Esperienza di un prolungato incontro con la Parola
Mons. Michele Pellegrino, Arcivescovo di Torino
(NPG 1967-04-63)
L'esperienza di un prolungato ministero della Parola è questa.
Non parlare «ai giovani», ma parlare «con i giovani». È un po' diverso.
Noi siamo tutti abituati a parlare «a», siamo poco abituati a parlare «con».
Ora io credo che i giovani preferiscano che parliamo «con» loro, anziché parlare solamente «a» loro.
1. Cosa dire quando si parla con i giovani
Vorrei dire anzitutto: evitiamo, scartiamo a priori l'illusione che i giovani, anche quelli del 1967, desiderino, quando parliamo con loro, che trattiamo argomenti peregrini, che diciamo cose inaudite, che evitiamo di dire cose che puzzano di sacrestia. Ricordo l'esperienza fatta in altri ambienti particolarmente fra colleghi universitari.
«Alle volte – mi dicevano – viene un sacerdote a parlare, e crede di fare della letteratura o della chimica o della matematica... Ma queste cose dobbiamo saperle noi! I preti ci devono parlare di Cristo, ci devono parlare di teologia!».
Ricordo il giudizio di alcuni giovani di una Associazione sul loro vicecurato:
«Quando si parla di motori andiamo benissimo: si infervora ed ha tante cose da dire. Quando cominciamo a parlare di direzione spirituale non sa proprio più cosa dire». E non erano contenti, perchè di motori se ne intendevano abbastanza anche loro.
Cari Confratelli, siamo preti! È la prima ragione essenziale per cui noi dobbiamo parlare da preti e dobbiamo dire le cose di cui i preti si intendono o dovrebbero intendersi.
Un'altra ragione per cui non è consigliabile, generalmente, quando parliamo con i giovani, andare a cercare il can per l'aia e trattare, come dicevo, argomenti peregrini e straordinari, un'altra ragione è questa: non siamo più nel mondo di 40 anni fa, quando il giovane studiava qualcosa a scuola e leggeva pochissimo. Oggi il giovane sente e vede molte cose, ed è difficile che noi preti fuori del nostro campo gli possiamo dire qualche cosa di nuovo e di più interessante. Se voi ci riuscite, beati voi!
Invece che cosa attendono i giovani? Ricordo spesso una frase di s. Ilario di Poitiers che noi preti vecchi leggevamo una volta nel breviario: «Gli apostoli, i predicatori della parola divina sono "aeternitatis veluti satores"». Per me è grande questa espressione, questa visione del ministero della parola: «Seminatore di eternità». Siamo chiamati a seminare eternità. E i giovani attendono da noi la parola eterna. Posso dirvi questo: non fermatevi troppo presto alle apparenze. Non giudicate superficialmente i giovani . solo dopo che avete scambiato quattro parole, parlando superficialmente anche voi. No! Spesso i giovani hanno delle esigenze assai più profonde di quello che non appaia a prima vista. Del resto, voi lo sapete, in fatto di religione e in fatto di amore è ben difficile che il giovane si confessi al primo venuto. Ricordiamo che queste esigenze ci sono. I giovani facilmente avvertono il vuoto di tante parole che non sono semi di eternità. t pure vero che non sempre aspettano parole di eternità. Ma se non le aspettano, uno dei nostri compiti è di suscitarne il desiderio, di suscitarne il bisogno. Per questo siamo preti. «Il popolo di Dio viene adunato innanzitutto per mezzo della parola del Dio vivente che tutti hanno il diritto di cercare sulle labbra dei sacerdoti. Dato infatti che nessuno può esser salvo se prima non ha creduto, i presbiteri, nella loro qualità di cooperatori dei Vescovi, hanno innanzitutto il dovere di annunziare a tutti il vangelo di Dio, seguendo il mandato del Signore: – Andate nel mondo intero e predicate il vangelo ad ogni creatura – e possono così costituire ed incrementare il popolo di Dio» (Presbyterorum Ordinis, 4).
Riattualizziamo, se ce n'è bisogno, l'«oportet predicare» che ci è stato detto nella nostra ordinazione sacerdotale. Apprezziamo il ministero della parola.
2. Di che cosa parlare con i giovani
La risposta mi sembra semplice, essenziale: parlare di Cristo! Voi sapete l'indirizzo del Concilio: decisamente Cristo-centrico. Paolo VI ha dato l'avvio all'Ecclesiam suam. Si parla della Chiesa, ma la Chiesa non è scopo a se stessa. La Chiesa commetterebbe peccato di idolatria se si fermasse su se stessa. La Chiesa vale in quanto portatrice di Cristo e portatrice a Cristo. Indubbiamente la teologia e la spiritualità del Concilio Vaticano II sono essenzialmente cristocentriche. È il mistero di Cristo che devono studiare i chierici in Seminario. È il mistero di Cristo che dobbiamo predicare noi. Il Concilio è estremamente chiaro. «Non voglio saper altro che Cristo e Cristo crocifisso». Gesù è il Salvatore, è l'Alfa e l'Omega. «L'uomo avrà sempre il desiderio di sapere, almeno confusamente, quale sia il significato della sua vita, del suo lavoro e della sua morte. E la Chiesa con la sua presenza nel mondo gli richiama alla mente questi problemi; ma soltanto Dio, che ha creato l'uomo a sua immagine e che lo ha redento dal peccato, può offrire a tali problemi una risposta pienamente adeguata, e ciò per mezzo della Rivelazione compiuta nel Cristo, Figlio Suo fatto uomo. Chiunque segue Cristo, l'Uomo perfetto, si fa lui pure più uomo» (Gaudium et spes, 41).
Quando l'uomo, dice appunto il Concilio, si interroga sul significato della vita, del lavoro, della morte, la risposta gliela dà Cristo. E un po' più avanti (Gaudium et spes, 45 b): «Il Signore è il fine della storia, il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, il centro del genere umano, la gioia di ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni».
Dobbiamo parlare di Cristo non semplicemente come ne può parlare uno storico, ma parlare di Cristo come persona viva: viva nella Sua parola nel Vangelo, viva nella Chiesa, viva nella Eucaristia. Penso che se non riusciamo a questo, non concludiamo niente. Se non riusciamo a parlare così con i giovani di Cristo, a presentare Cristo vivo, il nostro sforzo è un fallimento. È solo così che la vita prende senso. È solo così che allora noi possiamo imporre a noi stessi e chiedere ai giovani rinunce e sacrifici e proporre mete di apostolato.
Cristo vivo nella Sua parola, nel Vangelo. È uscito da poco presso l'editrice La Locusta un libretto: «Cristo contemporaneo» di P. Bevilacqua. Sapete cosa dice a proposito del vecchio clero e del giovane clero? Non posso leggervelo tutto, lo leggerete voi. «Il vecchio clero non aveva certo un più alto livello di cultura biblica; mancava assolutamente di capacità per ambientare la pagina sacra nella storia, non sapeva distinguere i generi letterari, e citava la Bibbia moltiplicando le forzature e i controsensi». Però, dice, «credeva nella parola di Dio». «Il clero giovane, invece, distingue benissimo i generi letterari ed... era presente quando il Pentateuco fu composto!... però, dice P. Bevilacqua, non crede più nella Parola di Dio!» (pag. 66 e ss.).
Se vi siete nutriti di parola di Dio, di Vangelo, di S. Paolo, dei Salmi, dei Profeti, quante cose potrete dire! Rinunciate a parlare voi. Fate parlare il Signore introducendo garbatamente, commentando, rispondendo alle questioni. È un modo di parlare che credo tra i più efficaci.
3. Come parlare con i giovani
Niente preamboli, niente fronzoli e niente tono oratorio. Purtroppo c'è ancora qualche prete dell'antica scuola che non si accorge, che crede che le anime si convertano battendo i pugni sul pulpito e Intensificando il volume di voce con quell'arte sapiente che conoscevano i nostri vecchi.
Sincerità, immediatezza nel parlare con i giovani; che non vuol dire affatto sciatteria e impreparazione. Ci vuole più preparazione per parlare con sincerità ed immediatezza che per ammannire dei fronzoli.
Chiamare le cose col loro nome, con semplicità. Spero che nessuno di voi parlando ai giovani dirà: «State attenti a non frequentare facilmente le persone dell'altro sesso». Ma se in Seminario qualcuno avesse detto: «State attenti alle donne», sarebbe stato uno scandalo! Non sarei neanche d'accordo di continuare a parlare della «bella virtù», «l'angelica virtù»: sono tutte belle le virtù! Pratichiamole tutte!
Nel mio schedario, sotto la voce «predicazione», ho qualche centinaio di note e molte portano questa suddivisione: «concretezza». Ai giovani bisogna parlare con concretezza.
«La predicazione sacerdotale, che nelle circostanze attuali del mondo è spesso assai difficile, se vuole avere più efficaci risultati sulle menti di coloro che ascoltano, non può limitarsi ad esporre la parola di Dio in termini generali ed astratti, ma deve applicare la perenne verità del Vangelo alle circostanze concrete della vita» (Presbyterorum ordinis, n. 4).
Essere concreti. Aver presenti i giovani nella realtà della loro vita di famiglia, di studio, di lavoro. Io spero che quei chierici del nostro seminario di Torino che quest'anno hanno fatto un mese di lavoro in fabbrica, quando dovranno parlare sapranno che cos'è il lavoro e sapranno parlare con concretezza. Non dico che sia necessario fare tutte queste esperienze; ma è necessario essere concreti! Cercare di capire i giovani nelle loro difficoltà, nella loro problematica vera, autentica, cercare di capire la realtà sociale in cui vivono.
Provate a leggere S. Giovanni Crisostomo: la sua concretezza è tremenda: anche troppo. Difatti, se morì in esilio, fu proprio perché parlava troppo chiaro; e siccome diceva cose che non facevano piacere,un po' all'imperatrice, un po' ai vescovi, un po' ai monaci, fece la fine che gli fecero fare!
Concretezza non vuol dire poi limitarci a contare i fatti della vita quotidiana. Vuol dire mostrare la presenza di Dio e di Cristo nella realtà terrena del lavoro, della vita di famiglia, della vita di studio, degli impegni sociali, professionali. Far vedere come effettivamente Cristo non è un'astrazione, ma ha veramente la sua parola da dire, eterna ed estremamente concreta, per ogni momento e per ogni aspetto della vita. Concretezza dunque nelle cose. Concretezza, vorrei aggiungere, nel linguaggio. E qui bisogna che noi facciamo proprio uno sforzo di liberarci da tutte le sovrastrutture del linguaggio che vengono dalla nostra formazione scolastica. Essa ha avuto uno scopo: il linguaggio della filosofia o della teologia non può fare a meno di un tecnicismo. Ma quello non è fatto per la predicazione. Noi soffriamo di questo male cronico: di aver confuso la predicazione, il kerigma, con l'insegnamento; e con l'insegnamento ancora, diciamo così, teologico, o comunque del Seminario.
Bisogna assolutamente che troviamo il linguaggio aderente alla mentalità di chi ci ascolta, senza mai cadere nella sciatteria e tanto meno nella volgarità. I giovani non vogliono questo da noi. Anche se sono qualche volta volgari, non vogliono che il prete sia volgare. Stiamo attenti a non comprometterci in questa maniera. Il rispetto della nostre vocazione deve accompagnarci sempre.
Per avere un linguaggio così concreto, noi possiamo aiutarci moltissimo con il linguaggio della Bibbia. Un uso intelligente della Bibbia che richiede però una grande familiarità con la parola divina, può dare al nostro linguaggio una grande concretezza.
E così il linguaggio della Liturgia. S. Agostino attinge alla Liturgia un linguaggio estremamente concreto partendo dal «Corpus Christi, amen», partendo dal bacio di pace che si scambiano i fedeli, partendo dal «Deo gratias», dal «Sursum corda», dice delle cose stupende, introduce nei misteri della fede e negli orizzonti della vita cristiana in una maniera veramente sorprendente. La Liturgia gli è di aiuto per realizzare questa concretezza del linguaggio.
Per essere concreti una cosa è assolutamente necessaria: saper ascoltare gli altri. Per questo insisto: «parlare con i giovani». Sappiamo ascoltarli. Hanno tanto da insegnarci. Non si può parlare con un uditore che non si è mai ascoltato. Avete mai notato questo? Quando si fa una serie di conferenze, di predicazioni in un ambiente, un Corso di Esercizi, un Ritiro, due o tre conferenze di seguito: la seconda va meglio, la terza ancora meglio, salvo che da principio non abbiamo ingranato. Ma vanno meglio perchè? Abbiamo capito, abbiamo percepito la risonanza che hanno le nostre parole. Abbiamo anche percepito i vuoti d'aria che ci sono e, avvicinando una seconda volta l'uditorio, troviamo il modo di captarne l'attenzione. Abbiamo raggiunto una maggiore concretezza.
Ancora: parlare con cuore. Non sentimentalismo. I giovani non sanno che farsene, almeno da parte nostra, dei fattori sentimentali. E vorrei anche raccomandare queste cose a quelli che non sono più tanto giovani, come me. A una certa età, se diventiamo troppo teneri, rinunciamo a parlare agli uomini ed ai giovani. Ho conosciuto qualche buon parroco, sant'uomo, il quale, poveretto, ad una certa età si commuoveva così facilmente che gli venivano i lucciconi; le pie donne dicevano: «Che santo il nostro parroco!». Gli uomini ed i giovani friggevano. Non sentimentalismo, non sdilinquimenti. Anche se parlate del Signore e dell'estasi dei Santi, aspettate ad andare in estasi dopo. Sentimentalismo no; cuore sì!
Ma si parla con cuore quando si è convinti, quando si è penetrati fino in fondo di ciò che si dice. E, poiché abbiamo detto che dobbiamo parlare di Cristo, possiamo farlo quando siamo veramente penetrati della fede in Lui, dell'amore; per Lui. Ma per questo bisogna pregare. Scrive il Card. Bevilacqua nel libretto citato: «Il giovane clero non si incontra, frequentemente in colloquio all'altare. TI suo accostamento avviene in momenti rigorosamente imposti e scrupolosamente cronometrati alle esigenze del sacerdozio ministeriale» (p. 80). Sarà qualche esperienza triste che lo fa parlare così, ma è ben triste se così avviene. Come si fa a parlare con cuore di Cristo guair. do ci sentiamo distanti dall'altare, quando (come dice lui) il tempo che si passa all'altare è cronometrato dalle esigenze del ministero?
No, no! Bisogna che ritorniamo alle sorgenti, assolutamente! Vita interiore, cioè parola di Dio: l'ho detto e lo ripeto: parola di Dio che diventa familiare.
Cari Sacerdoti, credo di non chiedervi niente di eccezionale se vi dico: non lasciate passare una giornata senza leggere qualcosa del Vecchio Testamento e del Nuovo. Leggete ogni anno tutto il Nuovo Testamento. Non occorre nemmeno leggere un capitolo al giorno per passarlo tutto in un anno. Non possiamo dimenticare l'essenziale.
La parola di Dio alimenterà la preghiera ed è la preghiera che ci farà parlare con cuore di Cristo. Tre settimane fa mi trovai a Chamonix con Oscar Cullmann. Si parlò di tante cose. Fra l'altro mi diceva la sua viva preoccupazione per certe tendenze della teologia protestante, specialmente in America, di un cristianesimo senza Dio: la «morte di Dio». Si esaminavano insieme le cause: ambiente culturale, orientamenti filosofici e teologici. A un certo punto gli domandai: «Senta: non ci sarà un'altra causa ancora più profonda? Lei crede che questi teologi preghino?» Lui mi risponde: «Sì, è quello che manca. Non pregano.
E allora a poco a poco il senso di Dio scompare». Bisogna pregare. È necessario decidersi.
Non possiamo essere caricature di preti.
Possiamo essere imperfetti, siamo molto imperfetti. Possiamo essere deboli, siamo deboli. Ma non dobbiamo essere abulici, indifferenti. Che angoscia pensare che una parrocchia possa essere in mano di un prete, di preti spiritualmente esanimi che fanno un mestiere, che ripetono parole sempre dette.
Alla fine del mese la Conferenza Episcopale Piemontese discuterà i problemi dell'A.C., il rilancio dell'A.C. Ci saranno dei problemi organizzativi che verranno presi in esame. Non sono i principali. È un problema di anime, prima di tutto; è un problema di fede, un problema di amore, un problema di preghiera.
So che quello che vi dico lo meditate, lo avete meditato in questi giorni, e altri ve lo dirà meglio di me. Ma sento il bisogno di dirvelo: bisogna ritornare a queste sorgenti della nostra vita, che danno un senso al nostro ministero e di ciò che è ministero fanno un apostolato.
Preghiamo perchè voi, ed io con voi, possiamo veramente attingere questa pinezza di vita interiore, primo presupposto perchè il nostro apostolato in mezzo ai giovani possa veramente essere efficace, possa condurli, questi nostri giovani, a Cristo.