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    L’enciclica di Francesco

    e Benedetto

    Carlo Molari

    francescoebenedetto

    La prima enciclica firmata da Papa Francesco (Lumen fidei, La luce della fede) ha caratteristiche molto particolari perché rappresenta la scelta di una continuità consapevole con il Magistero di Benedetto XVI, un atto di comunione fraterna, e per questo non rispecchia completamente la sua sensibilità e l'impostazione del suo pensiero. Non si possono perciò rintracciarvi le linee di un suo programma pastorale o gli orientamenti dottrinali del suo pontificato, come accadeva per le prime encicliche degli altri Vescovi di Roma. Il documento rappresenta una fase particolare del cammino della Chiesa cattolica e anche per questo oltre che per i temi affrontati, merita profonda riflessione.
    La prima parte è impostata polemicamente contro la presunzione di autonomia della ragione propria di molte correnti culturali contemporanee.
    Significativo è il fatto che pochi giorni prima della presentazione dell'Enciclica (che porta la data del 29 giugno, ma è stata resa pubblica il 5 luglio) una nota rivista italiana abbia pubblicato un numero dedicato all'ateismo come Almanacco di libero pensiero. Alle testimonianze di 28 atei di cittadinanza italiana vi è anche tradotto un testo inedito del filosofo e scienziato statunitense Daniel C. Dennet intitolato Ateismo ed evoluzione (perché non abbiamo bisogno di Dio).
    L'introduzione al numero, firmata dal direttore (che tra l'altro ha avuto anche un dibattito pubblico sulla fede in Dio con l'allora Prefetto della Congregazione della dottrina della fede, Cardinale Ratzinger) termina con queste affermazioni: «Sappiamo che Dio (personale o impersonale) e anima immortale sono ipotesi irrazionali, in conflitto con il sapere accertato. Aut fides aut ratio. La philo-sophia, l'amore per il sapere, lascia alla fede solo lo spazio del `credo quia absurdum'. Il cielo stellato sopra di noi e le leggi morali in noi non hanno bisogno di alcun Dio, comunque declinato. Dopo Darwin, almeno dopo Darwin, l'ateismo è l'orizzonte ineludibile della filosofia» (P. Flores d'Arcais, Le ragioni dell'ateismo e l'ateismo della ragione, in MicroMega, Ateo è bello 5/2013 p. 13 chiuso in redazione il 18 giugno).
    Non intendo ora riassumere i molti e profondi temi affrontati nella nuova Lettera enciclica, né analizzo le argomentazioni apologetiche e le risposte offerte alle argomentazioni degli atei.
    Intendo semplicemente chiarire l'importanza del riferimento a Cristo come Colui che «dà origine alla fede e la porta al compimento» (Eb. 12,2 citato al n. 57). Questa è la caratteristica della fede cristiana: affidarsi a Dio come rivelato nell'esperienza storica di Gesù, proseguendo il suo cammino di fede per questo egli è «l'apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo» (Eb 3,1).

    Incontro con testimoni

    Il cammino di fede comincia sempre con l'inserimento in una tradizione di testimonianza in virtù della quale credenti affidabili mostrano a quale forma di umanità o ricchezza di vita può condurre la fede. La forza per cui il cristianesimo si è diffuso nel mondo è stata la qualità dell'amore che sprigionava la fede in Dio vissuta «tenendo fisso lo sguardo su Gesù» (Eb 3,1; 12,2). L'enciclica nel n. 18 sottolinea che «abbiamo anche bisogno di qualcuno che sia affidabile ed esperto nelle cose di Dio» e inquadra in questo modo la figura di Cristo come «colui che ci spiega Dio», attraverso «il suo modo di conoscere il Padre, di vivere totalmente nella relazione con lui». Il numero inizia: «Nella fede, Cristo non è soltanto Colui in cui crediamo, la manifestazione massima dell'amore di Dio, ma anche Colui al quale ci uniamo per poter credere. La fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere» (n. 18). Qui la lettera si riferisce al cammino storico di Gesù: potremmo dire anche alla sua preghiera e alla sua fede «al suo modo di vedere». Ci uniamo a lui per poter credere. È il cammino di Gesù che condensa la sua testimonianza di Dio per cui diviene esperto della fede in Dio. In realtà la fede in Dio che egli suscitava negli altri era l'espressione della sua fede contagiosa. Se il numero 18 è stato aggiunto da Bergoglio l'interpretazione è legittima e la differenza comprensibile. Anche il n. 57, anch'esso quasi sicuramente aggiunto da Papa Francesco (per alcune sue espressioni caratteristiche), riprende lo stesso tema: «In Cristo, Dio stesso ha voluto condividere con noi questa strada e offrirci il suo sguardo per vedere in essa la luce. Cristo è colui che, avendo sopportato il dolore, 'dà origine alla fede e la porta a compimento', (Eb 12,2)» (n. 57 unica citazione).
    Altrove invece l'enciclica esclude la fede di Gesù. Cita Abramo come credente ma non Gesù. Anzi sostiene che solo in quanto risorto Gesù è testimone fedele. «In quanto risorto, Cristo è testimone affidabile, degno di fede (cfr Ap 1,5; Eb 2,17), appoggio solido per la nostra fede». (n. 17). Questa affermazione sorprende. La risurrezione infatti è oggetto della fede e non motivo della fede. Non crediamo in Dio perché Gesù è risorto ma crediamo nella risurrezione di Cristo perché crediamo in Dio e nella sua fedeltà. Gli apostoli non hanno creduto in Dio perché Gesù è risorto. Incontrando Gesù risorto hanno creduto nella sua messianicità e nella sua figliolanza. La testimonianza fedele Gesù l'ha offerta nella sua vita e soprattutto nella forma suprema di amore vissuta nella morte. In ogni caso la lettera agli Ebrei (citata nel n. 17) si riferisce alla testimonianza storica di Gesù. Sostiene, infatti, che il Messia è divenuto partecipe del sangue e della carne per prendersi cura della stirpe di Abramo: «Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo» (Eb 2,17). Quel Gesù di cui nel capitolo quinto della stessa lettera è detto: «nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui (= per la sua fede) venne esaudito. Pur essendo figlio, imparò l'obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb. 5,7-9 mai citati nella Enciclica).

    La fedeltà all'amore

    Gesù è diventato causa di salvezza per noi attraverso la sua fedeltà all'amore espres
    sione di una fiducia incondizionata nei confronti di Dio. Nel suo cammino di perfezionamento Gesù «abbandonatosi fiduciosamente in Dio» cioè in atteggiamento di fede, è giunto ad amare in modo da diventare «causa di salvezza eterna» per tutti coloro che si affidano a Dio.
    Anche nel prologo del quarto Vangelo Gesù è presentato come 'narratore di Dio' in quanto è inserito nella storia «è lui che lo ha rivelato» (exeghésato Gv. 1,18). Non è quindi in quanto risorto che Gesù è testimone di Dio ma in quanto credente, come Abramo lo fu.
    Giustamente l'Enciclica cita la Parola di Paolo: «Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede'» (n. 17) appunto perché la risurrezione è oggetto di fede, questa sarebbe vana se Cristo non fosse risorto. Ma la risurrezione non è la ragione per cui Gesù è diventato testimone fedele, bensì la prova che nella sua vita e soprattutto nella sua morte è stato testimone fedele. Egli aveva più volte parlato della risurrezione finale secondo la convinzione comune anche ai farisei. Già in questo modo egli aveva illuminato «anche le tenebre della morte» (n. 17). La resurrezione è il segno di una fedeltà radicale di Gesù all'amore esercitato nella vita e soprattutto sulla croce. Per questo Gesù è testimone fedele e lo rimane per sempre. La testimonianza di Gesù che suscita la nostra fede è tutta la sua storia e la fede in Dio che egli ha esercitato.
    A questo proposito è indicativa l'interpretazione di Galati 2,20: «questa vita che io vivo nel corso la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). È uno degli otto casi in cui Paolo usa l'espressione «fede di Gesù», che abitualmente però viene tradotta fede in Gesù. Gli esegeti che invece tengono conto della differenza interpretano l'affermazione nel senso che la fede esercitata da Gesù è ragione della nostra salvezza, e che noi ci salviamo unendoci alla sua fede in Dio. L'enciclica che sembra aver presente il problema precisa: «è certamente la fede dell'Apostolo delle genti in Gesù». Aggiunge però: «suppone anche l'affidabilità di Gesù, che si fonda, sì, nel suo amore fino alla morte, ma anche nel suo essere Figlio di Dio» (n. 17). Affidabilità ma possiamo aggiungere: anche 'affidamento in Dio' e quindi «l'apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo» (Eb 3,1 mai citato nella Lettera).

    (Rocca, 15/2013)


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