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    Kierkegaard

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    Søren Kierkegaard:

    l'amore tra infelicità e salvezza


    Nell'intricato itinerario filosofico-religioso di Søren Kierkegaard [*] il tema dell'amore occupa uno spazio assai ampio, sebbene risulti caratterizzato in modo molto diverso a seconda del contesto in cui compare. La dinamica dialettico-esistenziale kierkegaardiana, articolata nel passaggio attraverso gli stadi estetico, etico e religioso lungo il cammino della vita, è rispecchiata da una ricca fenomenologia dell'eros, che rappresenta la sfera nella quale si formano i conflitti fra le varie possibilità da cui, secondo il pensatore danese, è caratterizzata l'esistenza di ciascun uomo.
    Questo aspetto della sensibilità di Kierkegaard rivela alcune analogie con l'erotica platonica. Così ha inteso tale rapporto Enzo Paci: «Come per Platone anche per Kierkegaard l'eros è un atto che trascende infinitamente se stesso e si trascende in due sensi, nella relazione orizzontale che dà luogo alla generazione e alla storia, e nella relazione verticale, che dà luogo all'attuazione progressiva della positività del possibile» [1]. Ovviamente, a differenza di Platone, Kierkegaard proietta l'eros anche in quella dimensione dell'etica che manca nel pensiero dell'Ateniese, e cioè nella componente giudaico-cristiana della sua fenomenologia erotica. L'elemento orizzontale e storico, sul quale richiama l'attenzione Enzo Paci, è ciò che separa l'atteggiamento di Kierkegaard dalle concezioni mistico-contemplative dell'amore, che hanno in Platone la loro matrice.
    La posizione kierkegaardiana è pienamente comprensibile in rapporto alle costruzioni filosofico-poetiche dell'erotica «comunità degli spiriti liberi» (Freigeisterei) tipica dei romantici, nei confronti della quale il filosofo ebbe un rapporto ambivalente. Egli infatti cercò di combatterla, svolgendone i temi fino all'estremo di una reductio ad absurdum, ma proprio in ciò rivelando la sua appartenenza a tale orizzonte, come ha acutamente notato Pietro Prini [2].
    Questo elemento emerge soprattutto nella sfera esistenziale, che Kierkegaard chiama estetica, e in cui dominano le due figure di Don Giovanni e del seduttore. Quest'ultimo così si esprime riguardo all'amore: «Che io sia veramente innamorato me lo dice... quell'aria tutta di mistero di cui ho avvolto, perfino ai miei occhi stessi, il fatto in sé. Ogni amore, perfino quello sleale, è misterioso in quanto ha in sé il necessario momento estetico» [3]. Tali parole chiariscono come il seduttore non miri al piacere sessuale, ma goda dell'osservazione degli effetti delle sue azioni sul proprio animo e su quello della fanciulla. Si tratta di un eros il cui nucleo è costituito dall'opposizione dello spirito maschile alla placida inconsapevolezza femminile. La donna, per Kierkegaard, sente l'infinito nel finito e si abbandona a esso, mentre l'uomo è spinto oltre. Una giovanetta «non deve conquistarsi la via verso l'infinito attraverso quella travagliosa del pensiero, perché la donna non è nata per la fatica, ma solo attraverso quella della fantasia e quella facile del cuore. Per una giovanetta l'infinito è altrettanto naturale quanto l'idea che l'amore debba essere sempre felice» [4].
    segnatamente questo fondo non intellettuale della donna che mette in moto la strategia del seduttore, orientata a provocare nell'animo della ragazza i più stupefacenti turbamenti, a farle varcare la soglia fatale che segna la sua perdizione, per poi inopinatamente ritirarsi: il gusto libertino del Settecento si fonde, in questo atteggiamento, con la metafisica romantica dei sessi.
    La figura di Don Giovanni, nella versione kierkegaardiana, è complementare a quella del seduttore. Remo Cantoni così la caratterizza: «Don Giovanni, come categoria, esprime il desiderio sensuale, la genialità sensibile che può essere espressa solo dalla musica; perché solo essa può esprimere la immediata, sfrenata, selvaggia corsa del desiderio sensuale verso il piacere» [5]. Don Giovanni non è, quindi, il seduttore che distilla sottili godimenti intellettuali, ma piuttosto l'espressione del cieco e bramoso impeto della sessualità, che si manifesta nell'anonima contabilità delle conquiste e si rivela nella musica - particolarmente in quella di Mozart -, che per Kierkegaard rappresenta il mezzo artistico attraverso cui si estrinseca il lato demoniaco dell'eros. «Don Giovanni è dunque l'espressione del demoniaco determinato come sensualità» [6]; «Don Giovanni è una figura che continuamente appare, ma che non assume figura e consistenza, un individuo costantemente in divenire e mai definito» [7]. In lui, quindi, la sensualità è astratta e anonima, poiché «l'amore sensuale... mette tutto nello stesso sacco» [8].
    Nella caratterizzazione dell'« estetico», Kierkegaard ritorce contro i romantici, e soprattutto contro Schlegel, autore della Lucinde, le armi intellettuali che essi avevano adoperato per sostenere la loro concezione dell'amore. L'ironia romantica, che mirava a svalutare tutto ciò che è oggettivo per far spiccare la personalità geniale, viene applicata al soggetto stesso, che nella vita estetica si frantuma nella molteplicità dei suoi stati d'animo [9]. La libertà amorosa dei romantici viene riproposta in termini grotteschi e perturbanti, e tuttavia è proprio questo che consente il passaggio alla vita etica.
    L'opera nella quale Kierkegaard tratteggia l'identità del momento etico è Aut-Aut, in cui l'assessore Wilhelm cerca di convincere il suo giovane amico ad abbandonare la dispersione estetica per entrare nel mondo etico della responsabilità e della durata. L'eros non viene asceticamente negato, ma incluso in una totalità etica che pone alla base il matrimonio, al quale viene riconosciuto il potere di trasfigurare ed elevare la sessualità, conferendole una profonda ragione metafisica. Leggiamo in Aut-Aut: « Senza la donna l'uomo è un'anima instabile, un infelice, che non sa trovar riposo e non ha nessun rifugio. E spesso stata una gioia per me scorgere in questa funzione l'importanza della donna; essa per me diviene un'espressione di tutta la comunità, e lo spirito è gravemente inquieto quando non ha una comunità in cui abitare, e quando abita nella comunità è lo spirito della comunità» [10]. Il matrimonio fonda quindi l'esistenza etica dell'individuo, che trova in esso il modello dei propri compiti morali.
    È significativo che gli argomenti di Aut-Aut abbiano poi dato il titolo a una miscellanea di testi, comprendente anche il Diario del seduttore: ciò mostra la cogenza biografica dei temi trattati, tra i quali spicca il rapporto di Kierkegaard stesso con Regina Olsen, la ragazza con la quale fu per breve tempo fidanzato e che abbandonò improvvisamente e misteriosamente, non sentendosi adatto al matrimonio. È noto che il sofferto rapporto di Søren con Regina, come, del resto, quello col padre, furono assolutamente determinanti in tutta la vita del filosofo, condizionandone anche la profonda e sofferta tensione religiosa [11]. Il tema dell'amore ha dunque fatto irruzione negli scritti del pensatore di Copenaghen anche in conseguenza di un conflitto esistenziale, fra una trasfigurazione filosofico-letteraria del proprio isolamento spirituale e l'aspirazione a una vita sentimentale che riteneva a sé preclusa.
    Il rapporto con Regina catalizzò questi problemi. Quando egli scrive che «la donna ha soprattutto un talento innato, una dote originaria: un assoluto virtuosismo per dar senso al finito» [12], rivela quale sia la sponda etica che appare all'orizzonte della sua discesa negli inferi dell'eros, compiuta negli scritti che trattano dei comportamenti improntati alla dimensione estetica [13]. Non c'è un vero contrasto fra «estetico» ed «etico», poiché il primo si autodistrugge attraverso l'ironia, e il secondo combatte contro di esso facendo valere un aut-aut che, nell'atto stesso in cui è proclamato, ha già vinto il suo avversario, dal momento che nella sfera estetica non si sceglie.
    Al contrario, l'ingresso nella vita etica coincide con la capacità di scelta: «Il mio aut-aut non indica la scelta tra il bene ed il male; indica la scelta con la quale ci si sottopone o non ci si sottopone al contrasto di bene e male. Qui la questione è sotto quale punto di vista si voglia considerare tutta l'esistenza e vivere» [14].
    Il perno della vita etica è, come si è detto, il matrimonio, in quanto in esso si esprime il dispiegamento di un «possibile» accessibile al singolo individuo e non una categoria logico-storica, come quelle che Kierkegaard respingeva nel sistema di Hegel. Tuttavia, l'«etico» non rappresenta un radicale ripudio dell'elemento sensuale che domina nell'«estetico», piuttosto un suo inserimento in un diverso ordine, fondato sull'amore coniugale.
    Nella fenomenologia erotica kierkegaardiana si può cogliere, nella dialettica di finito e infinito, come il fuoco interno che produce il movimento delle sue figure, e ciò mostra in realtà quanto alcune acquisizioni tipiche dell'idealismo avessero ormai influenzato la riflessione filosofica dell'epoca. Ma sono proprio le problematiche legate all'intimità della vita amorosa quelle nelle quali Kierkegaard tematízza e sviluppa l'intrico di questioni filosofico-esistenziali originate dalla dialettica sopra ricordata. Ciò che la metafora del «pungolo nella carne» evoca è l'inversione del nesso vocazione-libertà in merito al rapporto tra finito e infinito. Kierkegaard ebbe a dire di aver ricercato la libertà nel finito, mentre in esso può regnare solo la costrizione. All'origine di una tale convinzione vi era la sua tormentosa estraneità nei confronti degli uomini, che era stata nutrita dal sentimento di un'oscura colpevolezza, e lo aveva spinto verso comportamenti che poi giudicò rovinosi: «Io - si legge nel Diario - mi sono arrischiato nella vita, ferito da un'incrinatura originaria: proprio per lo sforzo immenso di mantenere a galla con le pompe la mia esistenza, ho sviluppato un'esistenza spirituale eminente» [15].
    L'inversione mostra tuttavia che Kierkegaard ritiene che soltanto l'avventura dell'infinito rimetta in movimento i «possibili», ed è questa tensione che conferisce al suo cristianesimo quell'accento tragico che lo contraddistingue. La possibilità che emerge dalla dialettica kierkegaardiana di finito e infinito non è quella spendibile nell'esistenza, ma quella che conduce alla sua trasvalutazione in una fede disperata che tende a radicalizzare la componente di irrazionalità insita nel protestantesimo.
    Ha scritto Fabro che lo stesso automascheramento di Kierkegaard attraverso il gioco degli pseudonimi rivela «quella vita che tumultuava e lottava in lui per cercare una "evasione": o per tirarlo in basso o per portarlo in alto, così che dovunque in quei libri egli viene a trovarsi sempre "fuori di sé"» [16]. Ed è proprio questo movimento che conduce il filosofo oltre la conciliazione della vita estetica e di quella etica realizzata nell'amore coniugale.
    Il salto verso lo stadio esistenziale religioso e la figura del «cavaliere della fede», che lo rappresenta, costituiscono il punto culminante della fenomenologia erotica kierkegaardiana. Nella concezione del pensatore danese, infatti, tale stadio esige il completo sacrificio dei legami più profondi, quelli in cui risuonano le potenze etiche. Søren sacrifica Regina, così come Abramo avrebbe sacrificato Isacco. Il rapporto con Dio è, a suo parere, l'unico in grado di porre il singolo come tale, mentre l'atteggiamento etico lo fa dipendere da un universale che minaccia ancor- la sua singolarità. In questo modo l'etica sopravvive esclusivamente come paradosso. In Timore e tremore egli scrive che da questo sacrificio «non segue che l'etica debba essere distrutta, ma essa ottiene una tutt'altra espressione..: per esempio l'amore verso Dio può portare il cavaliere della fede all'espressione opposta di ciò che può suggerire il dovere dal punto di vista dell'etica» [17].
    L'amore umano, in quanto appartiene al finito, è privato delle sue ragioni e sospeso all'amore divino, che le rende paradossali. Ancora Fabro ha messo in risalto come l'ermeneutica di Timore e tremore si profili su di un ambiguo sfondo biografico [18], al punto che possiamo affermare che l'analogia fra la vicenda di Søren e Regina e quella di Abramo e Isacco è possibile in virtù delle molte risorse del procedimento metaforico usato.
    La finale e decisiva opzione per Dio, che rappresenta la cifra della filosofia di Kierkegaard, implica pure una nuova, radicale valutazione dell'amore, come ha indicato Pietro Prini: «Il senso cristiano della vita è lo spegnersi del gusto di vivere, perché si manifesti il carattere ed il destino spirituale degli esseri disponibili all'amore di Dio» [19].
    Al culmine della sofferta traiettoria esistenziale e speculativa di Kierkegaard si pone la sua produzione «edificante», ovvero i Discorsi edificanti, composti tra il 1843 e il 1847, e Gli Atti dell'amore del 1847, produzione che può essere in qualche modo considerata il compimento e il vero fine di quella estetica. Sulla seconda delle due opere sopra ricordate è opportuno concentrare l'attenzione, in quanto essa contiene la più alta, quasi mistica, riflessione del pensatore danese sui temi dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo.
    Gli Atti dell'amore sono meditazioni cristiane in forma di discorsi; lo spunto per il titolo fu offerto a Kierkegaard dalla Postilla cristiana di Lutero, nella quale il riformatore affermava che per una vita cristiana si richiedono fede, atti d'amore e poi persecuzione per la fede e per gli atti d'amore. L'assunto fondamentale dello scritto kierkegaardiano, che ne costituisce al contempo il punto di partenza e d'arrivo, è il riconoscimento di. Dio come amore. Anche se l'argomento centrale degli Atti dell'amore viene spesso indicato nel tema dell'amore del prossimo nel contesto del cristianesimo, «come si potrebbe - afferma lo stesso Kierkegaard nella preghiera di invocazione alle Persone della Trinità, che introduce il testo - parlare convenientemente dell'amore, se venissi dimenticato Tu, Tu Dio dell'amore da cui viene ogni amore in cielo e in terra; Tu che non hai risparmiato nulla ma tutto hai dato in amore... Tu, nostro Salvatore e Redentore, che hai dato Te stesso per salvarci tutti?... Spirito d'amore che non Ti riserbi nulla di Tuo, ma fai pensare a quel sacrificio d'amore e rammenti al credente l'obbligo di amarTi come egli da Te è amato e di amare sempre il Tuo prossimo come Te stesso?» [20].
    L'amore del prossimo trova la sua più autentica giustificazione nell'amore di Dio, che ne costituisce il fondamento. Esso ha sempre Dio per autore, mentre ciò che il mondo normalmente intende per amore non è altro che egoismo. L'amore naturale profano e l'amicizia, che fanno scegliere e preferire la moglie, i figli e l'amico rispetto agli altri uomini, appartengono alla sfera dell'amore egoistico e non a quella dell'amore spirituale, dell'amore «sacro». Quest'ultimo non è innato nell'uomo, come istinto o inclinazione, ma è dono della grazia: il dovere del vero cristiano è quello di elevare al livello dell'amore spirituale anche l'amore naturale e l'amicizia. L'obbligo di amare il prossimo è dunque il cogente messaggio sociale degli Atti dell'amore, come ha affermato Fabro: «Negli Atti il fondamento o momento centrale nell'orientamento della vita sociale è costituito dal rapporto a Dio che ogni singolo ha e deve avere nel suo rapporto al prossimo... Questa subordinazione a Dio di tutte le espressioni della vita produce l'abnegazione, ch'è il tratto più caratteristico dell'etica personalistica degli Atti dell'amore, imperniati sul principio cristiano che "Dio è la determinazione intermediaria"» [21].
    L'assoluta preminenza di Dio si coglie in ogni pagina dell'opera, dove si leggono meditazioni dense e vibranti, quale per esempio la seguente: «La vita segreta dell'amore è nell'intimità, insondabile e a sua volta in una connessione insondabile con tutta l'esistenza. Come il lago tranquillo che ha la sua origine profonda nella sorgente nascosta che nessun occhio riesce a vedere, così l'amore dell'uomo ha un'origine ancor più profonda nell'amore di Dio. Se non ci fosse nessuna sorgente nel fondo, se Dio non fosse l'amore, non ci sarebbe il piccolo lago, né l'amore dell'uomo» [22].
    La seconda delle due serie in cui sono suddivisi Gli Atti dell'amore sviluppa il tema del dovere morale da parte del singolo di praticare l'amore. «Se si legge con attenzione il testo kierkegaardiano, specialmente di questa II parte, si ha l'impressione che Dio sia il riferimento di fondazione ed invece il prossimo, l'amore del prossimo per l'appunto, costituisca il compito reale dell'etica cristiana. Verrebbe allora da pensare che... due sono o potrebbero essere le formule dell'amore: a) o quella di amare il prossimo partendo da Dio che ce lo ordina... b) oppure quella di indirizzare e subordinare ogni nostro rapporto al prossimo in quanto esso ha la nostra stessa natura... Nel primo caso Dio si presenta come il punto di partenza e il prossimo come quello di arrivo; nel secondo, viceversa, è il prossimo il punto di partenza e pertanto anche gli oggetti dei nostri atti di amore sono le "opere di misericordia"... Sembra che le tesi e la struttura degli Atti dell'amore seguano piuttosto il secondo schema, che si potrebbe dire etico-mistico, mentre il primo è allora mistico-etico» [23]. L'atto maggiore dell'amore è perdonare i peccati del nostro prossimo, esercitare quella misericordia che è un atto d'amore anche quando non può né dare né fare nulla; poiché essa non è legata al denaro o al potere, ma è una perfezione assai più grande della possibilità di fare qualcosa.
    Nell'affermazione dell'autenticità dell'esistenza come disponibilità nei confronti di Dio che ama, e come riconoscimento della Trascendenza, si può ravvisare non solo il significato più profondo della riflessione kierkegaardiana sull'amore, ma anche l'approdo della sua filosofia esistenziale.

    NOTE

    * Nacque a Copenaghen nel 1813; condusse un'esistenza costantemente segnata da acute sofferenze e turbamenti interiori. Scrisse un importante Diario, fondamentale per comprendere lo sviluppo del suo pensiero, e moltissime altre opere, tra le quali Timore e tremore, Aut-aut, La malattia mortale ed Esercizio del cristianesimo. Ritenne che la vita dell'uomo fosse da interpretare alla luce del concetto di possibilità - contrapposto a quello di necessità tipico dell'hegelismo - e di singolarità, che rifiuta ogni risoluzione del finito nell'infinito, tanto cara agli idealisti. L'uomo scopre che la vita gli chiede continuamente di scegliere e di mettersi costantemente in gioco. Tale situazione conduce il singolo a sperimentare l'angoscia e la disperazione, finché non opta in modo definitivo per la fede, risposta « folle» alla drammaticità della vita, abbandono incondizionato a un Dio che per primo ha scelto di rivelarsi nel paradosso dell'incarnazione, della morte e della risurrezione. Il suo cristianesimo non tollera ambiguità e accomodamenti rassicuranti. Morì nel 1855.
    1 E. Paci, Kierkegaard e Thomas Mann, Bompiani, Milano 1991, p. 174.
    2 Cfr. P. Prini, Storia dell'esistenzialismo. Da Kierkegaard a oggi, Studium, Roma 1989, pp. 28-32.
    3 S. Kierkegaard, Diario del seduttore, Rizzoli, Milano 19803, p. 51.
    4 Ibid., p. 108.
    5 R. Cantoni, Saggio introduttivo a S. Kierkegaard, Don Giovanni. La musica di Mozart e l'eros, Mondadori, Milano 1976, p. 21.
    6 S. Kierkegaard, Don Giovanni. La musica di Mozart e l'eros, op. cit., p. 100. È notevole il fatto che la genialità sensuale di Don Giovanni porti Kierkegaard a confrontare questo personaggio con quello di Faust: l'uno rappresenterebbe il demoniaco come sensualità e l'altro il demoniaco come spirito (cfr. p. 102).
    7 Ibid., p. 102.
    8 Ibid., p. 105.
    9 Cfr. R. Cantoni, Introduzione a S. Kierkegaard, Aut-Aut, Mondadori, Milano 1977, p. 15.
    10 S. Kierkegaard, Aut-Aut, op. cit., p. 194.
    11 Intorno a questo problema si possono trovare indicazioni preziose in C. Fabro, Introduzione a S. Kierkegaard, Diario, Morcelliana, Brescia 1980, vol. I, pp. 18-27. L'intera Introduzione di Fabro rappresenta un contributo di primissimo piano per la comprensione complessiva della vita e dell'opera del pensatore danese.
    12 S. Kierkegaard, Aut-Aut, op. cit., p. 191.
    13 Tra questi scritti emerge In vino veritas, prima parte della più vasta opera dedicata agli Stadi sul cammino della vita. Si tratta di un dialogo a cinque voci, vertente sul tema dell'amore; qui Kierkegaard propone varie formulazioni, progressivamente integrantisi, del punto di vista estetico, che vanno a intrecciarsi anche con altre riguardanti la dimensione etica. Il filo conduttore del dialogo è la considerazione negativa della donna, e i temi che vengono sviluppati sono quelli tipici del discorso kierkegaardiano sull'amore umano: la contraddittorietà del rapporto uomo-donna, il dissolversi della figura femminile in una «infinità di finitezze», il matrimonio inteso come alternativa alla dispersione che caratterizza la vita estetica (S. Kierkegaard, In vino veritas, Laterza, Bari 1983).
    14 S. Kierkegaard, Aut-Aut, op. cit. p. 45.
    15 S. Kierkegaard, Diario, op. cit., vol. IV, p. 58.
    16 C. Fabro, Introduzione a S. Kierkegaard, op. cit., p. 13. L'enigma degli pseudonimi rinvia anche a un altro aspetto della semantica culturale di Kierkegaard, quella che attiene alla messa in scena. Sugli elementi dell'opera kierkegaardiana ricollegabili a un modello teatrale ha insistito E. Paci, Kierkegaard e Thomas Mann, op. cit., pp. 98-123.
    17 S. Kierkegaard, Timore e tremore, Rizzoli, Milano 1986, p. 98.
    18 C. Fabro, Introduzione a S. Kierkegaard, Timore e tremore, op. cit., p. 6.
    19 P. Prini, Storia dell'esistenzialismo. Da Kierkegaard a oggi, op. cit., p. 46. A proposito della radicalità della dimensione religiosa nel pensiero kierkegaardiano, si pos..ono leggere le considerazioni sul concetto di fede come imitatio Christi espresse da M Schoepflin, Dall'ammirazione all'imitazione di Cristo, in Aa.vv., Kierkegaard. Esistenzialismo e dramma della persona, Morcelliana, Brescia 1985, pp. 203-211.
    20 S. Kierkegaard, Gli Atti dell'amore, Rusconi, Milano 1983, p. 146.
    21 C. Fabro, Introduzione a S. Kierkegaard, Gli Atti dell'amore, op. cit., p. 105.
    22 S. Kierkegaard, Gli Atti dell'amore, op. cit., p. 153.
    23 C. Fabro, Introduzione a S. Kierkegaard, op. cit., pp. 111-112.

    PREGHIERA
    Søren Kierkegaard

    Come si potrebbe parlare debitamente dell'amore, se Tu risultassi dimenticato, Tu il Dio dell'Amore [1], da cui viene ogni amore che si trova nel cielo e sulla terra [2]; Tu che non hai risparmiato nulla [3], ma tutto hai dato in amore; Tu che sei Amore, a tal punto che chi ama è quello che è solo con l'essere in Te! Come si potrebbe parlare debitamente dell'amore, se Tu risultassi dimenticato, Tu, che rendi manifesto ciò che è amore [4], Tu, nostro Salvatore e Redentore, Tu che hai dato Te stesso per salvarci tutti![5] Come si potrebbe parlare debitamente dell'amore, se Tu risultassi dimenticato, Tu Spirito dell'Amore, Tu, che non trattieni nulla di Tuo proprio [6], ma che ricordi quel sacrificio dell'Amore [7], Tu che ricordi al credente di amare come è stato amato [8], e di amare il prossimo come se stesso! [9] O Eterno Amore, Tu, che sei ovunque presente [10], e mai senza dare testimonianza [11] dove vieni invocato, Tu non far mancare la Tua testimonianza nemmeno su ciò che qui deve venir detto sull'amore, ossia sugli atti dell'amore. Perché certo vi sono solo alcuni atti che la lingua umana chiama in senso specifico e ristretto atti caritatevoli; ma in Cielo nessun atto può essere gradito se non è un atto dell'amore: sincero nell'abnegazione, un bisogno dell'amore, e proprio per questo senza alcuna pretesa di merito!

    1 Cfr. 1 Gv 4,7-8.
    2 Cfr. Ef 3,15.
    3 Cfr. Rm 8,32.
    4 Cfr. 1 Gv 4,9-10.
    5 Cfr. Ef 5, I -2.
    6 Cfr. Gv 16,13-15.
    7 Cfr. Gv 14,26.
    8 Cfr. Gv 15,9-12.
    9 Cfr. Mt 22,39.
    10 Cfr. Sal 139,7-12; Ger 23,23-24; At 17,24-27.
    11 Cfr. At 14,17.

    (Gli atti dell'amore. Alcune riflessioni cristiane in forma di discorsi)


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