Diamo una casa
alla “galassia giovani”
Intervista a d. Riccardo Pincerato
a cura di Matteo Liut
A poche settimane dalla nomina a responsabile del Servizio nazionale per la pastorale giovanile, don Riccardo Pincerato, 33 anni, sacerdote di Vicenza, si è messo all’ascolto delle tante realtà che il suo nuovo impegno incrocia. Un lavoro impegnativo, che, però, in una giornata di passaggio ad Avvenire, gli ha permesso di fermarsi a raccontare il cammino che l’ha portato fin qui.
Cominciamo dalla sua storia: quali figure sono state di aiuto nel suo cammino?
Ho avuto accanto a me delle figure di preti molto belle che mi hanno accompagnato e sostenuto. A partire dall’esempio e dalla testimonianza del mio primo parroco, un parroco all’antica, diremmo oggi, don Vittorio, che penso mi abbia lasciato l’«imprinting», donandomi, con la sua attenzione per le persone, il “gusto buono” del suo ministero, del suo servizio. E poi negli anni da seminarista e da vicario parrocchiale ho avuto la fortuna di avere vicino le tante belle figure di preti che mi hanno accompagnato e mi hanno aiutato a essere quello che sono oggi. Sono figure diverse ma tutte accomunate da un unico obiettivo nel loro agire pastorale: creare comunità, nello stile della famiglia. Tutti accomunati dalla passione per la gente e da una profonda passione per Cristo. Ancora oggi questi esempi mi accompagnano, perché ogni tanto prendo spunto o mi confronto idealmente con il loro modo di essere preti. Nel mio cammino, poi, è preziosa la presenza di buoni amici e amiche, che mi sono stati vicini in tutti questi anni: hanno sostenuto e custodito la mia umanità. Sono persone alle quali in questi anni ho potuto consegnare parte di quello che sono come persone e come prete.
In questi anni la pastorale giovanile ha cercato di allargare i propri confini, coinvolgendo le comunità nella cura delle nuove generazioni. Com’è possibile continuare a lavorare in questa direzione?
Penso che questo sia uno sforzo prezioso e irrinunciabile che parla del protagonismo del territorio, cioè dell’impegno a rendere la cura dei giovani un lavoro condiviso. Si tratta insomma da un lato di dare forma concreta alla centralità del ruolo dei giovani e delle nuove generazioni lì dove essi vivono, e dall’altro di creare sempre più una “piazza”, che permetta a chi fa pastorale giovanile e a tutti coloro che si prendono cura dei giovani di mettersi insieme, di collaborare, di creare alleanze, di fare rete. Insomma, bisogna continuare a favorire un’attenzione comune al mondo giovanile, per far sì che questa missione non sia cosa da “specialisti”. In questi anni abbiamo capito che questo tipo di impegno alla comunità serve non solo a costruire il proprio futuro ma anche il presente, un presente che la voce dei giovani può aiutare a plasmare. Per il bene dei nostri preadolescenti, degli adolescenti e dei giovani, insomma, siamo chiamati a collaborare e questa sfida fa il paio con la riflessione su come sono strutturate le nostre comunità, ma questo è un tema molto più ampio e complesso. Basti dire qui che le nostre comunità sono chiamate a essere sempre più educanti per dare ai giovani uno spazio condiviso e partecipato da tutti, in cui essi si sentano sostenuti e accolti. E ogni componente di questa grande comunità educativa è chiamata a offrire ai ragazzi la pro-pria specificità: penso ai cammini vocazionali, al sostegno dei consultori familiari, alle esperienze di servizio delle Caritas, a quelle verso il mondo promosse dei centri missionari, al confronto con altre fedi e confessioni alimentato dagli uffici per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso. Sono tutte risorse preziose per aiutare i giovani a costruire un mondo di pace, che oggi mi sembra un’urgenza prioritaria.
La galassia giovani è attraversata da numerose questioni, la Chiesa è in grado di tenerle insieme tutte?
Credo proprio di sì e vedo che non manca l’attenzione ai grandi temi emergenti, a partire da quello dell’abbandono scolastico, ad esempio, o quello dei neet, delle nuove fragilità dei ragazzi, legate all’affettività ma anche ad esempio al rapporto con l’alimentazione, le insicurezze sul fronte del futuro, in particolare dei percorsi superiori di studio e poi del lavoro, della necessità di spostarsi all’estero. E poi l’attualità, con le sue continue innovazioni, offre sempre nuove sfide che dobbiamo essere pronti a cogliere, rimanendo in ascolto della voce dei giovani, delle loro esperienze.
Oltre a tutto questo la Chiesa ha sempre offerto ai giovani dei momenti forti, a livello locale, nazionale e mondiale. La Gmg di Lisbona ha dimostrato che questi momenti sanno attrarre. Ma come raccogliere poi i frutti?
Continuando, come si è cercato di fare finora, di inserire questi eventi dentro un cammino ordinario che porti quelle esperienze forti di Chiesa dentro alla vita quotidiana dei ragazzi e dei giovani.
Ma la Chiesa ha davvero ancora qualcosa da dire ai giovani?
Credo profondamente nel fatto che la Chiesa oggi abbia la possibilità di raccontare ai giovani il suo tesoro più grande, Cristo. E ha la responsabilità di accompagnarli nella relazione con lui. Tutto ciò che appartiene alla tradizione cristiana, dalla pastorale alla vita liturgica, contiene una forte carica di vita per i giovani, che cercano prospettive alte in grado di accompagnarli e spronarli. Pensiamo alle parole di papa Francesco alla Gmg di Lisbona, con l’invito ad affidare a Dio le nostre ferite e le nostre fragilità: un invito potente che ha toccato il cuore delle centinaia di migliaia di giovani presenti. La Chiesa può consegnare ai giovani un messaggio di felicità. E nel fare ciò la comunità cristiana è chiamata a mettersi nella disposizione di accogliere ciò che i ragazzi vivono e respirano. D’altra parte, un luogo accogliente e coerente è tutto quello che i giovani si aspettano di trovare nella Chiesa. Un luogo con adulti significativi e testimoni, che sanno camminare con loro e farsi ricercatori assieme a loro.
A proposito di Lisbona, risuonano ancora le parole del Papa “todos, todos, todos”, come fare oggi a realizzare questo invito forte all’inclusione?
Creando uno spazio, creando legami, affrontando senza paure le sfide che il mondo pone. Questo può avvenire solo se, come dicevo prima, si lavora in rete, si costruisce una comunità fondata sulle alleanze allargate. È un lavoro impegnativo, ma è anche un obiettivo possibile se si dà forma a quel “todos todos todos” anche fra coloro che già si prendono cura delle nuove generazioni: l’inclusività deve partire da loro.
(Avvenire 01/11/2023)