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    Fare gruppo è fare chiesa



    Il perché di tanto insistere sull'associazionismo

    (NPG 1967-02-30)

     

    Nel Documento sulla «comunità educativa degli Oratori» si fa insistenza sull'associazionismo come espressione di una profonda esperienza ecclesiale. Ecco qui un articolo psico-sociologico e pastorale che, potete star certi, non da alcuna soluzione miracolistica, ma ci permette di riflettere.

    1. L'associazionismo è di moda

    Si pensa sia la moda: oggi tutti parlano di dinamica di gruppo, di piccoli gruppi, di socializzazione intensificata, ecc. ecc. e allora anche la gente di Chiesa ripete ai propri parroci, agli educatori, ai pastori d'anime lo stesso discorso: le associazioni, il far collaborare i ragazzi, ecc.
    La parola moda è un po' un dispregiativo. Un certo linguaggio conciliare preferisce parlare di «segno dei tempi». È segno cioè che la storia oggi va vissuta così, che nel piano provvidenziale oggi l'accento va posto sull'associazionismo in tutti i campi e con le particolari sfumature della civiltà contemporanea. Perché la Chiesa accoglie i segni dei tempi? crede che il Creatore lo vuole, essendoci parte in causa, e il Redentore intende assumerli prolungando l'incarnazione del divino nell'umano.
    Ma vi è evidentemente un certo modo di far propri gli schemi della società contemporanea: un modo che li salvi e non li peggiori o li lasci tali e quali, malati come sono per il peccato.
    Ora qui si apre una discussione: in che modo la Chiesa assume la moda di «fare gruppo»? La risposta che vogliamo ora spiegare è la seguente: in modo che fare gruppo sia fare Chiesa. L'espressione si chiarirà col procedere del discorso e come primo passo è bene chiarire i termini della questione.

    2. Sociologia, teologia = due discorsi paralleli?

    I termini della questione sono da una parte i sociologi, che parlano di «fare gruppo» e dall'altra i teologi che parlano di «fare Chiesa».
    Il discorso dei sociologi è, come abbiamo detto, sollevato dall'attualità della tecnica dei gruppi e avallato dal fatto che la pastorale conciliare intende assumere in pieno questa tecnica.
    Il discorso dei teologi, l'ammonizione a «fare Chiesa», è prodotto dal grande accento posto sulla Chiesa di tutto il Concilio: nuova partecipazione, nuovo impegno dei laici, nuova scoperta del popolo di Dio, della parrocchia, ecc. Fare Chiesa diventa la logica conclusione dei discorsi sui sacramenti e sulla S. Messa, visti più intensamente nella loro dimensione comunitaria; dei discorsi sulla Chiesa stessa, sul suo impegno nel mondo, la sua struttura interna, la sua vitalità parrocchiale e diocesana. Fare Chiesa significa da una parte aumentare negli individui la coscienza di appartenere al popolo di Dio e dall'altra tradurre questa coscienza in strutture visibili e funzionanti. Capita a questo punto che i teologi aprano i libri dei sociologi, ma, per un curioso errore di prospettiva, senza rendersi conto di star facendo dell'associazionismo. Le norme sociologiche vengono subito inquadrate nella prospettiva teologica a costo di deformazioni, decurtazioni fatali, utilizzazioni sfasate, come se l'umano, diventando divino dovesse in parte cessare di essere vero umano.
    In conclusione coloro che lavorano a fare Chiesa non si rendono conto in modo chiaro di star facendo qualcosa che i sociologi chiamano fare gruppo.
    Il discorso dei sociologi ritrova la stessa miopia: coloro che lavorano a fare gruppo in ambienti educativi cristiani non si rendono esplicitamente conto di lavorare a fare Chiesa. Le motivazioni che essi tengono presenti per realizzare le loro iniziative, atte a sfruttare la dinamica di gruppo, non presentano di solito contenuti ecclesiologici. I due lavori si svolgono paralleli e sovente ignorandosi reciprocamente: i giovani sono animati a formare gruppi nelle associazioni, nelle classi; nello stesso tempo gli stessi giovani sono sollecitati a vivere la loro appartenenza alla Chiesa nelle assemblee liturgiche, nelle iniziative parrocchiali, ma anche quando lo stesso individuo porta avanti i due discorsi, avviene che non ne verifichi egli stesso la convergenza e l'unione.
    I risultati sono questi: chi lavora a fare Chiesa manca spesso di tecniche precise ed efficaci; chi lavora a fare gruppo è staccato dalle motivazioni pastorali che pur all'inizio lo hanno sollecitato.

    3. Perché fare gruppo è fare chiesa

    Cominciamo da uno dei due termini della questione: coloro che mossi da diversi motivi operano a fare gruppo. Essi adottano le tecniche della dinamica di gruppo per trasformare ad esempio l'insieme degli alunni di una classe in un gruppo affiatato, di forte coerenza interna, di alto grado di coesione e di intensa vita sociale (determinazione dei ruoli, intensità di rapporti interpersonali, facili interazioni). Ugualmente essi lavorano per trasformare il gruppo degli appartenenti ad un oratorio, ad un collegio in un gruppo ben formato, con la relativa suddivisione interna in sottogruppi (né più né meno dei necessari), con il giusto favorire, servire e parzialmente dirigere la spontaneità del processo associativo, ecc.
    Tutto questo essi fanno per il bene delle anime, poiché il gruppo ben formato favorisce lo sviluppo di ogni individuo e prepara personalità più formate a servizio del Regno di Dio. Quindi una remota motivazione teologica ed ecclesiale esiste. Ciò che verifichiamo dolorosamente è che questi operatori sociali non pensano di costruire la Chiesa, più precisamente non chiamano vita di Chiesa, chiesa più viva e visibile, manifestazione del popolo di Dio i frutti della loro opera. Di conseguenza quando animano i ragazzi affinché si impegnino nella vita di gruppo non accennano mai a motivazioni ecclesiali. È vero che non è opportuno per buona parte del processo di sviluppo del gruppo che si esplicitino questi motivi ecclesiali, ma è anche vero che quando il gruppo è giunto ad un livello importante è giusto che essi prendano coscienza di realizzare sempre più la Chiesa, come ora spieghiamo.
    Inoltre tutto lo sviluppo, provocato dall'animatore di gruppo, sarà ben diretto e finirà con lo sfociare in vere esperienze di Chiesa, se egli, l'animatore, ha chiaro in mente l'innestarsi dei dinamismi psicosociologici nel mistero della Chiesa, come ha chiaro in mente il rapporto dei segni sacramentali con la realtà divina che contengono e producono.

    a) Il gruppo come segno vivo della carità della Chiesa

    Veniamo ora al primo punto dove le tematiche teologiche della ecclesiologia e le realtà psicosociali di un gruppo si incontrano. È un primo punto in senso di valore: è il punto centrale e genetico di tutto il resto. Si tratta del valore «amore», che troviamo indubbiamente tra gli elementi centrali della natura stessa della Chiesa e ugualmente troviamo nelle realizzazioni di ogni vero gruppo, che è tale  -  soprattutto nel senso di gruppo [1] - solo se si verifica un crescente rapporto di amicizia tra le persone associate.
    La Gaudium et Spes ritrova su un piano più dottrinale questa continuità tra Chiesa e comunità, tra dinamiche che fanno Chiesa e dinamiche che fanno comunità tra gli uomini. Perché non viene abitualmente avvertita questa continuità? Perché si è poco abituati a concepire la Chiesa prima di tutto come comunità di «coloro che si amano». Il volersi bene è sentito come un dovere degli appartenenti al popolo di Dio, ma quando il volersi bene si realizza in una qualche struttura non si pensa a chiamare «chiesa» oppure «opera di chiesa», «esperienza di chiesa» questa realizzazione. L'obbedienza ai pastori, le opere di culto, la catechesi: queste sono le strutture abituali dove familiarmente sentiamo di dover dire «chiesa». Ma una qualsiasi riunione dove si sviluppi, si viva l'amicizia, l'affetto reciproco, se non è carità materiale (dame di S. Vincenzo in visita ai poveri) non fa pensare alla chiesa.
    Eppure vi è una teologia ben esplicita al riguardo: quella del «Praesidens caritatis» di S. Ignazio martire, della «caritas» come appellativo per chiamare l'assemblea (S. Agostino), quella giovannea del «se non vi amate l'un l'altro non sarete miei discepoli», quella di Matteo 11: «lascia lì l'offerta e va prima a riconciliarti con il fratello», dove vi è anche accennato un ordine tra comunità di amicizia e comunità di culto; quella dell'«ubi caritas et amor, ibi Deus est»; quella dell'amore, come caratteristica della socializzazione ecclesiale secondo Paolo VI.
    Di conseguenza ogni azione che sviluppi l'unione fraterna tra gli uomini, il condividere qualcosa in clima di amicizia, fosse anche condividere una esperienza sportiva, quando l'elemento amicizia diventa cosciente e determinante, dobbiamo dire che lì si fa chiesa. Lasciamo stare se è in modo implicato o meno, se in modo incoativo o meno. L'importante è che all'idea di calda amicizia, vissuta fraternamente, si associ l'idea della Chiesa.
    Questa associazione di idee diventa più facile se prospettiamo le cose in termini di sacramento. Allora ogni amicizia vissuta in gruppo diventa manifestazione, estrinsecazione, segno vivo della misteriosa realtà del popolo di Dio. E questo nelle due direzioni: come espressione della invisibile realtà dell'unico popolo di Dio e come realizzazione progressiva di questa realtà: dovunque cresce l'amicizia tra uomini, cresce la Chiesa. Allora per un giovane comincia ad avere senso concreto, sperimentabile, realizzabile il dire «io appartengo alla Chiesa», «fare chiesa», «fare esperienza di chiesa». Qui il discorso prima era solo nella mente dell'animatore di gruppo, poi implicito nel realizzarsi del gruppo di amici e poi, in qualche fortunato momento, di colpo esplicita coscienza e quindi esperienza nella mente dei partecipanti al gruppo.

    b) Il gruppo come sostegno della catechesi

    Le ultime righe precedenti aprono un altro discorso: quello del come il fare gruppo fa coscienza di Chiesa, cioè aiuta la catechesi sulla Chiesa Terstenjak è tra coloro che meglio hanno intuito come sia utile alla catechesi il fatto che il catechista trasformi la classe di catechismo in una comunione di amici. Oltre alla forza persuasiva che acquistano le idee discusse in un gruppo cosi affiatato, abbiamo nella classe stessa la similitudine viva per capire i vari nomi con cui la Lumen Gentium chiama la Chiesa: popolo di Dio, regno di Dio, ecc.
    Questo deriva dai frutti dell'amicizia in un gruppo. Se un gruppo è animato dall'amicizia, si sviluppano esperienze progressive negli appartenenti: la solidarietà di destini, l'unità nei valori comuni, il raccogliersi attorno ad un capo, l'avere la stessa storia, le stesse gioie e gli stessi dolori, il camminare insieme verso una meta, il fare insieme dei gesti significativi, ecc. Ciascuna di queste esperienze può rendere pieno di significato un nome con cui chiamiamo la Chiesa. Il discorso sarà sempre riportato sulle immense proporzioni del popolo di Dio, ma inizierà da una esperienza viva, comprensibile, significativa ed attraente. Chi sa che cosa sia sentirsi parte di un gruppo di amici, capisce che cosa è essere parte del popolo di Dio. La trasposizione è molto facilitata, purché si evitino certi pericoli di chiusura del gruppo in schemi «settari». Anche in questo senso dunque il fare gruppo è fare Chiesa: preparare esperienze di chiesa, renderle comprensibili e dense di valore.

    c) Esperienze pratiche

    L'esperienza più grande al riguardo è data dalla Gioventù studentesca di Don Giussani. In essa la dinamica di gruppo è utilizzata nelle forme più efficaci ed i frutti, soprattutto quello di una potente coesione dei partecipanti, sono esemplari. Ma i dirigenti, che guidati dall'intuizione hanno saputo cosi bene manipolare le energie che si sprigionano in un gruppo umano, pensano tanto esplicitamente di fare chiesa da giungere all'opposto: essi non ritengono affatto di far gruppo, ma di fare Chiesa; non pensano di utilizzare le leggi sociologiche, ma di obbedire alle dinamiche della Chiesa portandole alla loro realizzazione.
    Qualcosa da riordinare è scontato in questa impostazione, ma ci sembra importante notare la facilità con cui il far gruppo è diventato alla coscienza di tutti un fare chiesa. Ciò garantisce una nuova vitalità alle dinamiche di gruppo, poiché tutte le forti motivazioni ecclesiali (partecipazione alla storia, alla comunità, ai destini divini) sostanziano di sé le tensioni feconde, prodotte entro il gruppo, le rinvigoriscono, le ampliano, le maturano. Quando sarà il momento di immettere nella coscienza dei partecipanti alla formazione del gruppo di amici le motivazioni ecclesiali? Toccherà all'intuizione dell'animatore di gruppo scoprirlo. Sarà probabilmente quando le comuni riflessioni sull'amicizia porteranno i soci a chiedersi quale sia la radice e la meta di questa forza cosi valida. L'esperienza olandese vede verificarsi questa scoperta dopo i due terzi di vita del gruppo in sviluppo, ma occorreranno evidentemente esperienze vive al riguardo.
    L'importante per l'animatore del gruppo è sapere che se ad un certo punto egli non immette nel gruppo questa coscienza di star facendo Chiesa e quindi di partecipare a tutto il mistero cosmico della Chiesa, egli frustra lo scopo della sua azione, che era la maturazione del cristianesimo, frustra anche il finis operis del gruppo, poiché come meravigliosamente ha detto
    la Gaudium et Spes: «la società umana è destinata a trasformarsi in famiglia di Dio». E questo logico sviluppo del gruppo da comunità di uomini a comunità di persone a comunità di santi non è solo un atto di fede, ma anche la indicazione di molti grandi sociologi come il Mensching, il Wach, ecc. anche se essi si riferiscono solo ad una religiosità naturale.

    4. Perché fare Chiesa è fare gruppo

    Veniamo ora al discorso dei teologi. Prendiamo delle situazioni precise: il parroco immette nella Chiesa un nuovo battezzato: pensiamo ad un adulto per comodità. Egli sa che ontologicamente parlando quel nuovo cristiano è parte della famiglia dei credenti. Ora questo basta a fare Chiesa? Se questa reale, appartenenza alla famiglia di Dio rimane solo ontologica, non diventa visibile, sensibile, esperimentata ed esperimentabile, abbiamo la Chiesa, quella di Gesù Cristo? Tutti diciamo di no. Quindi quel parroco potrà dire di «fare Chiesa» solo se oltre all'amministrazione del battesimo a quell'adulto, pensa ad un suo concreto inserimento in una comunità, dove la «famiglia» di Dio sia toccata, sperimentata, sentita e goduta. Qui il punto cruciale della questione è quello dell'esperienza, proprio come per i sacramenti: il pane, l'acqua, l'olio dovranno essere sperimentati perché ci sia sacramento; ugualmente la Chiesa deve essere sperimentata, cioè messa alla portata dell'individuo, una chiesa su misura, dove il soggetto possa toccare con mano il segno comunitario del Popolo di Dio. Un altro caso potrebbe essere quello della assemblea liturgica: essa è una comunità portata alla massima espressione. Ora una cosciente comunione di preghiera non spunta improvvisamente con l'adunarsi di anonimi battezzati, ma sorge autentica da una precedente comunità di amicizia, di fraternità non solo detta e letta, ma vissuta e almeno tentata con mille iniziative. Questa Chiesa, raccolta attorno all'altare, non è cosciente e autentica se prima non è stata maturata da molte esperienze di comunità fraterna tra i compagni di fede.
    Gli esempi si potrebbero moltiplicare: in sostanza la Chiesa è, proprio nella descrizione dei documenti conciliari, prima di tutto un popolo coscientemente unito nell'unità di intenti, di destini, di credenze, ma un'unità personale, dove non si è raccolti come soldati di uno stesso duce, ma come fratelli, figli di una famiglia. Ora questo «dogma» lo si crede con un atto di fede, ma non lo si vive senza specie sacramentali, senza cioè esperienze concrete, visibili, vissute, che siano del genere stesso dell'oggetto in questione: se si tratta di comunità, non il pane, non il vino, saranno i segni, ma esperienze comunitarie. E siccome si tratta di comunità di amore, occorreranno esperienze corrispondenti, cioè esperienze di amicizia, di famiglia.
    Queste esperienze si possono fare attraverso l'ascolto di una bellissima predica sulla chiesa? attraverso un cantare insieme in un grande congresso eucaristico? No: queste sono tutte materie invalide, diremmo, per questo «sacramento». L'unica materia valida è qui una esperienza comunitaria, dove i legami di amicizia siano sentiti e vissuti. Si giunge così al bisogno di pianificare la suddivisione dell'immenso popolo di Dio in gruppi, adatti a far fare a ciascuno l'esperienza della famiglia, dell'amicizia.
    Da queste considerazioni abbiamo dunque tratto questo principio pratico: non si fa chiesa se non si fa gruppo, proprio come non si fa sacramento se non si fa gruppo, proprio come non si fa sacramento se non c'è la materia sensibile del segno.

    5. La Chiesa cellulare

    Nasce ora il problema pratico: le dimensioni dei gruppetti in cui bisogna suddividere l'insieme dei credenti, affinché sia tangibile da ciascuno il segno sacramentale della comunità di fratelli in Cristo.
    P. Pin, P. Carrier, P. Fichter hanno fatto studi sulle dimensioni numeriche ideali di una parrocchia, ad esempio, intendendo ideali proprio quelle in cui le esperienze dei segni ecclesiali sono possibili.
    Ma qui occorre riconoscere una certa complessità nelle soluzioni: il fare esperienza di Chiesa vuole da una parte la partecipazione a masse (l'insieme dei parrocchiani alla Messa, l'insieme dei diocesani in un pellegrinaggio, l'insieme dei correligionari in un congresso eucaristico internazionale) e dall'altra l'appartenenza a gruppi dove i rapporti di amicizia, il riconoscersi come fratelli, siano possibili. Entriamo allora nella vastissima problematica dei piccoli gruppi.
    Qui è interessante vedere come si completano insieme i discorsi dei teologi e quelli dei sociologi: entrambi indispensabili. L'analogia con i sette sacramenti è di nuovo utile: come tocca ai teologi stabilire che materia valida per l'eucaristia sia il pane e tocca allora all'esperto dire quando c'è pane e quando no, così nel nostro caso tocca ai teologi definire che il segno valido della Chiesa è un gruppo dove sia possibile vivere in amicizia ed allora tocca ai sociologi indicare quando un gruppo è un gruppo di amici e quando no. È un caso lampante di necessaria collaborazione tra esperti in teologia ed esperti in materie profane.
    E possiamo già giungere alle conclusioni del discorso dei sociologi: la Chiesa se vuole garantire al maggior numero possibile dei suoi figli la possibilità di fare esperienza di chiesa, cioè di sperimentare il segno della comunità di fratelli, dovrà ramificarsi come le vene e le arterie fino a tanti piccoli gruppi: sarà una chiesa strutturata a cellule.
    Facilmente il termine è antipatico per ragioni storiche, ma è espressivo. Lasciamolo pure, ma ricordiamo la sostanza: la parrocchia, il collegio, ogni massa più o meno organizzata di credenti deve strutturarsi in tante cellule funzionanti e la sua vitalità sarà la somma delle vitalità delle cellule in se stesse.
    E siamo giunti ad aprire tutta la letteratura dei piccoli gruppi; funzionamento, strutturazione, pericoli di settarismo da evitare, uniformità di contenuti e differenze di metodi, ecc. Il discorso è aperto: l'importante è aver assimilato una volta per sempre questa legge ecclesiale o non si è nella Chiesa se non si fa esperienza di essa; i segni visibili, sperimentabili della Chiesa sono i gruppi di amicizia.
    Alcune conseguenze pratiche:

    1) i motivi umani con cui sorge e si rafforza un gruppo di amici possono essere svariatissimi. Ciò giustifica la pluralità e la diversità di associazioni nella Chiesa. Purché non siano settarie - il che renderebbe il segno non significativo di amore e quindi invalido - esse sono tutte utili vi è certamente un limite, indicato dai sociologi, nell'ammettere questa varietà, proprio perché ogni esagerazione deforma.

    2) Ogni gruppo secondario, cioè sorto per la spinta di interessi simili tra vari individui e non di amicizia, deve diventare un gruppo primario, cioè prevalentemente tenuto insieme dall'affetto, dall'amicizia tra i soci, pur con la portante degli interessi (hobbies, arte, studio, apostolato, ecc.). La Chiesa, si è già detto, deve diventare un gruppo primario, per essere il gruppo dei discepoli di Cristo.

    3) l'atteggiamento abituale di un professore verso la sua classe, di un direttore verso il suo oratorio o collegio dove di conseguenza essere il seguente: come strutturerò questa massa in tanti gruppi di amici? la vitalità della comunità sarà la somma delle vitalità e del calore dei vari gruppi.

    NOTE

    [1] Per gruppo primario si intende un gruppo di individui, tenuto insieme prima di tutto dall'affetto reciproco (amicizia, stima per la persona, benevolenza) e poi da un qualche interesse convergente. Gruppo secondario è quello tenuto insieme da interessi, che ciascuno non potrebbe soddisfare senza il gruppo, senza giungere inevitabilmente a rapporti di amicizia e benevolenza. La Chiesa è vista da alcuni come gruppo secondario, ma deve tendere a essere formata da moltissimi gruppi primari (necessariamente piccoli): Vedi Carrier, Psicosociologia dell'appartenenza religiosa, Torino, LDC, 1965, capitolo 8. La validità della primarietà è pacifica: Herrera trasformava la sua squadra in un gruppo primario e la squadra funzionava meglio.

     

     


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