Giampaolo Redigolo
(NPG 1970-10-71)
«La notizia che noi annunciamo è una notizia pasquale. Eccola: il Cristo risorto anima nel più profondo di ogni uomo una festa. Ci prepara una primavera nella chiesa: una chiesa purificata da atteggiamenti di potenza, disposta a far parte con tutti, luogo di comunione visibile per tutta l'umanità.
È necessario impossessarsi di molta immaginazione e di molto coraggio per aprire una via di riconciliazione. È necessario prepararci a donare la nostra vita perché l'uomo non sia più vittima dell'uomo.
Per cercare di vivere questa realtà nella confusione attuale, per riconciliarci, per riconciliare le opposizioni, un nuovo strumento si è imposto a noi e noi ve lo annunciamo: noi intendiamo fare un Concilio dei Giovani».
UNA VOCAZIONE PER I GIOVANI
Questo annuncio è stato dato a 3 mila giovani a Taizé nel giorno di Pasqua e si è rapidamente diffuso in tutto il mondo. La «gioiosa notizia» (come è stata chiamata) è stata tecnicamente preparata, con un lavoro di molti mesi, da un «gruppo animatore» composto da giovani provenienti da tutti i continenti. Durante il Grande Incontro pasquale, tradizionale nella storia di Taizé, dopo un'intera giornata di preghiera e di preparazione comunitaria, il padre Roger Schutz l'ha comunicata.
Il valore cronachistico dell'avvenimento si è già disciolto, e non ha grande rilevanza. È del resto abbastanza banale stare a sottolineare le reazioni emotive della grande massa giovanile convenuta a Taizé da ogni parte del mondo. Il senso della «notizia» non comporta celebrazioni, ma azione, decisione, impegno.
Dunque un Concilio dei Giovani in un'epoca definita post-conciliare. Il Priore di Taizé distingue molto chiaramente: il Vaticano II ha avuto il suo ruolo, ha dato il suo apporto all'unità dei cristiani, ha aperto una nuova epoca nella Chiesa. Rimangono però dei condizionamenti, le spinte conciliari in molti posti sono state assorbite, sono evidenti delle impasses: un Concilio dei Giovani potrebbe servire a superare tutto questo, potrebbe rompere diffidenze ancestrali, prevenzioni, incomprensioni. Potrebbe essere una splendida verifica della validità e dell'incidenza del cristianesimo nella società moderna.
Schutz parla al condizionale, perché l'unica realtà sicura del Concilio giovanile sarà il Cristo risorto e la festa da lui alimentata nel cuore di tutti gli uomini. La sua Parola, pregata e vissuta, sarà il centro animatore del Concilio. Poi può succedere di tutto, può capitare di tutto: i giovani dovranno inventare tutto.
Organizzazione?
Nessuna preoccupazione per le scadenze, per l'organizzazione, per le formule, per le strutture: il Concilio è un invito a tutti i giovani del mondo a incontrarsi per pregare, per fare silenzio, per meditare, per decidere. Tutto quindi viene affidato a loro, tutto viene messo nelle loro mani perché nei loro confronti a Taizé s'è alimentata una grande speranza. La scelta pedagogica è corretta e illuminante. Taizé non si costituisce come «ricetta», come «formula», come «metodo standard» per raggiungere i valori dell'unità tra i cristiani, della Pasqua in ogni uomo e in tutte le strutture sociali, del superamento dell'ingiustizia, dell'affermazione dell'amore. Taizé si mette a servizio - come momento di riflessione, di preghiera e di studio - di tutti i giovani del mondo. Nessuno può costituirsi maestro in valori che ancora non esistono: corre il rischio di essere un parolaio, un imbrattacarte, un predicatore ad aria compressa. I giovani sono molto sensibili a questa metodologia educativa. Parlare di carità, di unità, di liberazione (tutti valori che non sono ancora presenti nella nostra società in forme autentiche e sufficienti) in termini già definitivi, con schemi già pronti, a partire da strutture già precostituite, con dogmatismo cerebrale, non serve. I giovani in ciò avvertono componenti false (si parla sempre e non avviene mai niente), denunciano strumentalizzazioni (come quando si vuol far loro credere che unità e comunità sia uguale a «servizio parrocchiale» o «buona condotta»), rifiutano dogmatismi (in genere frutto di analisi poco corrette della realtà sociale e della realtà ecclesiale). Apprezzano invece l'invito sincero alla ricerca, all'invenzione, alla costruzione, alla collaborazione, l'accettazione spassionata e incondizionata delle loro categorie e dei loro modelli di comportamento.
TAIZÉ FA SCUOLA
E Taizé in questo senso fa scuola: Roger Schutz, in un'intervista rilasciata allo scrivente, si è detto disposto ad accettare qualsiasi evoluzione della sua idea, disposto a correre qualsiasi rischio. Non si tratta di incoscienza, ma di fiducia estrema nella «verità» di certe premesse: i valori di cui i giovani sono depositari, la preghiera e la parola di Dio, il silenzio, l'ascolto dei poveri, la gioia, la disponibilità, la comprensione.
Al di là del valore in sé dell'idea del Concilio dei Giovani, credo particolarmente stimolante e ricco di suggerimenti il metodo con cui la «gioiosa notizia» è stata preparata, annunciata e spiegata. Una lezione di stile senz'altro valida per tutti coloro che sono impegnati con i giovani in genere e con gruppi di adolescenti o di preadolescenti in specie.
Il metodo di Taizé
La metodologia elaborata a Taizé è la «metodologia dell'incontro»: a Taizé si va per incontrarsi. L'incontro, per risultare autentico, richiede la rinuncia a tutto ciò che può impedire il dialogo o la comunicazione immediata, sostanziale. Richiede la riduzione all'essenziale dei bisogni della vita: alloggio, vitto, vestito, sono elementi ridimensionati, impoveriti della loro normale urgenza, quasi banalizzati. Per sopravvivere, diventa quindi indispensabile incontrarsi, ritrovarsi, parlare o pregare, stare assieme comunque.
Il suggerimento pedagogico è preciso: le preoccupazioni «stilistiche» molte volte rischiano di rovinare, di soffocare la vitalità, la sostanzialità dei nostri incontri. Le sofisticate assemblee, l'adunanza di gruppo solo apparentemente inventata (i punti fissi sono maggiori di quelli liberi: orario, interventi, formula di discussione, argomenti), certe liturgie alambiccate troppo spesso rischiano di non realizzare l'incontro: delle persone tra loro, del gruppo con la comunità, del singolo con il gruppo e viceversa e di tutti con Dio. Proprio per eccesso di mezzi, per ricchezza.
Semplificando al massimo e tenendo presente le necessità di incontro presenti nei gruppi di adolescenti e di preadolescenti, accenno ad alcune componenti della metodologia di Taizé, che mi sembrano particolarmente adatte a suscitare all'interno di detti gruppi il dialogo, l'esperienza vitale di incontro, il valore della comunità.
La Parola di Dio
È l'unica che abbia la forza e il diritto di radunarci. Deve però essere un fatto vivo, attuale: l'equivoco di certi «Gruppi del Vangelo» è quello di ridursi a fare dell'esegesi (come?), senza rapportare se non moralisticamente o volontaristicamente le verità della Scrittura alla vita di ogni giorno.
Allo stesso risultato si può arrivare nei gruppi di azione quando il Vangelo viene manipolato o giustapposto per spiegare l'azione che si vuol fare, non per suscitarla. Di qui le solite polemiche per vedere se il Vangelo parteggia per una parte o per l'altra, se è per le botte oppure no. La Parola di Dio è principio di unione e di fusione solo se è autenticamente incarnata (Cristo): questo esige attenzione alla realtà personale, sociale, politica, morale degli individui e della comunità in cui si vive o in cui il gruppo agisce (cf Revisione di Vita).
Preghiera
Momento non tanto di invocazione, di impetrazione, di riequilibrio psicologico o di emotivo rapportarsi con l'Infinito, ma vita vissuta. È la Parola stessa di Dio filtrata attraverso ai bisogni, alle esigenze, alle gioie e ai dolori di tutti gli uomini.
Non è sufficiente un formulario rinnovato, non è nemmeno significativa per se stessa la pura e semplice improvvisazione a conclusione o come inizio degli incontri.
La preghiera è la celebrazione del trovarsi assieme, è la valorizzazione di tutto ciò che c'è nel gruppo o nella comunità. Il pericolo delle banalizzazioni è grave: pregare un po' fa sempre atmosfera. Ma provate a domandare ai ragazzi il perché. Provate a concludere un'adunanza senza preghiera spiegando che le condizioni in cui si è svolto l'incontro la renderebbero un atto banale. Provate a «non dire» il Padre Nostro alla fine di uno dei soliti scontri quando si scopre che il gruppo non funziona perché non ci si capisce. Sarà una «preghiera» più vera.
Silenzio
Quello di Dio, quello del deserto, quello che ti scava dentro e ti macera fino a ridurti allo schema essenziale della tua personalità.
La paura dei vuoti è un tranello: la voglia di coprire tutti gli intervalli tradisce una concezione quantitativa dei rapporti, degli incontri.
Se in un raduno non c'è niente da dire, provate a fare silenzio. Se un'adunanza è diventata soltanto una questione di calendario o di orario la si sospende o la si fa in silenzio.
Presso i giovani la percentuale di chiarificazione e di accettabilità di questa maniera di fare è molto rilevante. Il silenzio - non il vuoto o la solitudine - è apprezzato.
La comunione
Quella della liturgia è il momento privilegiato di quella che si deve celebrare nella vita comune.
All'interno del gruppo però le celebrazioni liturgiche non devono avere una formulazione generica («Concludiamo con la Messa perché è logico che tutti i cristiani facciano così», o robe del genere), ma devono essere rapportate allo stato di salute del gruppo stesso: nella Messa non si devono riassorbire le eventuali divergenze, incomprensioni, disunioni, mancanze di carità, con un emotivo «vogliamoci bene in Cristo», ma queste contraddizioni devono essere assunte, dichiarate, consacrate, comunicate, accettate fino in fondo come i limiti che il Cristo ci fa superare, comunicandosi a noi. Se il gruppo non può vivere la Messa come segno di unità, perché non è unito, la deve vivere come strumento, come mezzo, come preparazione. E deve rendersene conto: non è serio essere divisi fuori e «volere» essere uniti attorno all'altare.
La spontaneità
Non frutto di istinto, ma convinzione profonda che in ogni avvenimento della storia c'è un dono di Dio e quindi ogni situazione richiede una risposta generosa, pronta e particolare.
La spontaneità giovanile non è semplicemente un fatto psicologico, ma un valore vitale: il giovane è senza storia, è senza precedenti, non si è compromesso con niente, non ha alleanze da rispettare ed è quindi in grado di operare scelte più autentiche, è in grado di fare valutazioni più disincantate (la componente di ingenuità non deve portarci a banalizzare l'alta percentuale di verità che c'è nella visione della verità propria dei giovani).
Le scelte che avvengono all'interno di un gruppo hanno queste caratteristiche, sono frutto di una sensibilità più acuta dei singoli momenti, delle situazioni concrete: ai giovani i valori assoluti e i piani generali non interessano molto. Ma sono disposti a bruciare energie a mano a mano che se ne presenta l'occasione.
La verifica, l'autocritica, la revisione di vita sono il vero antidoto dello spontaneismo, non l'inquadramento, la repressione o i piani quinquennali.
L'annuncio
Credo sia il quid specifico della «metodologia dell'incontro» di Taizé. Nel dialogo la prevalenza è data all'affermazione più che al ragionamento, alla profezia più che allo schema, alla invenzione più che al coordinamento.
La verità è da annunciare e l'annuncio è da vivere: lo sforzo non lo si compie per scervellarci, per trovare motivazioni, per fare sillogismi ma per vivere, per realizzare subito. Il «far parlare i ragazzi, così dicono tutto» o l'accontentarsi di una bella discussione sono fatti che rivelano razionalismo di fondo o autoritarismo camuffato («Quando il ragazzo si è sfogato, dopo fa quello che gli si dice»).
Un intervento non vale per le ragioni che vengono addotte, per lo sfoggio di dialettica ma per la persona che lo dice, per le sue esigenze, per la sua vita, per la sua testimonianza. Trasformare l'incontro da discussione a comunicazione di esperienza (non in senso psicologistico, per permettere a tutti di farsi belli di quello che fanno) ma in senso di annuncio reale di valori e di verità acquisite è un segno di maturità del gruppo giovanile.
DA TAIZÉ ALLA VITA QUOTIDIANA
Le componenti della metodologia di Taizé (Parola di Dio, preghiera, silenzio, comunione, spontaneità, annuncio) non presentano grandi caratteri di novità, evidentemente. È la loro estrema purezza che impressiona, è il fatto di vederle concretamente attuate in ogni incontro che le rende credibili.
Affermare che non si può impostare la vita come a Taizé potrebbe essere ancora una volta il segno che certi schemi, certe categorie, certe strutture sono duri da morire. Oltre a tutto sono anche molto comodi, perché - tanto per fare un esempio - convincere i ragazzi di un gruppo che a riunirli è la Parola di Dio e non i nostri ragionamenti o le nostre tecniche di acciuffamento richiede da parte nostra un'estrema onestà e un'estrema trasparenza, difficili da adottare.
Avere il coraggio di fare silenzio, quando non si ha niente di serio o di preparato da dire è più difficile che imbastire una qualche insulsa conversazione sui cosiddetti problemi dei giovani. Accettare fino in fondo le alternative e le scelte che fanno i giovani perché crediamo fino in fondo a loro è più difficile che frequentare un corso di psicologia, magari solo per imparare le tecniche adatte a far accettare ai giovani quello che vogliamo noi.
Tutto il problema si riduce a far diventare reali certe parole che si ripetono continuamente: unità, carità, comunità, liturgia, preghiera, impegno. Basta impedirsi di ripeterle quando non possono essere verificate concretamente dalla vita del gruppo; basta smetterla di impostare le cose dal punto di vista ascetico-volontaristico (Basta un po' di buona volontà - È necessario che ognuno si metta) come se il gruppo educativo fosse un piccolo commando al servizio di chissà quale ideologia (che molto spesso non è nemmeno chiara).
Evidentemente il rapporto educativo diventa terribilmente fluido, le decisioni e gli impegni devono essere presi su due piedi, non esistono schemi che ti salvino o modelli di riferimento da copiare perché tutto dipende dalla situazione, dagli annunci che vengono fatti, dalla comprensione della Parola, dal silenzio, dalla comunione. È il momento in cui l'educatore deve credere veramente nel ragazzo e nei valori da lui predicati. È il momento in cui rischia fino in fondo.
In una realtà sociale, politica, culturale e religiosa in cui non esistono (e siamo noi a dirlo) modelli di comportamento valido, l'unica cosa da fare è mettersi assieme a inventarli. Taizé è la prova vivente che tutto questo è possibile.