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    La parola, l'azione, la comunità nella scuola cattolica



    a cura di Luciano Borello - Giancarlo Negri - Vittorio Gambino

    (NPG 1967-05-01)

    Nella prospettiva dell'Anno della Fede, promosso da Paolo VI, nel bisogno di raggiungere espressioni più pratiche e centrate per l'azione pastorale nelle comunità scolastiche, si è giunti ad un incontro tra alcuni esperti di problemi pastorali per definire meglio l'azione della comunità scolastica impostata sull'attività di fede.
    Questa scelta parte dalla convinzione che la scuola cattolica è in piena trasformazione e richiede con urgenza la presenza di cristiani che sappiano, dall'interno, creare una «nuova» corrente di vita che faccia della comunità educativa un servizio vero alla Chiesa e alla società.
    Siamo convinti, con Paolo VI, che la scuola cattolica dovrà diventare sempre più un luogo, non solo di formazione intellettuale ma pure e soprattutto di dialogo e di educazione personalizzante, senza dimenticare che la scuola cattolica deve essere ugualmente un focolare di libertà e di carità evangelica, un centro di cultura illuminata dalla fede, un incrocio ove la Chiesa e il mondo possono incontrarsi in uno scambio fiducioso e rispettoso di tutti i veri valori umani.

    DIO Cl SALVA NELLA COMUNITÀ

    Tutta l'azione pastorale della Chiesa sembra orientata a rivalutare la comunità come strumento di evangelizzazione, oltre che come struttura portante del suo stesso essere.
    Anche il lavoro educativo tra i giovani punta molto sulla creazione di comunità di vita. La vita religiosa, l'attività liturgica, l'orientamento ascetico dei sacerdoti e dei laici sembrano aver riscoperto il valore insostituibile della comunità come luogo privilegiato dell'incontro con Dio.
    Tale orientamento comunitario può lasciare perplessi. Se non altro perché sembra una minaccia al valore primordiale ed inviolabile della persona umana. Ma anche perché sembra inutile agli effetti della evangelizzazione: Dio salva le persone e non la comunità!
    Perché allora tanta insistenza sulla comunità? Qual è il suo valore effettivo?

    PERSONA E COMUNITÀ

    È un fatto che l'amore di Dio è qualcosa di assolutamente personale, fuori di ogni convenzione e di ogni artificio. Ad ognuno di noi Dio ripete le parole che rivolse al profeta: «prima che venissi alla luce, già ti conoscevo, e ti chiamavo per nome» (Ger.). L'amore di Dio è un amore personale tenerissimo, che prende le mosse da tutta l'eternità e si concretizza nella cura con la quale ci vuole e ci realizza ad ogni istante, singolarmente. In altre parole: Dio ama le persone e non le categorie: Egli salva le persone e non la comunità (Cost. sulla Chiesa, 5).
    Ma è anche vero che questo amore personale di Dio per ogni singola persona si manifesta e si realizza nella comunità. Dio salva le persone, ma le salva nella comunità e per mezzo di essa.

    L'economia della salvezza

    La storia della salvezza ha infatti una dimensione chiaramente comunitaria: dalla creazione della prima coppia, all'elezione di un popolo, al patto di alleanza con i discendenti di Abramo, alla costituzione del Regno... è un intervento continuo e progressivo di Dio nella storia, per ricomporre l'unità della famiglia umana disgregata dal peccato.
    Gesù stesso inizia la sua missione chiamando un nucleo di discepoli a vivere in comunità, insegna a tutti a vivere come fratelli, perché figli dello stesso Padre, e con il sacrificio della croce rinnova il patto di alleanza di Dio con gli uomini riconciliandoli con il Padre e riunendoli tra loro. La Chiesa è ormai il nuovo popolo di Dio, la nuova comunità di salvezza, nella quale tutti gli uomini sono invitati ad entrare.
    I primi cristiani appaiono agli occhi del mondo come gente che vive in comunità (spirituale e materiale), tanto che la comunità diventa il loro segno distintivo: «guardate come nella comunità si amano!».
    Farsi cristiano significava, appunto, entrare a fare parte della comunità, cioè della chiesa locale, cellula della Chiesa universale, la grande famiglia dei figli di Dio.
    Anche il ritmo della vita cristiana ha una dimensione comunitaria inconfondibile.
    Il battesimo non è soltanto il lavaggio che purifica dalla macchia originale, ma prima di tutto il bagno che genera a vita nuova inserendo nella Chiesa, comunità di salvezza, popolo di Dio in marcia verso la terra promessa.
    La cresima è il sacramento della maturità che conferisce i primi compiti specifici in seno alla comunità cristiana. L'eucaristia è il sacramento che fa partecipare alla pienezza della vita comunitaria, ammettendo al banchetto eucaristico.
    Tutti gli altri sacramenti si ricollegano in qualche modo a questo «Sacramentum unitatis» che è l'eucaristia: o perché vi riportano coloro che se ne erano allontanati (penitenza e unzione degli infermi) o perché provvedono alla loro realizzazione.
    E il trionfo finale (l'ultima fase della storia della salvezza) realizzerà al massimo la dimensione comunitaria, dal momento che consisterà nella «assemblea dei redenti» (composta di gente di ogni popolo e di ogni tribù, raccolta intorno al trono dell'agnello che ci ha salvati (Ap.).

    Perché Dio ci salva nella comunità?

    S. Agostino direbbe che la domanda non ha senso. Evidentemente la ragione ultima del modo di agire di Dio va ricercata nella sua libera volontà. Né la nostra domanda vuole sindacare il suo operato. Ma è certo che Dio, nel suo agire, rispetta le caratteristiche del comportamento umano, al quale adatta il suo piano di azione.
    Proviamoci, allora, a scoprire alcune di queste «leggi di convenienza» per cui la salvezza di ogni persona passa attraverso la comunità.

    La fede come inizio della salvezza

    Noi sappiamo che «la fede è il principio e il fondamento di ogni giustificazione» (Conc. di Trento).
    «Abramo credette, e la sua fede gli fu computata a giustizia». E diventerà «padre di tutti i credenti», cioè il prototipo di coloro che entrano nel Regno di Dio come salvati. Per questo la predicazione di Gesù vuole suscitare la fede, come del resto quella degli apostoli. «Chi si avvicina a Dio deve credere» (S. Paolo). «Senza la fede non si può piacere a Dio» (S. Giacomo).
    E che cos'è la fede, questo atteggiamento fondamentale che condiziona tutta la salvezza?
    La teologia ce la definisce come «un atto della intelligenza, mossa dalla volontà».
    In realtà l'atto di fede interessa tutta la persona che lo compie: non può ridursi ad un freddo atto dell'intelligenza, ma è piuttosto un protendersi di tutta la persona in un atto di abbandono fiducioso. Ma la definizione teologica ha il merito di mettere in evidenza un aspetto fondamentale dell'atto di fede: l'influsso della volontà che muove l'intelligenza. Il motivo è semplice: nell'oggetto proposto all'accettazione non c'è l'evidenza intrinseca che costringerebbe l'intelligenza all'assenso. C'è una zona d'ombra (dovuta alla troppa luce, ma è sempre ombra!), c'è un margine di incertezza, che la ragione da sola non riesce a superare.
    Per questo interviene la volontà che sposta l'attenzione dell'intelligenza dalle ragioni intrinseche, a quelle estrinseche: l'autorità di chi propone il messaggio.
    Quanto più forte è il peso dell'autorità di colui che rivela (cioè quanto più è vista come persona buona, veritiera, nella comunità amorevole) e tanto più forte e decisivo risulterà l'impulso a credere. E, viceversa, quanto più inaudito e scomodante è l'oggetto dell'annuncio, tanto più forti devono essere le ragioni estrinseche che muovono all'assenso.

    Il mistero della croce

    Ora il cristianesimo annuncia un messaggio che è addirittura sconvolgente: «chi ama la propria vita, la perderà»; «chi non abbandona tutto, non può essere mio discepolo»; «beati i poveri... beati coloro che piangono...»; «chi non nella comunità prende la sua croce...».
    Un messaggio che appare come una minaccia ai nostri bisogni fondamentali di affermazione, di conservazione e di contatto. È vero che ci viene presentato anche il rovescio della medaglia; la risurrezione, la gloria, il premio. Il dolore, la croce, la morte... non sono fini a se stessi, ma passaggi obbligati per arrivare ad una meta radiosa.
    Ma tutto ciò non è visibile, non è toccabile: sentiamo i dolori della passione, ma non vediamo l'aurora della risurrezione; ci spaventa la prospettiva della rinuncia, e non siamo sicuri del premio che ci aspetta. Perciò la ragione. sospende la sua adesione: non ha le prove sufficienti per rischiare, non si sente di fare il salto nel buio. Ha bisogno di una «spinta» che le venga dall'esterno, verso cui volge lo sguardo implorante.

    La forza della testimonianza

    La «giusta spinta» le verrà proprio dalla testimonianza: il vedere che altri hanno rischiato con successo.
    Da questo punto di vista, Cristo è il primo testimone: colui che ha pagato di persona per darci l'esempio, che ha dato la propria vita per ritrovarla glorificata, che è arrivato alla gloria passando per la morte. Il suo esempio garantisce l'autenticità del messaggio, anche se sconvolgente: conviene nella comunità rischiare.
    Dopo Cristo e in nome suo, infiniti altri «testimoni»: i martiri, i santi, i buoni. Gente che ha provato e che ci è riuscita.
    Ma Gesù Cristo (come persona storica) è lontano nel tempo: non lo posso vedere con gli occhi. Gli apostoli e i martiri sono persone di altri tempi: la spinta che mi offrono è molto debole. Ho bisogno di testimonianze concrete, attuali, durature, numerose... quali possono venirmi soltanto dalla comunità.
    Il trovarsi immerso in una comunità di persone che crede in Cristo e ne vive il messaggio, giocandosi il tutto per tutto... è l'argomento più persuasivo all'atto di fede.
    Gesù l'aveva detto chiaramente: «Riconosceranno che siete miei discepoli se vi amerete gli uni e gli altri come io vi ho amati». E agli apostoli aveva detto: «Mi sarete testimoni». Ecco perché la santità della Chiesa è il segno più persuasivo della presenza di Cristo nel mondo.
    Ed ecco perché una delle preoccupazioni più impellenti del nostro lavoro apostolico deve essere la creazione di comunità di cristiani esemplari.

    Creare comunità cristiane

    Ci sono due fenomeni che devono farci riflettere seriamente:
    a) da una parte il processo di massificazione sempre più accentuato, che tende a livellare la coscienza personale dei singoli, confondendoli nel grigiore della «società». La persona si perde nella massa, nello stato, nella cultura collettiva...
    b) d'altra parte il tentativo sempre più accentuato (anche se a volte è inconscio) di sottrarsi a tale livellamento. Ne sono espressione eloquente il sorgere e il diffondersi di gruppi spontanei o organizzati a tutti i livelli: gruppi culturali, turistici, giovanili, ecc...
    Da un punto di vista pastorale si deve notare che tutt'e due i fenomeni ci interessano direttamente. Infatti anche i valori cristiani corrono il rischio di essere travolti nel processo di massificazione. È illusorio credere di formare dei veri cristiani, di persone che vivono abitualmente in una cultura di massa areligiosa e acristiana.
    D'altra parte, anche le eccezioni (davvero numerose) di persone che sfuggono alla morsa dell'ambiente, non bastano, da sole, a risolvere il problema pastorale. Bisogna passare all'attivo creando ambienti adatti al libero sviluppo della persona umana, quale possono essere appunto le comunità cristiane e i piccoli gruppi.
    Oggi ci sono ancora molti cristiani, ma scarseggiano le comunità cristiane. C'è molta gente cristiana che vive nel proprio isolamento: con le proprie concezioni, le proprie pratiche religiose, la propria «rettitudine morale»...
    Di conseguenza viene a mancare al mondo quella testimonianza di vita comunitaria che è indispensabile per l'accettazione del messaggio evangelico.
    La gente non indica più i cristiani con il loro distintivo: «guardate come si amano!». Anzi, dal punto di vista comunitario, la maggioranza delle istanze sociali sembra diventata caparra di altri messaggi sorretti da una testimonianza molto più corrente. I cristiani sembrano inerti, o si muovono più come persone singole che come gruppo.
    Per questo il richiamo alla comunità, è un invito a riprendere chiara coscienza di una insostituibile esigenza del nostro tempo.
    È necessario lavorare indefessamente in questa direzione:
    1. Anzitutto con una catechesi a dimensione comunitaria. Molta parte del soggettivismo di cui sono vittime i cristiani di oggi, è frutto di una errata presentazione del messaggio cristiano. Si è insistito troppo unilateralmente sul rapporto personale con Dio, e poco sulla dimensione comunitaria della salvezza.
    2. A questa deve seguire un'azione pastorale a respiro comunitario che comprende:
    a) La celebrazione liturgica «culmen et fons» di tutta l'azione cristiana, facendole prendere coscienza della sua natura e dei suoi destini.
    b) Le opere caritative concepite e realizzate nella «koinonia» spirituale e materiale.
    c) Associazioni specializzate e gruppi minori, che permettono l'esperienza di vita comunitaria vissuta in intensità. Soltanto in questo modo sarà garantita l'assimilazione vitale del messaggio cristiano che noi siamo chiamati a proclamare. Cristo ci ha inviati a predicare la Parola, ma anche a «fare discepoli», cioè a creare comunità di vita, poiché il seme della Parola germina e si sviluppa proprio nel terreno perfetto da strutture comunitarie che lo rendono fecondo.

    LE TRE DIMENSIONI DI UNA COMUNITÀ IN SITUAZIONE DI EVANGELIZZAZIONE

    * Pastorale della parola
    * Pastorale dell'azione
    * Pastorale della comunità

    Dalle conversazioni con tanti educatori impegnati nella pastorale giovanile nei collegi cattolici si rileva una comune preoccupazione: aggiornare la propria azione a servizio dei giovani secondo le direttive del Concilio: dialogo, rilancio dei laici, ecumenismo, fede, partecipazione attiva alla comunità umana ed ecclesiale.
    È naturale questa preoccupazione. Ma occorre in questi delicati momenti avvertire il pericolo «d'infilare vicoli ciechi». Si tratta di infilare la strada aperta, di prendere la direzione giusta, anche se necessariamente ancora informe al principio.

    Pastorale una e triplice

    Partiamo da dati di fatto.
    Si parla di pastorale giovanile, di pastorale della scuola, di pastorale della famiglia, della parrocchia... ma quante pastorali ci sono? Evidentemente ci sono delle ramificazioni, ma ci deve essere un tronco unico, da cui queste ramificazioni partono e prendono equilibrio e senso dall'insieme. Il discorso si sposta qui sull'essenza dell'azione pastorale per noi non in senso teologico, compito dei teologi, bensì in senso pratico: che cosa vi è di centrale e di comune alla pastorale, sia che sia fatta in parrocchia o in scuola o nelle associazioni giovanili? Quali sono i suoi elementi indispensabili?
    Per fare un discorso chiaro è forse meglio partire da una triplice azione che constatiamo nella Chiesa: si parla di magistero, di ministero, di governo o quello che è lo stesso: amministrazione della Parola, amministrazione dei Sacra menti, amministrazione della comunità ecclesiale.
    Vi sono le grandi «energie di salvezza» come le chiama la «Gaudium et Spes»: la parola, che viene amministrata ne] magistero, i sacramenti che vengono amministrati dal ministero, la comunità ecclesiale che viene organizzata dal governo.
    In questa prospettiva, l'intero popolo di Dio, e quindi non solo la «gerarchia», ma anche i laici, partecipano della profezia, del sacerdozio, della regalità di Cristo.
    Abbiamo cosi tre «energie» al servizio della crescita de Corpo di Cristo per realizzare l'unica salvezza.
    Cosi possiamo distinguere nella comunità tre modi di evangelizzazione e di formazione del cristiano: la parola annunciata (catechesi, predicazione, conferenze religiose), il sacramento (Santa Messa: vertice della azione pastorale), la comunità (la relazione di fede e di carità vissuta nella relazione insegnanti-genitori-allievi).
    Questa triplice azione pastorale corrisponde a tre elementi indispensabili che concrescono nello sviluppo equilibrato di un individuo: la dottrina, l'azione, la comunione.

    L'obiettivo dell'azione pastorale

    Qual è il vero obbiettivo della pastorale?
    È l'uomo teologale, cioè l'uomo comune in quanto dalla vita è costretto a prendere delle decisioni ed è quindi costretto a fare atti di fede, speranza e carità se vuole decidere da cristiano.
    Pio XI nella «Divini illius Magistri» ha spiegato il fine dell'educazione cristiana proprio in questi termini: formare l'uomo che pensa, giudica e agisce secondo ragione e fede. È questo l'obbiettivo della pastorale: porre nei battezzati il nucleo fondamentale dell'essere cristiano: la fede!
    Ma questo cristiano deve agire nel mondo, fare le sue scelte, impegnarsi nei compiti della costruzione del mondo. Il cristiano è un individuo inserito in una storia, che agisce appunto nella storia in quanto cristiano. La pastorale deve preparare e abilitare questo uomo ad entrare decisamente nella storia della salvezza con scelte lucide, decisione e giudizi illuminati dalla fede.
    Il punto critico di tutta la pastorale sta appunto qui: per molti la pastorale aiuta ad andare ai sacramenti, aiuta a fare atti teologali ma indipendentemente dalla esistenza concreta, problematica e tentatrice di ogni uomo. Invece di salvare l'uomo si tenta di sostituire, a forza, il «salvato» all'uomo reale.
    In sostanza l'obbiettivo della pastorale è tutto l'uomo in quanto è chiamato da Dio a inserirsi come lievito nella pasta del mondo per essere fermento evangelico.

    L'organizzazione pastorale di una comunità scolastica

    L'evangelizzazione nella scuola è un'azione pastorale e deve tenere conto dell'articolazione di qualsiasi azione pastorale. Essa, per essere quella della Chiesa e ricercare l'efficacia della realizzazione del suo obbiettivo, deve tener conto delle tre «energie» divine: la parola, l'azione sacramentale, la comunità.
    La scuola infatti, come la comunità parrocchiale, familiare o qualsiasi raggruppamento professionale, costituisce una forma di comunità umana in cui si vive una certa concezione dell'esistenza (umanesimo) e Dio realizza la sua salvezza. I cristiani quindi (genitori, insegnanti ed allievi), vi trovano un campo di azione e un ambiente per vivere e testimoniare una cultura e una fede. In questo senso si può considerare la scuola come una comunità strutturata nella seguente trilogia:
    - la parola: l'insegnamento, le verità, gli enunciati, il messaggio cri stiano, la Weltanschaug umano-cristiana;
    - le azioni: i dinamismi, le attività, la liturgia;
    - la comunità: l'incontro, la relazione umana, il gruppo, l'associazione, la comunità ecclesiale.
    Porre una scuola in chiave di evangelizzazione significa mostrare il rapporto che esiste tra la parola, le azioni e la comunità per la formazione dell'uomo teologale, in cui la verità cristiana e la verità umana sono profondamente unificate in modo razionale, logico, come un unico sapere per la vita.
    Occorre perciò creare nella scuola certe condizioni concrete che permettono di considerare la fede come un fatto culturale, inserito cioè in una cultura come parte integrante di essa e destinato a diventare il centro coordinatore della cultura stessa.
    Ciò non significa evidentemente ridurre il fatto religioso a cultura, ma fare della religiosità il lievito significante dei valori culturali.
    Le condizioni di una fede integrata nella vita sembrano essere le seguenti:
    1. Una adeguata istruzione religiosa che presenti autentici valori religiosi (che portino ad una relazione vissuta tra gli uomini e Dio) e valori cristiani (che abbiano come centro l'azione e la persona di Gesù Cristo continuato nella Chiesa). Per questo l'insegnamento della religione non si accontenterà di citare dei testi biblici e liturgici, ma entrerà nello spirito che ispira le fonti vive del messaggio. Senza artifici, entrerà allora, con la grazia divina, a favorire un vero incontro con il Signore sia nel pensiero che nell'espressione strutturata.
    2. Un messaggio che sia portato a contatto con le situazioni esistenziali per mettere in evidenza la funzione interpretatrice del dato di fede rispetto alle esperienze di vita e alle situazioni significative in cui il soggetto è chiamato a prendere posizione.
    In questo senso la scuola può considerarsi come luogo d'incarnazione della vita divina comunicata all'uomo. L'allievo è invitato a impegnare i suoi dinamismi e le sue disposizioni umane per Cristo; a vivere una «carità impegnata» in azioni corroborate e rafforzate della grazia sacramentale dell'Eucaristia e della preghiera. L'Eucaristia in questo senso è il vero centro della scuola. Ciò implica che l'insegnamento della religione sia proporzionale al grado di sviluppo-mentale dell'allievo e sia in connessione con i suoi bisogni.
    3. Un messaggio religioso che sia presentato come valore di gruppo. Gli insegnanti, i genitori e gli allievi devono trovare nella scuola un campo di azione per testimoniare la loro fede.
    a) l'impiego del tempo, delle forze vive, del denaro sono una testimonianza dell'«umanesimo» che è alla base dell'ambiente. Sono praticamente delle scale di valore che rivelano l'intenzione di ricerca di «riuscita terrestre» oppure di testimonianza evangelica.
    b) le relazioni umane manifestano una mentalità aperta o chiusa, accogliente o settaria, comprensiva o indifferente. Il cristiano testimonierà una continua disponibilità alla comunione, basata su dinamismi che sorpassano il puro piano dei sentimenti naturali, perché hanno la loro sorgente in Cristo.
    c) le conversazioni sono un'occasione per mostrare le scale di valori della comunità.
    d) nella conversazione inoltre il valore religioso entra in dialogo con i valori umani e li gerarchizza in una medesima cultura.
    e) nel quadro scolastico vi sono inoltre delle possibilità più esplicite di testimonianza. Sono i servizi vari, i lavori missionari, le compagnie religiose, i gruppi di A.C. e missionari, ecc. La preoccupazione di una scuola cattolica sarà di essere sempre più cristiana, di mettere sempre di più la formazione degli allievi in chiave di evangelizzazione per la loro testimonianza cristiana nel mondo.

    Conclusione

    Occorre ripensare la nostra pastorale scolastica sia a livello scientifico che a quello pratico.
    Non vi è nulla di più nocivo nella pastorale che l'improvvisazione e il pressappochismo.
    Il nuovo senso della pastorale è quello che concepisce l'azione pastorale come un'unica azione con tre componenti essenziali. Come cuore, polmoni, fegato, non sono tre cose ma tre parti insostituibili di una stessa cosa, tre organi di un organismo, cosi parola, azione e comunità sono tre parti dell'atto pastorale e non tre atti pastorali.
    Come nell'azione pastorale la liturgia è il vertice «Fons et culmen» della comunità, così nella scuola la liturgia sarà il centro di tutta una programmazione catechistica, la sintesi pratica di una seria azione pastorale.
    La liturgia è però vertice e cuore se fa parte di un tutto ben organizzato. Spesso si è preoccupati di mantenere la messa, ma non si è altrettanto preoccupati di fare in modo che gli allievi capiscano e vivano comunitariamente la Messa. Non si può introdurre improvvisamente un giovane nell'azione eucaristica senza organizzare contemporaneamente la comunità scolastica e la catechesi.
    Il risultato sarà sempre un indebolimento sia dell'insieme (far parte e vivere della salvezza) e sia dell'elemento stesso che viene accresciuto, ma lasciato privo del sostegno delle altre componenti dell'azione.
    In pratica se abbiamo tre parti di tempo disponibile non diamole tutte ad un solo settore, ma con un dosaggio giudizioso che dipenderà dalle circostanze, diamo una parte alla parola, un'altra all'azione e una terza all'organizzazione della di evangelizzazione.
    Si tenga anche conto del fatto che una intelligenza triplicata non è una intelligenza migliore, ma una intelligenza ammalata per mancanza di altre funzioni. Cosi una catechesi triplicata non è una catechesi migliore, ma una catechesi malata per il mancato appoggio dell'iniziazione all'azione e dell'organizzazione della comunità.

    LA SCUOLA CATTOLICA COMUNITÀ DI FEDE
    La comunità educativa e la Chiesa... ciascuna al servizio dell'altra insieme al servizio dell'uomo.

    La catechesi è al servizio del credente; essa «sviluppa e adatta tutte le sue facoltà per meglio abilitarle all'atto di fede» (Paolo VI, 7 dicembre 1966).
    «Elemento caratteristico (della scuola cattolica) è di dar vita ad un ambiente comunitario scolastico permeato dello spirito evangelico di libertà e carità, di aiutare gli adolescenti perché nello sviluppo della propria personalità crescano insieme secondo quella nuova creatura, che in essi ha realizzato il battesimo, e di coordinare infine l'insieme della cultura umana con il messaggio della salvezza, sicché la conoscenza del mondo, della vita, dell'uomo, che gli alunni via via acquistano, sia illuminata dalla fede» (Educazione cristiana, 8).

    La comunità educativa sta riscoprendo, nei «segni del :tempo di questo dinamico postconcilio, tutta l'urgenza della sua funzione di servizio nell'ambito dell'azione pasto' rale della Chiesa.
    La «nuova presa di coscienza» della Chiesa per la costruzione di un umanesimo plenario richiama in causa la presenza della scuola cattolica e ne giustifica l'originalità.
    «Il mondo è malato, ha scritto Paolo VI. Il suo male risiede meno nella vanificazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, e che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Populorum progressio, 66).
    «È un umanesimo plenario che occorre promuovere. Che vuoi dire ciò, se non lo sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini? Un umanesimo chiuso, insensibile ai valori dello spirito e a Dio che ne è fonte, potrebbe apparentemente avere maggiori possibilità di trionfare. Senza dubbio l'uomo può organizzare la terra senza Dio, ma senza Dio egli non può alla fine che organizzarla contro l'uomo. L'umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano» (Populorum progressio, 421).
    La Chiesa è lanciata oggi al servizio della comunità umana: la Costituzione pastorale e La Chiesa e il mondo contemporaneo» che incomincia con le parole «Gioia e Speranza», è tutta consacrata alla formazione dell'uomo e alla promozione di una nuova cultura cristiana.
    La scuola cattolica, Chiesa essa stessa, non può ovviamente considerarsi estranea a questo movimento plenario. Essa non è una istituzione a parte, isolata, protetta che detenga da sola tutta la verità. Essa deve considerarsi come un contributo particolare della Chiesa per la soluzione dei problemi che pone oggi l'educazione degli uomini, di tutti gli uomini. Questa volontà di presenza, questa cura per l'«aggiornamento» non va però disgiunta da una seria preoccupazione: che cosa rimarrà del carattere proprio della scuola cattolica in questo incontro così massiccio con le realtà sociali di un mondo che sembra perdersi nel materialismo?
    La risposta non può essere altra se non un deciso servizio della scuola cattolica per sviluppare e adattare le facoltà degli allievi per meglio abilitarle all'atto di fede». Ce lo ricorda il Concilio: «L'elemento caratteristico della scuola cattolica è di dar vita ad un ambiente comunitario scolastico permeato dello spirito evangelico di libertà e carità; di aiutare gli adolescenti perché nello sviluppo della propria, personalità crescano insieme secondo quella nuova creatura che in essi ha realizzato il battesimo, e di coordinare infine l'insieme della cultura umana con il messaggio della salvezza sicché la conoscenza del mondo, della vita, dell'uomo, che gli alunni via via acquistano, sia illuminata dalla fede» (Educazione cristiana, 8 ).
    La nostra scuola sarà una scuola come tutte le altre scuole, ma sarà anche una comunità di vita evangelica impregnata d'amore. Essa sarà un centro di cultura, come lo sono tutte le altre, ma di una cultura ordinata alla fede.
    Essa sarà un luogo di' dialogo, come tutte le scuole degne di questo nome, ma un dialogo che permette l'incontro della Chiesa e della comunità umana.
    Oggi la Chiesa impegna le scuole cattoliche sulla strada della riscoperta della funzione di evangelizzazione della gioventù delle comunità cristiane. Scuole organizzate secondo lo stile del Vangelo per l'evangelizzazione dei giovani. Solo in questo modo la scuola cattolica si pone per intero .al servizio della comunità umana e si fa missionaria della Buona Novella della salvezza per l'educazione dell'uomo di fede per i compiti che la Chiesa e il mondo reclamano.

    Originalità della scuola cattolica

    I mezzi con cui la scuola cattolica ha sempre cercato di essere fedele allo spirito di evangelizzazione furono: l scuola di religione e l'ambiente.
    Oggi, ci sembra che l'azione di evangelizzazione degli alunni debba tener conto di tre fattori complementari: il fattore culturale-catechistico, il fattore associativo-ecclesiale e il fattore ascetico-liturgico.
    Mons. Garrone, in Fede e Pedagogia (1), invita gli educatori cristiani a ricreare l'ambiente della scuola cattolica estendendo al ragazzo l'ambiente vivo e personalizzante della Chiesa. Invita cioè gli educatori a ricercare uno stile cristiano che aiuti il ragazzo a fare nella sua mente una sintesi vera tra antropologia e soprannatura, a ritrovare il dialogo tra fede e cultura nell'ambito di un'azione di pastorale globale della scuola.
    Spesso preoccupati seriamente della salvezza dei giovani e vedendo il loro scarso interesse al mondo della grazia si sono moltiplicate, nelle scuole cattoliche le ore di catechismo, le prediche, le conferenze morali, constatando poi sempre che i risultati sono in genere sproporzionati allo sforzo. Ci sembra invece che la parola non ha avuto efficacia perché senza l'azione sacramentale e la comunità è troppo debole per sostenersi; d'altra parte la salvezza non è rimasta in quei giovani, perché non vi è salvezza senza le tre dimensioni di Parola assimilata, di sacramento vissuto e di comunità partecipata.
    Il fine della evangelizzazione è di portare la Parola di Dio all'uomo ( tutto l'uomo, ossia l'uomo che pensa, giudica e agisce) perché questi sia capace e disposto a vivere di fede nelle situazioni impegnative della sua vita.
    Non si può dire catechizzato un giovane che non sia stato aiutato a maturare quella «nuova creatura» di cui ci parla il Concilio.
    L'uomo teologale, cioè il vero cristiano, frutto della educazione cristiana è colui che pensa, giudica ed opera costantemente e coerentemente secondo la retta ragione illuminata Mia luce soprannaturale degli esempi e della dottrina di Cristo. È un uomo radicalmente nuovo in cui la luce della fede diventa inizio di un nuovo dinamismo personale, che oltre all'intelletto mette in movimento cuore e volontà sul piano naturale e soprannaturale per il servizio della Chiesa e del mondo.
    Ma il dramma educativo sta appunto in questo: come mettere in atto le potenze operative del ragazzo che più facilmente lo possano aiutare a integrare fede e vita? La soluzione, ci sembra, dovrà partire dalla riconsiderazione della sua funzione educatrice. La scuola cattolica dovrà';, diventare vera scuola di evangelizzazione, ispirata alla mentalità e allo stile pastorale della Chiesa. Una scuola cioè dove Dio è esplicitamente cercato, predicato, affermato, pregato, vissuto nel contesto delle relazioni comunitarie.

    La scuola cattolica un luogo d'incontri

    Il fatto che la Chiesa si trovi tutta quanta in stato di missione impegnata a realizzare la salvezza di Cristo nell'azione unitaria e convergente delle tre «energie»: parola, sacramento, comunità ecclesiale, a cui corrispondono tre poteri»: magistero, ministero e governo, deve far riflettere la scuola cattolica. La sua azione di evangelizzazione dovrà articolarsi in parola, azione liturgica e comunità perché il giovane da salvare è un uomo che ha una coscienza ( salvata con la parola), ha una attività (salvata con i sacramenti), ha una vita sociale (salvata con la comunità ecclesiale). Anche la Gaudium et Spes prende questo schema. Perché preoccuparci di mantenere l'unità della sostanza e insieme di distinguere e poi armonizzare tra loro le tre dimensioni dell'azione pastorale? Perché se la nostra azione pastorale non è logica, non è organica, ben articolata, ben dosata, noi costruiamo dei fedeli che sono come case sulla sabbia. Facciamo enormi fatiche inutili, innumerevoli ripetizioni da una parte e tenaci dimenticanze di parti essenziali dall'altra; ci scoraggiamo e non serviamo ai nostri giovani.
    Abbiamo detto che l'azione pastorale di una scuola cattolica tende a formare l'uomo teologale, ossia l'uomo capace :di fare scelte di fede nelle situazioni impegnative della vita. Questo fine dirige la ricerca di metodi: come fare perché gli alunni non si limitino a sapere la fede, ma pensino, giudichino e decidano secondo la fede quando le situazioni di vita li costringono a pensare, giudicare e decidere?
    Per ottenere questo risultato, oltre alla grazia divina ottenuta attraverso la preghiera e la santità della vita, è necessaria la collaborazione umana di tutta quanta la comunità. La scuola cattolica dovrà impegnarsi con scienza e prudenza pastorale in un lavoro unitario d'insieme. Ci sembra sia necessario per questo:
    1. organizzare il lavoro educativo in maniera unitaria in modo che tutta quanta la scuola sia veramente in funzione catechistica, dove l'aspetto catechistico sia davvero l'elemento formale di tutta quanta la scuola e gli altri aspetti o elementi le siano subordinati;
    2. pur nella unità dell'unico obbiettivo da raggiungere (l'uomo teologale), distinguere bene i tre settori educativi: quello della parola, quello dei sacramenti e quello della comunità;
    3. ricordare che il soggetto di questi tre interventi è unico: e uno stesso individuo e che i tre interventi riguardano una vita dove le tre energie concrescono assieme, maturando in modo interdipendente e concomitante;
    4. ciò impone una vera divisione del lavoro, una divisione concertata assieme sia per quanto riguarda il tempo e sia per quanto riguarda l'interdipendenza e la contemporaneità , dei tre sviluppi;
    5. inoltre la realtà pratica fa sì che ad esempio il «tempo pastorale disponibile», il tempo cioè in cui la pastorale può agire sulla maggior parte degli alunni, sia il tempo dell'ora di religione. La distribuzione dei compiti si traduce perciò in divisione di quel tempo disponibile in funzione dell'uno o dell'altro dei tre sviluppi a opera di un unico educatore: il catechista;
    6. data poi l'unità del processo dí crescita dell'uomo in tutti i suoi dinamismi, non si può curare uno sviluppo senza curarne in parte gli altri. Così è bene che chi fa catechesi, sia anche animatore di gruppo, faccia qualche materia «profana» e faccia un po' da iniziatore nella liturgia. Questo potrà avvenire facilmente se l'insegnante di religione di ogni classe è pure l'incaricato della classe e ne cura la direzione spirituale;
    7. in pratica si tratta di lavorare assieme: insegnanti, genitori, allievi in modo che la cultura che si definisce e si assimila a scuola e in famiglia, sia quella stessa che viene integrata in una unica mentalità di fede attraverso la scuola di religione e il condividere la stessa cultura con altri in gruppo e nella comunità liturgica. Questo significa formare circoli di partecipazione dei genitori al lavoro di scuola e dare più largo spazio (nel tempo di lavoro parascolastico) ai gruppi e associazioni;
    8. impostare infine la comunità della scuola in modo da praticare uno stile di vita e un modo di scambiare che permettano di esprimersi con verità e in cui ciascuno sia aiutato ad essere se stesso e a prendere coscienza del valore del gruppo che integra.

    Una pedagogia delle relazioni

    Lasciando da parte il problema, certamente essenziale, del l'integrazione tra cultura e fede nel momento proprio dell'istruzione che meriterebbe da solo uno studio ben più vasto, accenneremo brevemente alla dimensione comunitaria della scuola cattolica nello sviluppo della mentalità di fede.
    1. Abbiamo già accennato che il dialogo tra fede e cultura va instaurato nell'ambito di un'azione pastorale nella scuola in modo da modificare lentamente tutto l'ambiente e perciò favorire il maturarsi di una solida mentalità di fede. Perché una comunità assuma un valore di integrazione tra cultura e fede nell'allievo, occorre che il messaggio religioso sia presentato agli alunni come valore di gruppo da viversi immediatamente in un «nuovo» stile di relazioni personali. L'alunno deve sentire di appartenere, come a qualcosa di proprio, alla comunità, pena appunto l'insuccesso dell'integrazione.
    2. Il senso di appartenenza alla comunità (intesa come comunità di insegnanti, genitori, allievi) rafforza il potere di interiorizzazione del messaggio cristiano e questo, a sua volta, se ben interiorizzato, rafforza il senso di appartenenza alla comunità.
    Il processo ovviamente è facilitato se l'azione della comunità viene mediata da piccoli gruppi primari, portatori della proposta cristiana (associazione, classe, circolo). È importante notare che la cultura, l'insieme cioè degli atteggiamenti mentali prevalenti e abituali, vengono trasmessi dal gruppo primario. La scuola dovrà perciò favorire l'originarsi di gruppi primari e secondari, nell'ambito scolastico e in attività parascolastiche data appunto l'importanza che hanno nella educazione dell'atteggiamento di fede. Certamente sarà necessaria in essi la presenza di animatori aperti al mondo, al dialogo, nel nome del Vangelo.
    3. Perché una comunità scolastica possa diventare un vero centro di riferimento per gli alunni, capace di lievitare in loro una profonda e vitale fede in Cristo, è necessario che essa:
    – abbia uno stile veramente evangelico, dove le relazioni mutue ( insegnanti, genitori, allievi) siano vissute nella verità, nella carità e nella testimonianza personale del messaggio di Cristo;
    – offra agli allievi, gelosi della loro autonomia, il quadro e i mezzi appropriati alla nascita, alla formazione e allo sviluppo della loro libertà, tenendo conto delle loro scelte fondamentali;
    – favorisca un clima cristiano di stima e di tolleranza, stimolando le iniziative personali e promuovendo presso gli stessi educatori una più grande libertà. Così potrà realizzare meglio una vera ricerca della crescita dell'altro e della sua maturazione adulta;
    – sia meno mediatrice di un sapere che educatrice della persona. Ciò significa che l'organizzazione della comunità deve essere studiata in maniera tale che permetta la nascita dell'atto di fede personale, assicurando l'autenticità della sua espressione libera e lo sviluppo del suo dinamismo interno. La libertà che si tratta \di rispettare e di promuovere non è una libertà vuota; essa deve essere alimentata, sollecitata, stimolata dalla comunità degli educatori.
    4. Concretamente, quando una comunità è veramente stimolante della maturazione della fede dell'allievo?
    Quando una comunità di insegnanti e di genitori assieme, cerca di approfondire che cosa forma l'unità spirituale del ragazzo e in quella direzione «sviluppa e adatta tutte le sue facoltà per meglio abilitarle all'atto di fede».
    Il carattere proprio della pastorale è di favorire l'unità di spirito. Che non ci sia da una parte l'insegnamento e dall'altra la vita; da una parte la fede e dall'altra l'azione liturgica vissuta a parte. Ma che ci sia l'uomo che, come dice Von Balthasar, pone nella scuola il nucleo fondamentale dell'essere cristiano.

    LITURGIA E VITA COMUNITARIA

    Il rinnovamento della vita cristiana auspicato dal Concilio trova una sua espressione privilegiata nella riforma liturgica. Essa vuole aiutare i fedeli a riprendere coscienza del loro essere Chiesa, attraverso la partecipazione attiva e cosciente all'azione liturgica. D'altra parte non ci può essere una vera educazione liturgica senza una riscoperta della comunità. Partendo dalla funzione della liturgia nella comunità ecclesiale si vuole qui fare alcune applicazioni pratiche sulla importanza della liturgia per la formazione di autentiche comunità locali.

    La Costituzione liturgica del Vaticano II definisce liturgia «culmen et fons» di tutta l'azione pastorale della Chiesa (art. 10). E ne spiega la ragione:
    a) perché nella Chiesa tutto tende a che i figli di Dio, riuniti nella casa del Padre, celebrino la Pasqua come sacrificio di lode e di salvezza.
    b) perché tutta la forza dell'azione pastorale deriva dall'ascolto della Parola e dal contatto con Cristo (ivi). Il che vuol dire che l'azione liturgica viene ad essere il segno definitivo ed efficace della Chiesa come comunità di salvezza. La liturgia è «segno» perché l'assemblea riunita sotto la guida del rappresentante di Cristo, manifesta la natura della Chiesa come popolo di Dio guidato da pastori... «La liturgia contribuisce in sommo grado a fare sl che i fedeli esprimano nella vita e rivelino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa» (Cost. lit. art. 2). Ed è «segno efficace» perché realizza quello che significa, cioè rende più Chiesa, più comunità.
    «In tal modo la liturgia, mentre ogni giorno edifica quelli che sono nella Chiesa in tempio santo del Signore, in abitazione di Dio nello Spirito fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo, nello stesso tempo e in modo mirabile irrobustisce le loro forze perché possano predicare il Cristo» (Cost. lit. ibidem).
    In altre parole, la liturgia non soltanto manifesta la Chiesa ma la edifica. La Chiesa non è un edificio già completo, ma in via di costruzione; non è un organismo vivente già arrivato allo sviluppo pieno, ma un organismo in crescita, che tende verso la sua pienezza che è il Cristo totale (1 Co 12, 12-27). Sviluppo che è dato in maniera determinante e privilegiata proprio dalla attività liturgica, che dona alla Chiesa il contributo più concreto alla sua unità ed alla sua perfezione.
    Nello stesso tempo «a coloro che sono fuori (la liturgia) mostra la Chiesa come vessillo innalzato sui popoli, sotto il quale i dispersi figli di Dio possono raccogliersi, finché si faccia un solo gregge sotto un solo pastore» (Cost. lit. art. 2).
    Quanto è detto per la Chiesa in generale, vale anche per tutte le sue cellule, cioè per le diocesi, le parrocchie, le comunità religiose, le associazioni; i gruppi giovanili, le famiglie... Anche per tutte queste «comunità minori» la liturgia deve diventare «culmen et fons» di tutta la loro attività: deve manifestarle ed edificarle.
    Una nazione si giudica dalle sue celebrazioni nazionali. Se tutti i cittadini non partecipano più alla festa con lo stesso trasporto, vuol dire che la festa non è sentita: il popolo ha cambiato atteggiamento e non si riconosce più quest'ideale che la festa richiama. Allo stesso modo un paese si giudica dalle sue feste patronali; una famiglia dal suo trovarsi insieme; una comunità dalle sue celebrazioni liturgiche.
    Niente, infatti, quanto l'azione liturgica manifesta il livello spirituale di una comunità. Il suo modo di raccogliersi in chiesa, il suo stile di preghiera tradiscono l'autenticità e la forza del suo ideale, come i lineamenti del volto e gli atteggiamenti del corpo tradiscono il carattere di una persona. In più, (cosa che non avviene negli altri comportamenti umani) lo stile della celebrazione forma e modella la comunità anche nel suo aspetto interiore, rendendola più ricca, più dinamica, più vicina alla meta verso la quale è incamminato: l'unione definitiva con Cristo e i fratelli.
    La liturgia comprende: la proclamazione e l'ascolto della Parola di Dio, la preghiera di lode, la pratica sacramentale, e soprattutto l'azione eucaristica.
    La vita di una comunità si edifica, perciò, su questi quattro momenti privilegiati della sua attività.

    Proclamazione e ascolto della Parola

    I decreti conciliari che riguardano i vari soggetti invitati a rinnovarsi spiritualmente (vescovi, sacerdoti, religiosi, laici, seminaristi ecc...) pongono sempre a fondamento di tale rinnovamento l'ascolto della Parola di Dio. Ad alcuni raccomanda che «abbiano quotidianamente fra le mani la Sacra Scrittura (Decreto sulla vita religiosa, art. 6).
    L'insistenza può sembrare eccessiva, ma di fatto è pienamente giustificata.
    Ogni comunità cristiana (ad immagine della Chiesa) non si forma per iniziativa personale dei componenti come avviene nelle società umane. L'iniziativa viene dall'alto, da Dio che chiama a raccolta. È lui che ha scelto «chi ha voluto»: Abramo, Davide, Pietro, Giovanni, il cieco nato, la peccatrice... Ed è ancora lui che continua a chiamare. La Chiesa è l'insieme di coloro che rispondono alla chiamata che Dio continua a fare riecheggiare nel mondo, per mezzo della sua Parola.
    Ora noi sappiamo che la Parola di Dio giunge a noi in modo speciale attraverso la Bibbia. Essa non è soltanto la raccolta di fatti edificanti, o un'antologia di parole rivolte un tempo ai nostri padri; ma bensì il libro che contiene il dialogo sempre aperto di Dio con il suo popolo. Dialogo fatto di parole e di fatti che trascendono il tempo e lo spazio, per giungere ad ogni vivente con l'attualità e la forza di un mistero di salvezza che si compie oggi.
    Il grande rilievo che la riforma liturgica ha dato alla lettura della Bibbia, deriva proprio da questa riscoperta della Parola di Dio come mistero di salvezza che si compie oggi nella storia. Cristo, dice la Costituzione liturgica, «è presente tra i suoi fedeli, quando nella Chiesa si legge la sua parola» (art. 7).
    La proclamazione solenne della Parola di Dio nella assemblea liturgica aiuta i fedeli a prendere coscienza del loro essere un popolo radunato dalla Parola. Anzi, la loro unione a Cristo e ai fratelli si approfondisce e si perfeziona proprio attraverso l'ascolto della Parola di Dio.
    Ogni comunità cristiana che vuole maturare in profondità deve quindi porre a suo fondamento un assiduo ascolto ed una progressiva assimilazione della Parola di Dio.
    Le occasioni non mancano:
    a) Anzitutto rivalutando la liturgia della Parola nella Messa. L'entrata in vigore del lezionario feriale offre già un tesoro immenso di brani ampi e significativi. La riforma definitiva darà un quadro ancora più vario e completo, anche per le domeniche e feste. Ma bisogna che si tratti di una liturgia autentica, celebrata con la fede di chi riconosce la presenza di Cristo che parla con efficacia sacramentale. Si deve trattare di una Parola proclamata con senso, capita ed assimilata grazie ad una accurata catechesi ed una continua meditazione.
    b) Per questo è necessario preparare e prolungare il momento liturgico con la meditazione personale. Purtroppo la lettura spirituale e la meditazione in uso tra i fedeli, i religiosi e gli stessi sacerdoti, sono spesso su temi discutibili. È necessario ritornare alle fonti, accostando più frequentemente la Bibbia. I sussidi non mancano. Fortunatamente stiamo assistendo ad un rifiorire consolante di studi generali e monografici accessibili a tutti.
    c) Ma ci sono altre possibilità per un uso comunitario della Bibbia. La Costituzione liturgica raccomanda le celebrazioni della Parola da farsi specialmente nelle vigilie delle grandi feste nel tempo di avvento e quaresima. Una comunità che crede alla forza della Parola di Dio può utilizzarle con grande frutto, strutturandole in modo unitario con la tematica della Messa e adattandole al livello spirituale dei suoi membri.
    Inoltre la Parola di Dio può essere letta in alcuni momenti privilegiati dell'attività comune: prima dei pasti, all'inizio di una attività ecc... Pochi versetti (che possono sostituire le formule di preghiera in uso) bastano per richiamare tutti alla presenza misteriosa di Cristo in mezzo ai suoi. Cosi la comunità si compone, si edifica progressivamente nella fede e nell'amore.

    La preghiera di lode

    La parola di Dio proclamata nella comunità ed accettata suscita la risposta della fede. Il popolo di Dio nella comunità intorno al Cristo glorioso, si associa al suo inno di lode e di azione di grazie. È la «laus perennis», la preghiera liturgica che trova la sua espressione più piena nel breviario. La Chiesa insiste non solo perché i sacerdoti e i religiosi prendano sempre più coscienza del valore di questa preghiera, ma raccomanda che anche i fedeli si associno il più possibile, almeno ad una parte di essa, specialmente alle Lodi, ai Vespri e alla Compieta.
    Anche in questo campo le possibilità di applicazione sono numerose. Ogni comunità ha le sue pratiche religiose quotidiane: preghiere del mattino e della sera e altre disseminate lungo la giornata. Sarà bene sostituirle ogni tanto con le ore del breviario. Anche in questo settore non mancano sussidi adeguati a tutte le necessità. Si tratta di scegliere e di adattare con gusto. Magari si potrà cominciare dalla recita di uno o due salmi debitamente spiegati; poi si passerà alla forma più completa.
    Poco a poco la comunità acquisterà il gusto per una preghiera che ha il respiro della Chiesa e che si nutre della Parola stessa che Dio pone sulle nostre labbra.

    I sacramenti

    La Parola opera il primo e più fondamentale contatto di Dio con la comunità. Ma ad esso si aggiunge un contatto vitale di nuovo ordine che avviene per mezzo dei sacramenti Anch'essi edificano la comunità, approfondendo sempre più i vincoli che legano ogni fedele a Cristo ed a tutti i fratelli Anzi, si può dire che questa dimensione comunitaria dei sacramenti prevale (in certo senso) sull'aspetto personale. I sacramenti sono gli atti privilegiati della chiesa comunità di salvezza. Da essa traggono appunto la loro efficacia, poiché è tutta la Chiesa (capo e membra) che in essi si esprime e per mezzo di essi cresce in perfezione fino alla pienezza del Corpo di Cristo.
    La riforma liturgica in atto vuole rimettere in evidenza questo carattere comunitario di tutti i sacramenti rivedendone con cura i riti. Qualcosa è già stato fatto ed altro (molto di più) si farà. Ma nel frattempo è necessario lavorare in profondità per educare i fedeli e prepararli ad accettare la riforma.
    Tra tutte le applicazioni pastorali possibili ci limitiamo ad accennare brevemente ai sacramenti della penitenza e della eucaristia, perchè più direttamente in relazione con la vita normale di una comunità cristiana.
    Che cosa si può fare perché la pratica penitenziale riacquisti tutto il suo valore di ricomposizione della comunità disgregata dal peccato? Anzitutto bisogna rivalutare tutti quei riti che ad essa si richiamano più direttamente, come sono l'esame di coscienza collettivo, l'implorazione comunitaria del perdono, l'accesso al confessionale posto in luogo evidente ecc. Si pensi alla confessione ai piedi dell'altare, all'esame di coscienza e al Confiteor della Compieta e ad altre funzioni penitenziali come l'imposizione delle ceneri e il digiuno quaresimale. Bisogna che queste pratiche comunitarie riacquistino il loro significato mediante richiami espliciti al loro contenuto e al loro valore di atti di tutta la comunità.
    Ma sarà bene (di tanto in tanto) aggiungervi delle vere e proprie funzioni penitenziali che preparino e seguano la comunità all'incontro personale con il confessore. L'esperienza dimostra che simili pratiche ( che si stanno diffondendo un po' dovunque) sono feconde di frutti spirituali.

     

    L'eucaristia

    È senz'altro il cuore di tutta la liturgia: il «sacramentum unitatis» per eccellenza, poiché in essa si realizza la più perfetta unione di Cristo con le sue membra. Uniti a Cristo per mezzo della fede, i cristiani partecipano al suo sacrificio e si accostano al banchetto eucaristico, figura ed anticipazione della perfetta unione che si realizzerà nella casa del Padre. Bisogna che questa realtà significata dal sacramento si manifesti chiaramente nei riti attraverso i quali si realizza. Per questo la Costituzione liturgica raccomanda che «si preferiscano le celebrazioni nelle quali è più evidente il carattere comunitario» (art. 27). Il che vuol dire che bisogna preferire una Messa con partecipazione attiva di tutta la comunità ad una celebrata quasi privatamente. Ma vuol dire anche che si deve preferire una concelebrazione, alla molteplicità ingiustificata di tante messe. La recente istruzione sul culto eucaristico, lo ricorda in termini inequivocabili.
    La concelebrazione esprime l'unità del sacerdozio e convalida i vincoli fraterni (art. 47) non soltanto dei sacerdoti, ma di tutti i fedeli, che nella forma di celebrazione comunitaria più piena, trovano incarnato quell'ideale di unità spirituale che è alla base della loro coscienza cristiana.
    Quanto lavoro da fare in questo campo! Quante comunità trascurano un mezzo cosi efficace per la loro edificazione! Molti preferiscono la «loro Messa» devozionale; altri guardano con diffidenza a queste celebrazioni comunitarie giudicandole troppo «dispersive» del raccoglimento.
    Segno che abbiamo perso il senso concreto delle cose.
    Per questo certe messe delle nostre comunità (non escluse quelle dei religiosi) assomigliano più ad un pasto consumato al ristorante che non ad un pasto familiare. Dalla disposizione «centrifuga» nell'aula, alle preghiere «sussurrate», alla mancanza dei canti... è una serie penosa di segni rivelatori di una comunità che non crede concretamente al mistero che essa sta realizzando.
    Il comportamento esterno è indice dell'atteggiamento interiore: la comunità cristiana che non vive intensamente la sua eucaristia, non è una comunità autentica, e non lo diventerà mai. Non valgono i discorsi e le esortazioni: ci vuole questa esperienza insostituibile, ci vuole questo «cemento di unità» che è l'eucaristia.
    Lo ricorda il Concilio: «non è possibile che si formi una comunità cristiana, se non avendo come radice e come cardine la celebrazione della S. Eucaristia, dalla quale quindi deve prendere le mosse qualsiasi educazione tendente a formare lo spirito di comunità» (P. O. n. 6).
    Se vogliamo che le nostre comunità cristiane (di educatori o di educandi) riacquistino il senso di vere famiglie, di cenacoli di spiritualità, poniamo tutte le nostre energie per fare sì che le loro celebrazioni liturgiche diventino lieta festa di famiglia che si ritrova nella «fractio panis». Allora diventeranno anche «segno» per coloro che stanno intorno, «vessillo innalzato sui popoli», «città posta sul monte»; quale appunto è la missione alla quale Dio le chiama per la salvezza del mondo.


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