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    Vittorio Gambino

    (NPG 1967-04-46)

    L'educatore si trova spesso a dover dirigere un gruppo di giovani. Le circostanze ve l'hanno guidato o forse lui stesso, vedendone l'utilità, l'ha fondato con non pochi sacrifici. Il suo desiderio è di diventare un buon leader e un miglior animatore del gruppo. La tentazione immediata sarebbe quella di voler incominciare con la lettura di opere psicologiche o sociologiche nello intento di trovarvi delle ricette facili e di pronta applicazione.
    Il problema invece nasce al livello della concezione teorica e pratica del gruppo considerato dal punto di vista catechistico e pastorale. Da questa conformazione nascerà il desiderio di perfezionamento e la ricerca di metodi e di tecniche che son propri di una scienza ancora giovane: la dinamica dei gruppi.

    I. CONSIDERAZIONE PASTORALE E CATECHISTICA

    1. Ispirazione catechistica

    Logicamente non prendiamo in considerazione i gruppi puramente ricreativi. In questo studio ci interessano soltanto quei gruppi che hanno un deciso orientamento catechistico, quei gruppi cioè che tendono a promuovere il dialogo e lo scambio per una migliore partecipazione al mistero salvifico di Cristo.
    Gruppi di giovani inquieti, insoddisfatti di una vita cristiana stagnante, senza grandi avventure e senza partecipazione attiva ai grandi problemi del mondo d'oggi.
    Ogni situazione critica nella vita di gruppo, ogni intervento del catechista, ogni metodo psicologico, dovrà essere valutato alla luce di questa finalità che essenzialmente non può essere psicologica, né sociologica, né puramente morale, ma religiosa e catechistica:
    «salvare» cioè le situazioni e le esperienze culturali che provocano problemi nel gruppo di giovani.
    L'educatore deve avere la persuasione cristiana che nel gruppo c'è una presenza viva oltre la sua: Là dove due o tre sono riuniti nel suo nome, Cristo è in mezzo a loro. Se si accordano tra di loro nelle loro richieste, essi otterranno tutto ciò che domanderanno al Padre dei cieli (M. 18, 19-20). La fede in questa presenza reale dì Cristo nel gruppo diminuisce le apprensioni del catechista a volte troppo ansioso per sopportare delle «responsabilità».

    2. Prospettive sbagliate

    Animare un gruppo, non significa direttamente:
    – voler dirigere spiritualmente i membri del gruppo, presi individualmente, anche se ciò possa fare in altri luoghi e in altre circostanze;
    – ottenere, fuori del gruppo, dei progressi psicologici o morali di questo o di quell'altro membro;
    – stabilire un prestigio autoritativo sul gruppo o su certi membri per influire poi sulle loro decisioni o programmazioni;
    – neppure voler tendere immediatamente alla santificazione dei membri del gruppo. t Dio che dà la fede e la santità. Il catechista prepara il terreno.

    3. Prospettiva catechistica

    L'animatore di un gruppo agisce sempre come educatore cristiano. Cioè non rifugge dal suo compito essenziale che è quello di dare la conoscenza della fede.
    Deve essere persuaso che la presentazione del cristianesimo con quegli aspetti di Cristo, che possono maggiormente favorire il maturarsi di una mentalità cristiana, contribuisce alla formazione e alla stabilità del gruppo.
    Il gruppo esiste e si sviluppa non per le attività sportive che può favorire, ma per le idee-forza che può dare. Queste creano la comunione e una reciproca esperienza religiosa e separano dagli altri che non condividono e non vivono la stessa dottrina.
    In definitiva lo scopo dell'insegnamento religioso è appunto quello di trasmettere
    un «contenuto sacro», essenziale, posseduto in comune. Certo non qualsiasi insegnamento religioso ha la stessa forza di integrazione al gruppo. Ossia non basta la presentazione di una qualsiasi dottrina fatta in qualsiasi modo per creare una coesione tra i membri del gruppo e impegnarli seriamente ad un agire cristiano. L'esperienza dei nostri oratori e associazioni ci dimostra che sono pochi i gruppi vivi, ben identificati alla comunità immediata, con decisa partecipazione interpersonale alla vita di gruppo.
    La ragione fondamentale della differenza tra un gruppo e l'altro, tra una partecipazione positiva e negativa dipende dalla concezione che si ha dell'insegnamento religioso fatto ai giovani.
    Un insegnamento religioso accademico, contenutisticamente ben strutturato, ma che formi una specie di «sapienza» religiosa non integrata al loro sistema di valori e legata a forme durevoli di comportamento globale, non può condurre ad un'appartenenza religiosa significativa.
    Allport, psicologo americano che da parecchi anni sta studiando i problemi della personalità, è convinto che un insegnamento religioso ben articolato e in connessione con valori della personalità del giovane riesce a impregnare la struttura della personalità e a unificare tutti i valori. «L'appartenenza religiosa – ci dice – non sarà psicologicamente significativa e durabile che a patto d'integrarsi armoniosamente al sistema di valori della personalità».
    In sostanza la nostra concezione della finalità della catechesi è ispirata dal punto dì vista teologico da una preoccupazione di salvezza delle anime molto concreta e, da un punto di vista psicologico, dalla convinzione che la vera conoscenza della fede, che più effettivamente serve la vita di fede, è quella articolata nel modo di sintesi organica tra dottrina cristiana e vita vissuta.
    Siamo qui sulla linea così realistica descritta da Paolo VI nel discorso ai laureati cattolici (4 gennaio 1964). Paolo VI proponeva ai laici di operare nella loro coscienza una vera sintesi tra gli aspetti oggettivi dell'ordine soprannaturale e quelli soggettivi.
    Il contenuto dottrinale da spiegare che può unificare i vari livelli di comportamento non può essere solamente un contenuto dottrinale che abbia con la preesistente cultura laica un rapporto puramente precettistico o moraleggiante. L'insegnamento della religione dovrà badare a formare una coscienza che corrisponda a quella «partecipazione simultanea a due società distinte», descritte da Paolo VI.
    Qui si vede come l'appartenenza religiosa non sarà psicologicamente significativa e durabile se non si integra armoniosamente nel sistema dí valori della personalità, in un processo di omogeneità e di continuità. La trasmissione del messaggio religioso non costituisce che un aspetto dell'educazione spirituale dei giovani. Il sapere religioso non condurrà ad un atteggiamento comprensivo e stabile se non riesce a unificare progressivamente tutti i livelli di comportamento.
    Il compito del catechista consiste giustamente nel saper far scendere al livello della personalità completa dei giovani i valori religiosi in modo che essi possano essere assunti e valorizzati.
    Il fatto che Lutero nel XVI secolo abbia avuto immediatamente un esito notevole tra i popoli tedeschi spiegherebbe come il contenuto del suo messaggio religioso si sia incontrato adeguatamente con un quadro sociale nel quale ha potuto inserirsi. Ciò non significa che il catechista debba cambiare il contenuto di ciò che spiega, ma che deve tener conto delle particolarità culturali proprie di ciascuno gruppo.

    4. Cogliere gli atteggiamenti del gruppo

    Si è segnalato ultimamente in diversi studi il caso di un missionario cappuccino, Girolamo Merolla di Sorrento, che predicò nel Congo sulla fine del XVII secolo. Questi, volendo aiutare i suoi confratelli missionari nel difficile compito dell'insegnamento religioso, scrisse una circolare con alcune norme catechistiche.
    Su una colonna descrisse gli «abusi», ossia i tratti culturali, le pratiche e gli atteggiamenti degli indigeni. Su un'altra colonna esprimeva le «riflessioni» e le «decisioni pratiche» da prendersi da ciascun missionario.
    Il metodo del cappuccino rivelava una decisa volontà di voler conservare e integrare, nella formazione religiosa, i valori e i costumi della popolazione da convertire. A parte ciò che non potrà giammai essere assimilato dalla morale cristiana, è interessante costatare lo sforzo riorientare la preesistente cultura di questi negri, con un lento lavoro di sostituzione. Gli esempi riportati si riferiscono a delle società e gruppi relativamente semplici, ma ci permettono di cogliere, nelle grandi linee, l'importanza e il rispetto che il catechista deve sempre avere per i tratti culturali anteriori.
    Di qui possiamo cogliere alcune conseguenze per la nostra azione catechistica:
    – la vera partecipazione religiosa dei giovani non è una semplice categoria della azione, una categoria pragmatica;

    – la partecipazione è maggiormente impegnata nella misura che vi è una partecipazione di tutta la personalità in cui vengono soddisfatti tutti i bisogni profondi della personalità del giovane. Quanto più profondo è l'inserimento di un individuo a un gruppo, tanto più la sua religiosità s'arricchisce profondamente e si ritrova rafforzata. Nel metodo del catecumenato francese il neo convertito non è lasciato solo a vivere il suo incontro con Dio, ma viene inserito nel gruppo dove la sua esperienza religiosa ha l'occasione di acquistare di profondità.
    Allport ci dice che una personalità armoniosa esige una partecipazione effettiva ai seguenti sistemi di valori: politici, familiari, culturali e ricreativi, economici e religiosi.
    La partecipazione ci riporta in definitiva ai valori fondamentali che motivano le adesioni degli individui alle comunità umane.
    L'attenzione dell'educatore deve perciò dirigersi in modo essenziale verso il gruppo, come punto di incontro tra i valori culturali e i valori soprannaturali da inserire. Vi è perciò un'attenzione psicologica (comprensione della vita del gruppo e delle interazioni tra i membri), una funzione catechistica (rivelare nelle situazioni vissute l'Incarnazione, la Pasqua, la Pentecoste, la Parusia cioè l'intervento di Dio per «salvare» la situazione e inserirla nel corso della sua storia), una funzione di mediazione religiosa (testimoniare la presenza e l'opera dello Spirito Santo). Il chiaro riconoscimento della diversità di queste funzioni e di questi ruoli costituisce un passo serio verso la soluzione della maggior parte delle difficoltà.

    II. NEL MEZZO DEL GRUPPO

    1. L'educatore animatore del gruppo

    Si è detto che non basta che l'educatore faccia delle belle conferenze o lezioni dottrinali perché il clima di coesione del gruppo si rafforzi e aumenti la partecipazione religiosa. Non basta neppure che i membri siano spronati ad uno stesso sforzo comune di amore, di generosità o di favore.
    È necessario che essi possano comunicare tra loro, comprendendosi ed accettarsi in un dialogo comune autentico, in breve: formare un gruppo adulto.
    Supponiamo di avere un gruppo primario con stretti rapporti di affetto tra i membri che lo compongono. L'educatore in mezzo a loro ha il chiaro obbligo di suscitare o di rafforzare:
    a) La coesione del gruppo strutturato in base a vari ruoli funzionali: presidente del gruppo, segretario, esperto ecc.;
    b) la comunicazione tra i vari membri percepita con il minimo di equivoci, in modo chiaro, funzionale, senza risentimenti, con piena e completa fiducia reciproca;
    c) l'accettazione degli atteggiamenti personali, non solo sul piano intellettivo o razionale, ma pure su quello affettivo;
    d) un dialogo che sia allo stesso tempo oggettivo (aspetti intellettuali del gruppo, dei temi o delle discussioni) e tenendo conto dei bisogni affettivi dei soggetti che compongono il gruppo.
    Nell'equilibrio tra il compito intellettuale da svolgere (discussione di una situazione umana) e i bisogni dei membri da tener presente, si caratterizza il gruppo di discussione primario, ben distinto da altri gruppi chiamati «secondari», di poca coesione tra loro.
    Nel primo caso il gruppo è vivo, l'identificazione alla comunità è facilitata, la partecipazione è favorita da relazioni impersonali, l'appartenenza religiosa si colora del contenuto e delle caratteristiche del gruppo.
    Dal punto di vista catechistico il gruppo può presentare facilmente le seguenti motivazioni:
    a) una perfetta ortodossia nella fede e una tendenza costante a pensare e a giudicare le situazioni come il gruppo di fede;
    b) l'aspetto religioso, di fede che riassume e informa gli altri valori, operando una vera sintesi tra le appartenenze alle due società;
    c) il comportamento esterno e i giudizi di valore che riflettono il pensiero del gruppo e si trovano rafforzati da esso;
    d) universalismo di dialogo ridotto al gruppo, non aperto agli altri.

    2. Servizio di dialogo

    Il dialogo tuttavia non si improvvisa: occorre certamente qualcosa da dire, ma occorre pure saper dialogare. Uu gruppo deve imparare progressivamente a discutere e a comunicare in tal modo che gli equivoci, le interferenze e i malintesi si riducano a poco a poco al minimo.
    L'animatore del gruppo, deve favorire quei temi di discussione e quegli scambi di idee che emanano dallo stesso gruppo; in genere il catechista tende a rimanere silenzioso, attento solo alle domande che vengono fatte, alle risposte che deve dare.
    Il suo compito invece è quello di chiarire il dialogo, quando ne è capace, dando il suo aiuto in diverse maniere:
    – ripetere correttamente l'esposto o la situazione esistenziale presentata. In genere deve cercare che la vera situazione da giudicare o analizzare sia ben staccata da elementi estranei che non interessano alla discussione;
    – chiarire una parola o una frase ambigua – mostrando per esempio che essa può avere due o tre sensi, tra i quali l'autore dell'intervento potrà scegliere;
    – far sapere che tal membro ha qualcosa da dire, un'esperienza personale da presentare, o qualcosa di intelligente da far osservare;
    – sottolineare un'osservazione o un rilievo opportuno. Metterla magari in relazione con la persona e l'azione di Gesù in una continua ricapitolazione.
    In questa continua attenzione al dialogo dei suoi giovani il catechista si fa servitore del dialogo, rispettando com'è ovvio il tempo di progressione e di maturazione del gruppo. Nella maggior parte dei gruppi ben incamminati, questa parte di chiarificazione è fatta dagli stessi giovani che intervengono nel dialogo per facilitare o chiarire gli interscambi.
    L'educatore dovrà fare attenzione che la sua azione non irrigidisca il dialogo dei giovani o addirittura lo impoverisca con i suoi interventi troppo chiusi, poco comprensivi e adeguati alla mentalità giovanile. Un gruppo sa dialogare quando corre facilmente tra membro e membro e tra i membri e il gruppo un sincero rispetto della persona.
    Una tentazione da evitare sarebbe quella di voler accettare continuamente il ruolo di competente o di esperto rispondendo benevolmente ad ogni domanda che gli viene posta. In questa maniera il gruppo-s'indirizzerà più facilmente al catechista animatore ed eviterà di approfondire per se stesso la situazione o il problema.
    Due metodi possono favorire o accelerare la comunicazione delle idee:
    a) partire da un fatto o da un testo ben chiaro, articolato con altri fatti di loro conoscenza.
    Deve tener conto degli interessi coscienti o inconsci dei giovani ed essere sempre in funzione di un valore ricercato come tale dal gruppo;
    b) suscitare dei momenti di discussione in piccoli sottogruppi organizzati lì per lì e spontaneamente nella sessione.
    Questo presenta il vantaggio di far intervenire degli individui che altrimenti in gruppi grandi non prenderebbero mai la parola.

    3. Ostacoli effettivi al dialogo e alla comunicazione

    L'educatore non ha solo il compito di rendere effettiva nelle grandi linee la rete di comunicazione nel gruppo. Ma pure quello di far attenzione a quei membri che per una reazione di ripresa hanno paura di partecipare alla conversazione. Gli psicologi hanno messo in rilievo i seguenti ostacoli a uno scambio normale:
    a) sentimento di inferiorità reale dovuto a una minore preparazione culturale, oppure sentimento morboso;
    b) impressione di essere giudicato, valutato, attaccato, rigettato dal gruppo, o dall'animatore, o da certi membri;
    c) reazione interiore agli interventi autoritativi: passività o rivolta critica;
    d) indifferenza o relativa incapacità dí percepire le reazioni degli altri.
    Questi ostacoli possono essere superati purché l'educatore li sappia far riconoscere agli interessati, accettare e superare con pazienza e perseveranza. L'errore più frequente dei catechisti consiste nel rivolgere l'attenzione esclusivamente al contenuto della discussione, senza far attenzione ai sentimenti provati dai membri. Uno sguardo attento, una domanda opportuna o un incoraggiamento possono aiutare anche í più ritrosi.
    Il lavoro di reintegrazione nel dialogo e comunicazione del gruppo può essere fortemente aiutato o accelerato con l'uso di una tecnica o questionario, chiamata dagli psicologi americani feed-back o «onda ritorno». Il questionario rivela chiaramente al catechista e al soggetto la realtà affettiva provata durante la riunione.
    Ecco, a titolo d'esempio, alcune domande... che si possono fare nel questionario.
    – Che pensi della riunione appena terminata?
    a) cattiva; b) mediocre; c) soddisfacente; d) buona; e) eccellente.
    – In questa riunione, hai provato desiderio di parlare senza poterlo fare:
    a) sovente; b) qualche volta; c) mai.
    – Quando hai parlato, hai avuto l'impressione generale d'essere:
    a) ascoltato; b) compreso; c) accettato; d) ignorato; e) mal compreso; f) giudicato.
    – Come vedi, per la prossima volta, l'impostazione della riunione?
    a) aggressivo; b) inibito; c) disteso; d) caloroso.
    Altre domande o riflessioni potranno essere fatte dall'educatore secondo i casi. t molto importante che il questionario non venga applicato sovente, ma qualche volta per aiutare l'educatore a conoscete meglio i membri del gruppo e aiutarli ad una partecipazione sempre più cordiale e affettuosa.
    Il dialogo non è infatti un punto di partenza; ma un traguardo al quale si arriva con molta discrezione, tatto psicologico e amore ai giovani. Esso non si limita ad una rete di incontri con i membri del gruppo, ma si prepara nell'incontro con i compagni ad incontrare i fratelli lontani.


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