Ivo Paltrinieri
(NPG 1968-08/09-90)
Mentre qua e là nel mondo gli studenti innalzavano il grido di protesta contro una scuola che a loro sembrava ormai incapace di dire una parola vera ed efficace innanzi alle istanze giovanili, moriva in una clinica a Roma il 13 maggio u.s. il prof. Gesualdo Nosengo, logoro, non dagli anni – ne aveva appena 62 –, ma da tutta una vita dedicata alla scuola.
L'ultima fatica infatti che fiaccò la sua fibra, fu la preparazione del volume: L'educazione della Fede nell'età evolutiva (UCIIM-AVE, novembre 1967). Egli voleva che uscisse ad ogni costo in quest'anno della Fede, quale appello di tutta una esistenza offerta ai giovani, che egli intensamente ha amato, come il suo maestro e conterraneo Don Bosco.
Nosengo fu alunno della scuola salesiana e certamente ha conosciuto le parole di Don Bosco: «L'educatore deve essere tutto consacrato ai suoi educandi».
Nosengo questo l'ha preso alla lettera e fu «un consacrato» anzitutto. di Dio, nella Compagnia di S. Paolo. Amava chiamarsi, giostrando sul suo nome, Aldo di Gesù! E il Maestro Divino fu al centro di tutta la sua vita, come si sforzò di insegnare – nelle più che trenta opere da lui
scritte, come nelle conferenze, negli articoli, nelle lezioni – che Cristo è e rimane sempre al centro della storia: di ogni individuo, come della Chiesa e del mondo. Forse fu il primo a insegnare ai giovani – me ne ricordo quando ero giovane io e leggevo il volumetto: Formazione cristocentrica – che Gesù va posto al centro della vita, se si vuole ch'essa abbia valore e significato.
E ancor questo è l'appello nel suo ultimo lavoro, quando propone Gesù, come il centro della nostra educazione alla fede.
Ma le sue non erano solo parole schiette e sentite, era la testimonianza che parlava in lui, era l'aver reso programma di vita, quanto aveva scritto: «Il maestro di fede deve presentarsi al suo educando come testimone di Gesù Cristo... Deve parlare e testimoniare come uno che porta in se stesso, nella sua vita personale, la prova della esistenza di Gesù figlio di Dio, l'esperienza della Sua influenza, della Sua forza e dell'intervento efficace della Sua Grazia».
E questo lo sentivamo, quando ci si incontrava con Nosengo. Povero, semplice, dimesso, estremamente umano, come quando l'incontrai a caso alla stazione di Novara, ove era giunto per tenere una conferenza agli insegnanti cattolici. Nessuno c'era ad attenderlo, ma non si scompose. Si lasciò da me condurre all'Istituto, sotto un sole troppo caldo e appena seduto nel mio ufficio mi chiese un bicchier d'acqua. E mi ringraziò sorridendo, lieto di avermi dato l'occasione di mettere in pratica alla lettera il vangelo.
Come quando lo sentivamo ai convegni dei Circoli della Didattica e senza l'apparenza di voler essere «il maestro», lo diveniva in realtà, col suo calore, con la sua passione, con il suo amore verso la scuola, specialmente la «nuova media», che fu un po' la sua creatura, memore forse della parola di Gesù: Lasciate che i fanciulli vengano a me.
Morì con una sola tristezza: di non aver visto prolungata nei corsi successivi quella riforma didattica della scuola, iniziatasi nella media dell'obbligo, perché la scuola fosse più viva, più umana, più consona alle aspirazioni dei giovani, che più che mai oggi vogliono non essere imbottiti di nozioni non sempre utili, ma collaborare perché in essi e con essi si costruisca il mondo di domani.
Il migliore omaggio che possiamo rendere a questo apostolo laico della scuola è di «continuare nello sforzo – sono parole del suo testamento spirituale – di amare cristianamente e razionalmente (mi piace sottolineare!) la scuola italiana».