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    La "follia" della pastorale


    Si attribuisce ad Albert Einstein un'osservazione tanto elementare quanto illuminante circa il ritmo delle cose del mondo, che ben si adatta a delineare sinteticamente lo scenario della Chiesa attuale; in particolare, quello legato al contesto occidentale. L'osservazione è la seguente: «Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare sempre le stesse cose».
    A pensarci bene è proprio così: sperare di ottenere risultati diversi, mettendo all'opera sempre i medesimi meccanismi, alla fine dei conti, altro non è se non una pura pretesa o, per essere ancora più precisi, un'autentica forma di follia. Unicamente chi è afferrato da una sorta di follia può, in verità, immaginare di annunciare per la successiva stagione la vendita di fagioli (i risultati nuovi), mentre getta nella terra del suo campo la sementa dei piselli (le azioni di sempre)'.
    Eppure, a malincuore certo, non possiamo non riconoscere in atto una vera e propria "follia" da parte di numerosi operatori pastorali.
    Il caso più clamoroso riguarda l'amministrazione dei sacramenti, autentici autogol del sistema ecclesiale contemporaneo. Più che rappresentare il compimento di un cammino di crescita all'interno dell'esperienza credente, sono diventati da troppo tempo, nella stragrande maggioranza dei casi, la celebrazione pubblica dell'avvio di un cammino al di fuori della vita ecclesiale, sino a quel punto in qualche misura frequentata da coloro che si preparavano al sacramento, fosse anche solo per partecipare agli incontri preparatori. Tutti sanno, per esempio, ciò che capita con l'amministrazione della cresima, e cioè che è proprio con essa che viene sancita ufficialmente la rottura tra le nuove generazioni e la Chiesa, eppure niente di sostanziale è cambiato negli ultimi anni al riguardo, tranne forse la convinzione sempre più affievolitasi nel tempo con cui si annunciava ed ancora si annuncia di volere cambiare qualcosa. Nel frattempo, si continua ad amministrare questo sistema fallimentare, sperando sempre in risultati diversi: che cioè con la cresima si possa celebrare l'ingresso dei ragazzi nel mondo dei credenti adulti.
    Qualcosa di analogo lo si potrebbe dire, e lo si dice ancora più amaramente, del modo in cui viene celebrata l'eucaristia domenicale: coloro che la frequentano sono sempre di meno e in genere sempre più vecchi, così come sempre di meno sono le attenzioni che la comunità rivolge verso questo momento centrale della vita credente (si pensi che, in alcuni luoghi, si continuano a prevedere sino a quattro eucaristie domenicali, mentre i partecipanti per ogni Messa continuano a diminuire vistosamente) e sempre più vecchi sono i canti che vengono eseguiti, quando pure vengono eseguiti. Si ripete certo e con corretta convinzione che l'eucaristia della domenica è il cuore della vita di fede e che tutto deve avere in essa il suo inizio e il suo compimento; si desidererebbe pure che a queste parole corrispondesse almeno qualcosa nella realtà, eppure ciò che si compie perché le parole diventino realtà è quasi sempre e solo ripetere ciò che ha portato a fare in modo che la realtà si allontanasse sempre di più dalle convinzioni di fede a riguardo dell'eucaristia domenicale: stessi orari, stessi canti (quando ci sono), stessa preparazione, stesso stile omiletico; insomma, stessa inaudita pretesa che le cose vadano diversamente, pur facendo le cose di cinquanta o sessant'anni fa.
    Gli esempi di una tale "follia" della pastorale, nel senso prima richiamato di sperare in risultati differenti con il mettere in atto i medesimi meccanismi, potrebbero ovviamente moltiplicarsi. Il punto delicato della questione è ora che, sotto queste condizioni, non si annuncia certo un buon futuro per la Chiesa. Il fossato sempre più largo, che la comunità dei credenti deve registrare tra il suo universo e quello delle nuove generazioni, da una parte, e quello non meno ampio delle donne che transitano verso la maturità dall'altra (giusto per citare i "casi seri" della pastorale degli ultimi decenni), dovrebbe pur costituire, per gli operatori pastorali, quella pietra d'inciampo in grado di far aprire gli occhi sulla strana follia che sembra dominare il loro agire. E dovrebbe portarli ad un'irrecusabile evidenza: la "mentalità pastorale" che governa la vita spicciola delle parrocchie non è più all'altezza della situazione. Per risultati diversi, occorrono azioni diverse; per azioni diverse, occorre una mentalità diversa. Ma le cose non sempre procedono così. Basti pensare, per un momento, alla timidezza con cui la questione dell'irrilevanza della fede per le nuove generazioni è stata affrontata nel Sinodo dei Vescovi celebrato nell'ottobre del 2018.
    In ogni caso, è proprio nella direzione del necessario rinnovamento della mentalità pastorale che, sin dai suoi primi passi, si muove coraggiosamente il magistero di papa Francesco. Intervenendo autorevolmente al Congresso Internazionale della pastorale delle grandi città, nel novembre del 2014, egli ha affermato che la prima e forse più difficile sfida che oggi ha davanti a sé la comunità cristiana è quella di «attuare un cambiamento di mentalità pastorale». E con forza ha esclamato: «Si deve cambiare!» .
    Si tratta, del resto, di un atteggiamento del tutto coerente con il suo sguardo sulla realtà. Da tempo, in verità, egli invita i credenti a prendere atto che essi non si trovano davanti ad un'epoca di cambiamento quanto ad un vero e radicale cambiamento d'epoca; al quale non può che corrispondere un altrettanto vero e radicale cambiamento di mentalità pastorale. Insomma, non solo dal basso della realtà delle cose, ma anche dall'alto del magistero petrino giunge un chiaro segnale ai responsabili locali della pastorale. Devono prendere atto che, il nostro, è tempo di smettere di credere nell'assurdo di poter ottenere risultati differenti - pensiamo qui solo ad una rinnovata presenza e ad un rinnovato protagonismo ecclesiale delle nuove generazioni oppure ad eucaristie domenicali capaci di segnare il tempo e lo spazio delle comunità che le celebrano - portando avanti le cose che si sono sempre fatte.
    Per un futuro possibile della Chiesa, almeno in Occidente, vi è dunque in gioco un necessario mutamento della mentalità pastorale, del modo cioè con cui si organizza complessivamente la sua vita e il suo operato in un tempo e in un luogo: e dunque in questo tempo e in questo luogo. Al riguardo non c'è che da ripetere le parole del pontefice: si deve cambiare.
    Il presente saggio intende lavorare esplicitamente lungo tale fronte. Il suo punto di forza e di luce sta nell'individuazione del radicale mutamento della condizione ordinaria di vita degli adulti - e dunque della metamorfosi cui è stato sottoposto l'immaginario stesso dell'essere adulto: saranno questi i luoghi di elaborazione di una nuova mentalità pastorale all'altezza del tempo che ci è dato vivere, in quanto sono questi i luoghi che mettono fuori corso la mentalità pastorale sin qui praticata.
    Il contesto nel quale i cristiani si trovano a testimoniare la loro fede, infatti, non presta più alcuna fiducia ad un'antropologia della crescita, della maturazione, del diventare grandi e adulti. Le nuove coordinate economiche, i progressi della medicina e della farmaceutica, l'emancipazione e le numerose conquiste culturali e sociali delle donne, degli omosessuali e di tutti i gruppi emarginati, senza dimenticare l'incredibile longevità maschile, rendono le attuali generazioni adulte le prime veramente innamorate di questa terra. Per loro la Salve Regina, con le sue lacrime, il suo esilio, i suoi gemiti è forse ormai solo una pia citazione; ed un certo cristianesimo,tutto legato all'angoscia di morte, all'imitazione della pazienza del Cristo sofferente e della Vergine sempre obbediente, alla necessità del contenimento della frustrazione e al ricorso permanente al senso di colpa, per suscitare sentimenti di responsabilità e di debito nei confronti di Dio, della Chiesa e della società, è d'un colpo diventato semplicemente irreale.
    Il punto è che davvero si è davanti ad una totale trasvalutazione dei valori fondanti e fondamentali dell'esistenza umana. Al posto di un'antropologia che assegnava all'adulto il pieno compimento dell'umano, si è imposta ciò che in modo pertinente papa Francesco ha chiamato "adorazione della giovinezza". L'umano giovane è oggi l'unico modello e il modello unico di ogni vita pienamente desiderabile. Viene così alla luce un'antropologia giovane, "anti-age", leggera, potente, innocente, facilmente e costantemente riscrivibile, che è sempre più esaltante e che giorno dopo giorno conquista il cuore degli uomini e delle donne del nostro tempo.
    Certamente, come ogni cosa umana, tale antropologia della giovinezza non è priva di effetti collaterali e di costi, che incidono particolarmente sulle nuove generazioni. Lì dove, infatti, tutti desiderano restare giovani per sempre, i giovani veri - cioè i ventenni e i trentenni - sono letteralmente fatti fuori. Così come non è priva di effetti discutibili per gli stessi adulti: si pensi solo alla forza di persuasione che presso di loro possiede la pubblicità, che li spinge a credere per esempio nell'esistenza di prodotti in grado di fermare la perdita dei capelli e di conseguenza a spendere imbecillemente una notevole quantità di denaro, quando è a tutti noto che l'unica realtà davvero in grado di arrestare la caduta dei capelli è il pavimento! E ciò è solo un piccolo sintomo di quella economia dell'imbecillità che oggi governa parecchie cose nell'esistenza di colui che pure fu homo sapiens sapiens prima di diventare homo iuvenis iuvenis!
    In ogni caso è questo il cambiamento d'epoca con il quale si debbono fare i conti: gli adulti non vogliono crescere e i giovani non possono crescere; gli adulti si rimbecilliscono e i giovani si deprimono.
    Per corrispondere ad esso, questo saggio propone ai credenti una "rivoluzione copernicana" della mentalità pastorale: dall'impegno indirizzato ad accompagnare le nuove generazioni ad entrare in quella che fu la "porta stretta" della condizione adulta, cui proprio la religione cristiana offriva parole di incoraggiamento e di consolazione, ad un lavoro in cui accompagnare tutti (bambini, giovani, adulti ed anche qualche anziano) ad incrociarsi con Gesù - l'uomo della gioia e la gioia dell'uomo. La proposta è dunque, in estrema sintesi, quella di passare da un cristianesimo della consolazione ad un cristianesimo dell'innamoramento: grazie al quale cioè ci si possa innamorare di Gesù e diventare cristiani.
    Un tale passaggio si raccomanda, inoltre, anche al fine di riscoprire l'avventura e la pienezza che possono scaturire solo da un'esistenza pienamente donata alla felicità altrui; e dunque allo scopo di dare nuovo credito al processo di umanizzazione legato all'accesso alla condizione adulta dell'esistenza, pur sotto le mutate condizioni socioeconomiche prima citate. C'è, infatti, una segreta bellezza dell'essere adulto che deve essere "salvata" ad ogni costo, per non perdere l'umanità dell'umano. L'adulto è uno che conosce le fatiche del vivere e pure non smette di credere nelle risorse della vita e di testimoniare tale fiducia alle generazioni che vengono al mondo.
    Ed una tale bellezza necessaria dell'essere adulto viene proprio da Gesù pienamente disvelata e portata a compimento: nessuno è stato più umano di lui, perché nessuno è stato più adulto di lui. Cioè più donato alla felicità altrui e più credente nella vita fin dentro la morte.
    Si tratta, allora, di prendere atto della necessità di passare da una Chiesa che, tramite i suoi riti e le sue promesse, dà luce alla vita (ancora supposta dura) degli adulti ad una Chiesa che dà alla luce gli adulti che oggi servono grazie all'incontro con Cristo; quegli adulti che oggi servono alla vita buona delle nuove generazioni e più in generale del mondo intero.
    È finito, perciò, il tempo di riflettere sul futuro della Chiesa, è tempo di mettere mano alla Chiesa del futuro.

    NOTE

    1 Non è perciò un caso che si attribuisca ancora ad Einstein la seguente sentenza più o meno simile a quella con la quale ci siamo introdotti: «Follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi»; quest'ultima, in verità, appartiene a Rita Mae Brown: cf S. Lorenzetto, Chi (non) l'ha detto. Dizionario delle citazioni sbagliate, Marsilio, Venezia 2019, 151-153.
    2 Sul tema il pontefice è tornato di nuovo e con grande intensità in occasione del Discorso alla Curia Romana per gli auguri di Natale, il 21 dicembre 2019.


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