in teoria potrebbe essere accettato.
    Ci vuole un'educazione tutta impostata verso la valorizzazione della persona: bisogna formare un individuo in modo che questo riesca poi a realizzarsi pienamente, anche in quelle scelte che riguardano se stesso e la sua educazione.
    Con questo concetto di base si può cominciare un discorso che poi alla fine è quello che stiamo facendo noi: di corresponsabilità; cioè un discorso che implica un'educazione a realizzarsi, a fare certe scelte che esigono anche l'adottare quel tipo di educazione che è orientato alla mia realizzazione.

    LUCIANA: Vorrei aggiungere un'altra cosa.
    Bisogna costruire un clima di reciproca collaborazione. È una cosa però che deve partire prima di tutto da me, che dico questo.
    Se voglio fare un discorso, devo mettermi in condizione che gli altri lo capiscano e lo accettino: non farlo cadere dall'alto, o mettermi a sbraitare. Oltre a ciò, ci deve essere coerenza tra quello che dico e quello che realmente faccio. E poi sfruttare i momenti migliori, le occasioni più favorevoli.

    GIANNI: Mi pare sia opportuno spendere una parola per cogliere una difficoltà di fondo.
    Noi stiamo parlando sulla pelle degli altri. E ci è facile scaldarci. Ho letto da qualche parte delle riflessioni che mi hanno fatto pensare. La corresponsabilità non è un gioco di poteri e neppure una disquisizione letteraria. Essa comporta la difficoltà del dare la corresponsabilità e la difficoltà del ricevere la corresponsabilità.
    Dare responsabilità è duro, diciamolo francamente; è duro soprattutto perché vuol dire rinunciare a fare della propria esperienza il criterio dell'esperienza altrui. Ora, si può intellettualmente accettare che la mia esperienza non possa trasferirsi sic et simpliciter nella esperienza altrui; di fatto è molto difficile non influenzare in qualche modo l'altro con i miei criteri di giudizio, con quello che io sono in quel momento.
    In definitiva, forse è anche impossibile, perché la nostra personalità in ogni caso si manifesta nel rapporto con l'altro: però è importante rendersi conto di questa situazione, e soprattutto non sottolinearla più di quanto sia indispensabile.
    Certo, è del tutto comprensibile, umanamente parlando, che una persona, specialmente un adulto, che è arrivato ad una certa stagione della sua vita, in cui magari ha realizzato dei valori obiettivamente validi, non resista alla tentazione di trasferire questo suo itinerario su altre persone, magari giovani, bisognose, secondo lui, di consigli; e molto spesso si vuol cercare in tal modo di evitare ad altri rischi e pericoli che magari si sono già incontrati nella vita, mettendo i giovani al sicuro, al caldo, e facendoli appoggiare sulla esperienza di chi ha già vissuto.
    Però anche ricevere responsabilità è duro. Forse questo è un aspetto meno appariscente ma ugualmente vero.
    Ricevere la responsabilità, cioè ricevere l'invito ad essere autonomi e responsabili della propria esistenza, significa imparare due cose piuttosto dure ed aspre.
    Vuol dire imparare a pagare di persona, e vuol dire imparare la legge del progresso nelle cose, il quale si realizza sempre poco per volta, qualche volta a costo di un apparente tornare indietro, e quindi implica nelle persone la capacità di essere tenaci ma non assolutiste.
    Parlare di responsabilità quindi può essere difficile e duro, perciò è importante non porsi nella prospettiva di chi è convinto che soltanto attraverso delle applicazioni pedagogiche si avrà una vera educazione alla responsabilità; occorre prima percorrere un'esperienza umana che abbia accettato anche questi rischi e queste difficoltà.

    NON-CORRESPONSABILITÀ: DI CHI LA COLPA?

    NPG: È affiorato che molta strada resta da percorrere verso una piena corresponsabilizzazione. Molte sono le situazioni tutt'altro che ideali; alcune non raggiungono nemmeno un sufficiente grado di accettabilità. Secondo voi, di chi è la colpa? delle strutture? delle persone? In questo campo, due sono gli interlocutori: preti e laici, superiori e inferiori, educatori ed educandi.
    Se si mettessero sulla bilancia queste due «categorie», per cogliere quale ha più responsabilità nel fatto che non si arriva a costruire molto, da quale parte penderebbe il piatto della bilancia?

    GIANNI: Per quel che riguarda l'ambiente di cui ho esperienza, la «colpa» è divisibile per due, in parti uguali. Almeno fino a poco tempo fa. Mi spiego.
    Il tema «corresponsabilità» non lo si accennava nemmeno, come non si parlava della questione del sacerdozio comune dei fedeli. L'unico sacerdote era il prete, e la comunità niente: e si accettava senza difficoltà questo stato di cose. Ci si accontentava delle proprie posizioni: prete da una parte, laici dall'altra. Al massimo, si lavorava insieme su un piano tecnico, per realizzare un numero quantitativamente maggiore di fini. Da qualche tempo, il problema è nato, e c'è inquietudine; si è fatto anche qualche piccolo passo. Ma il più resta ancora da fare.

    GIUSI: Per me, la colpa della situazione di non-corresponsabilità che si riscontra nella mia scuola è senz'altro di tutt'e due le parti.
    Delle educatrici, in primo luogo. Esse si comportano sempre come se avessero il patrimonio della verità: secondo loro, noi dovremmo pendere dal loro labbro.
    Conseguentemente, rifiutano il dialogo. Abbiamo provato più volte a impostare dei discorsi un po' seri. Ad esempio, è saltato fuori il fatto che molte di noi, pur frequentando una scuola tenuta da religiose, alla fine del corso escono senza aver acquisito una sufficiente formazione cristiana. Bene: quando noi abbiamo cominciato a fare questi discorsi, abbiamo trovato una serie di porte chiuse.
    Anche le ragazze però hanno una non piccola dose di colpa.
    Sono molto superficiali, e scendono subito al dettaglio, al problemino terra terra. Va detto, a loro giustificazione, che c'è il rischio – reale, non immaginario – che se ci si mette a discutere in maniera un po' decisa con qualche insegnante, questa lo faccia pesare sul voto scolastico...
    Inoltre, molti dei problemi che si tirano fuori – fra cui anche quello della corresponsabilità, o meglio non-corresponsabilità – per loro non esistono: non li avvertono minimamente. Hanno paura di impegnarsi. Hanno trovato una strada comoda, e vi si sono adagiate. Stanno tanto bene così: hanno cinque ore di scuola, poi escono e fanno tutto quello che vogliono. E non hanno voglia di pigliarsi grattacapi.

    BEPPE: Perché non si riesce a realizzare la corresponsabilità? Perché è difficile da parte dei giovani prendersi delle responsabilità, ed è difficile anche da parte degli educatori dare responsabilità.
    Soprattutto perché la tanto decantata comunità è difficile da ottenere – forse perché non si hanno idee chiare sulla sua vera natura. Penso che, quando si sente veramente la grandezza misteriosa dell'altro, forse è più facile dare e prendersi delle responsabilità. E questo non c'è. Naturalmente, nel rapporto fra educandi ed educatori, conta anche molto, a mio giudizio, come si presentano gli uni e gli altri. Purtroppo, siamo abituati ad avere degli educatori che dispensano quello che hanno, paternalisticamente, dicendo: «Io ho studiato, so queste cose, allora le do a voi». Da parte degli educandi c'è anche troppo di accettazione: non quella vera, ma quella che fa dire: «Quello ha studiato e mi dice delle cose e io le prendo. Poi magari non le uso: però le prendo, e non ribatto». Quindi non c'è una messa in comune delle esperienze, delle idee di ognuno.

    UMBERTO: lo vorrei parlare di un elemento che forse non è stato messo abbastanza in rilievo.
    In collegio ho passato vari anni. E mi sembra che un grosso ostacolo per la vita e la formazione della comunità sia il senso di ipocrisia che esiste su un fronte e che deriva dalla repressione dell'altro. Ipocrisia degli allievi derivante dal sistema repressivo in atto nel collegio. Se si trovano da una parte gli «educatori», che hanno il coltello per il manico, e dall'altra gli educandi che, per forza di cose, sono costretti a compiere un certo corso di studi, e hanno un certa situazione familiare per cui devono non «dare grane» in collegio, nasce questo spirito di ipocrisia, in alcuni casi e anche molto forte. E naturalmente, se c'è ipocrisia non si può parlare di corresponsabilità, e tantomeno di comunità.

    GIANNI: Secondo me, alla base della mancanza di corresponsabilità e di comunità in una parrocchia, sta questo fatto: l'impazienza da parte dei giovani. Una specie di frenesia: non si crede più in una determinata istituzione come può essere la parrocchia, quindi non si accetta di essere corresponsabili con coloro che portano avanti il discorso parrocchiale. Si cercano 4 o 5 persone, magari anche un prete, con cui ci si intende alla perfezione, e si crea un piccolo gruppo: non si è voluto collaborare con persone che, pur avendo fatto la stessa scelta cristiana, non la pensavano come noi. Una specie di fuga, insomma.
    Sì, i gruppi spontanei possono avere il vantaggio di essere ben funzionanti, ben amalgamati, perché i membri non hanno divergenze; però rischiano di essere formati da un numero sempre più ristretto di persone, perché, ad avere le stesse idee, si è abbastanza in pochi. Si dovrebbe invece accettare di collaborare non perché si hanno le stesse idee, ma proprio perché si è fatta una stessa scelta.
    Questo implica pazienza da parte di tutti, evidentemente; implica saper ascoltare; esige moltissime cose che invece spesso non si ha voglia di fare.

    RENATO: Tu hai detto che noti una certa impazienza; però pensi che sia davvero impazienza, oppure proprio la mancanza di una base comune, cioè il non essere coscienti di aver fatto tutti una scelta comune? Il fatto che le parrocchie non sono più «sentite», da cosa deriva? Perché chi frequenta le parrocchie è gente cristiana solo tradizionalmente, mentre quel certo gruppetto lo è per convinzione, per scelte personali; oppure è soltanto un fattore di impazienza: non si ha più tempo, non si ha più voglia di collaborare?

    GIANNI: Io intendo impazienza in questo senso: non si ha voglia di costruire una comunità all'interno della parrocchia. Perché? Perché si dice: la parrocchia così com'è non sta più in piedi. Quindi il discorso è questo: lasciamo perdere la parrocchia, non trasformiamola; facciamoci noi una comunità – magari anche con un prete che sia d'accordo. Non si ha la pazienza di trasformare una situazione preesistente.

    II «PROFETISMO DEI GIOVANI»

    NPG: Quando si parla di corresponsabilità, si afferma, come avete fatto voi, la necessità che ciascuno faccia la sua parte, giochi il suo ruolo.
    Voi credete che i giovani, nel concreto di una comunità educativa e pastorale, abbiano una funzione di stimolo importante, indispensabile? Non ascoltarli, secondo voi, è solo tradire la corresponsabilità o è anche bruciare una chiave di lettura della realtà?

    BEPPE: Io penso di sì.
    Forse, quello che condiziona gli educatori è l'esperienza. Perché, ad esempio nel gestire un oratorio o una parrocchia, è difficile far capire a certe persone che un certo modo di fare è sbagliato, perché dicono: «Ma... Abbiamo sempre fatto così...».
    I giovani possono dare un maggior contributo perché sono più lungimiranti, vedono meglio e non sono condizionati dall'esperienza. Vedono la situazione così come è, senza schemi precostituiti.

    UMBERTO: I giovani sono fuori da un certo ordine di idee che si è sempre mantenuto e sono anche più sensibili alle caratteristiche del mondo di oggi. Gli educatori, volenti o nolenti, sono, molte volte, «fuori»: non vivono la vita comune, normale di tutti gli uomini. Possono studiarla
    sui libri: ma una cosa è studiarla dal di fuori, un'altra cosa è viverci dentro.
    In questo senso mi sembra che i giovani possano dare un contributo. 66
    'l'unto più in un inondo come quello di oggi in cui si è passati da una concezione statica, dove la base del comportamento era l'esperienza («I vecchi facevano così, quindi facciamo anche noi così»), ad una concezione molto più dinamica. Non c'è più niente di fisso: le idee, il modo di vivere, la moda, gli stili artistici (per non fare che qualche esempio), nascono e muoiono ad una velocità spaventosa.
    Quindi la differenza tra mondo «vecchio» mondo «nuovo» è molto grande. I giovani, inseriti in questo mondo nuovo, possono dare un contributo notevole, accanto a quello pur valido degli educatori, legati ad una concezione più statica della realtà.

    GIANNI: Sono d'accordo con quello che hanno detto Beppe e Umberto adesso. Vorrei però aggiungere che quando si parla di comunità cristiana, il discorso di corresponsabilità nasce da una riflessione che il singolo fa sulla fede. È di lì che parte. Il giovane forse riesce a farlo meglio proprio perché è più coinvolto. Cioè riesce a vedere meglio cosa dice il vangelo: si accorge che è un guaio enorme, anzi che è tradire il cristianesimo, tradire il vangelo, il lasciare la responsabilità agli altri, chiunque essi siano. Il discorso di corresponsabilità diventa prorompente il giorno in cui il singolo riesce a interiorizzare la propria fede.

    STRUTTURE: SÌ O NO? QUALI?

    NPG: È difficile, in pratica – qualcuno ha detto: impossibile, – arrivare alla costruzione di una certa comunità di tipo ottimale. Eppure, ci siamo trovati concordi che è necessario, urgente, muoversi in linea di corresponsabilità. E qualcosa si sta facendo.
    C'è un ultimo problema.
    Voi credete che siano necessarie delle strutture con cui concretizzare la corresponsabilità? Sono utili, opportune, dannose?
    Il nocciolo è qui: spontaneità o norme precise? E se sì, quali strutture?

    UMBERTO: Io distinguerei vari casi.
    Il caso, ad esempio, di un gruppo spontaneo, formato da un numero relativamente piccolo di membri. In esso le strutture sono necessarie fino ad un certo punto e in modo molto particolare: ad esempio, c'è da organizzare un campo di lavoro, e ci sono tre o quattro che se ne pigliano la briga. Se questa vogliamo definirla struttura, per me è l'unica giurai!' cabile in un gruppo spontaneo.
    Quando invece si parla di realtà più vaste, come possono essere collegio, parrocchia od oratorio, lì il discorso cambia. Deve esistere qualcosa che serva da collegamento. È impossibile che si possa realizzare nella pratica una certa corresponsabilità a base assembleare, dato e non concesso che l'assemblea non sia già una struttura.
    Ci deve essere un punto di incontro tra educandi e educatori; e questo punto di incontro non lo vedo possibile a livello generale – tutti da una parte e tutti dall'altra –. È indispensabile un certo qual organismo che tenga i contatti.
    Naturalmente, esso deve avere alcune caratteristiche: non deve trasformarsi in un gruppetto di pochi che assumano poi la stessa funzione che avevano gli educatori («Noi pensiamo, voi fate»); non deve perdere in contatto con la base; ne deve essere l'espressione e, nello stesso tempo, deve agire da stimolo.

    BEPPE: Anch'io penso che per gruppi piccoli, di strutture non ce n'è affatto bisogno.
    Invece, per gruppi più grandi, come può essere un gruppo giovanile, l'unica struttura che può esistere – che poi è struttura per modo di dire – è l'assemblea, in cui tutti partecipano, tutti dicono la loro, si decide tutti insieme.
    Non è nemmeno qualcosa di fisso: non ha convocazioni ufficiali, è spontanea, per cui se un bel giorno si decidesse di cambiare, si cambia. Naturalmente, c'è l'inconveniente che è facile strumentalizzare la assemblea, proprio perché partecipano 60-70 persone. È facile strumentalizzarla sia da parte dell'assistente sia da parte dei giovani. È un inconveniente che forse, se ci fosse più responsabilità, più dialogo, si potrebbe evitare.

    LUCIANA: Anche secondo me, alcune strutture sono necessarie: assemblea, rappresentanti di classe...
    Però bisogna vedere il modo in cui sono realizzate. L'essenziale per me è qui.

    LINO: Da qualche parte si dice: «Noi vogliamo la corresponsabilità, ma non vogliamo nulla di giuridico». Allora tutto è affidato alla buona volontà. Oggi c'è un superiore che capisce le cose, e allora parla con noi;
    poi cambia, ne viene un altro con altre idee, e tutto ritorna come prima. Per questo motivo, forse, può essere utile la costituzione di una certa struttura di tipo organizzato, preciso, «schedato», in modo che non dipenda più solo dalla buona volontà dei singoli ma da una disposizione «ufficiale».

    RENATO: E allora ritorna il rischio di cui parlavo: siccome c'è la struttura, bisogna riempirla.
    Ecco: qual è il punto importante di questa struttura? t, per esempio, perché soltanto in questo modo, attraverso una struttura riconosciuta, quasi a livello di legge, si garantisce una continuità? Allora verrebbe di nuovo a mancare la corresponsabilità: «Siccome c'è la struttura, o lei si adegua, oppure noi occupiamo, facciamo sit-in».
    La struttura per me è qualcosa che nasce secondo l'occasione.
    Vediamo quel che capita nella scuola: una volta sembrava che andassero bene i consigli di classe, poi sono scomparsi perché inadeguati; allora: assemblea; ora sembra che nemmeno l'assemblea sia la cosa migliore; può darsi che a questo punto si crei qualcos'altro.
    La struttura è qualcosa di modificabile, qualcosa che corre a ritmo con la vita. E la vita, oggi, corre molto in fretta.

    I temi della pace, della libertà, della giustizia sociale, dell'impegno culturale e politico, della collaborazione internazionale in particolare verso i popoli in via di sviluppo, debbono entrare nella catechesi della Chiesa, senza temere di presentare il messaggio della fede, ove è necessario, nel suo significato di fecondo scandalo e di rottura. Si tratta di un vasto impegno di coerenza al Vangelo, dalla cui attuazione dipende la sorte stessa del cristianesimo, particolarmente presso le generazioni del giovani (RdC, 97).


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