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    «Dopo quaranta giorni...

    ebbe fame»

    Monaci di Camaldoli

    1-Quaresima
    I vangeli di Marco, Matteo e Luca ci riportano l’episodio delle tentazioni di Gesù nel deserto. Secondo il racconto di Matteo e di Luca (Mt 4,1 e Lc 4,2) in quel deserto Gesù digiunò per quaranta giorni. Notiamo subito come sia in Matteo che in Luca il digiuno non è in realtà il punto centrale dell’episodio; lo è invece la lotta con satana. Ci chiediamo tuttavia, all’interno di questa scena, quale sia il ruolo che ha il digiuno di Gesù, visto che si tratta comunque di un tema importante, che la tradizione cristiana ha fatto proprio; basti pensare al legame evidente tra la nostra prassi quaresimale e i quaranta giorni di digiuno di Gesù nel deserto.
    Dobbiamo subito sottolineare il fatto che per Gesù il digiuno è chiaramente un mezzo e non un fine. Prima di tutto, infatti, il digiuno è l’occasione perché emergano le tentazioni: “fa’ che queste pietre diventino pane!”. In secondo luogo il digiuno è un mezzo - non il solo, come vedremo - per superare le tentazioni stesse. La risposta di Gesù alla prima tentazione si ricollega al celebre testo di Dt 8,3: “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (cf. Mt 4,3). In questo modo Gesù mostra con chiarezza qual’è la vera finalità del suo digiuno: far posto a Dio. La rinuncia al cibo serve a creare quello spazio in cui si inserisce la parola del Padre; l’uomo comprende così attraverso il digiuno ciò che è davvero essenziale per la sua vita.

    Il popolo di Israele nel deserto e il digiuno

    Nella scena delle tentazioni così come ci viene descritta dal vangelo di Matteo è evidente il collegamento con il racconto dell’esodo di Israele dall’Egitto e del cammino nel deserto; contrariamente al popolo di Israele, Gesù nei suoi quaranta giorni nel deserto vince la tentazione di porsi al posto di Dio. Tre citazioni esplicite tratte dal libro del Deuteronomio confermano questa volontà di Matteo di richiamare la storia del cammino di Israele nel deserto; si vedano i testi di Dt 8,3 citato in Mt 4,3; Dt 6,16 citato in Mt 4,7 e Dt 6,13 citato in Mt 4,10.
    Ora nel cammino dell’esodo il tema del cibo compare più volte in chiave negativa: fin dall’uscita dall’Egitto, infatti, il popolo domanda acqua, pane e carne (Es 15,24, il popolo chiede acqua; 16,3: chiede acqua e carne; 17,2, chiede ancora acqua). Ancora dopo aver ricevuto il dono della manna e delle quaglie Israele rimpiangerà i gustosi cibi dell’Egitto, benché mangiati in situazione di schiavitù (cf. ad esempio Num 11,1-6, la nostalgia delle cipolle e dei cocomeri del faraone!). Il cibo diviene un vero e proprio banco di prova per il popolo; la “prova” di cui parla il testo di Es 15,25: “in quel luogo (il Signore) lo mise alla prova”. La posta in gioco di questa prova è molto alta: è la libertà. Se l’uomo accoglie il dono di Dio (l’acqua dalla roccia, la manna, le quaglie...) allora esce definitivamente dal regime della cupidigia rappresentato dall’Egitto - del quale il popolo ha appunto nostalgia - ed entra nella sfera della libertà che il Signore ha donato a Israele nella Pasqua, conducendolo fuori dalla “casa delle schiavitù” (cf. Es 20,2) del faraone.
    Alla luce di questi episodi esodici si comprende meglio il valore del cibo e quindi del digiuno: il cibo non è dato all’uomo soltanto per la pura sopravvivenza, ma serve a mettere in luce la relazione profonda che c’è tra l’uomo e Dio e tra l’uomo e se stesso. Il desiderio di nutrirsi oltre misura e insieme il rifiuto del dono di Dio (la nausea della manna descritta in Num 11,6) smascherano la cupidigia del popolo che non è in grado di cogliere il dono di Dio. Per questo motivo il luogo dove il Signore punisce il popolo subito dopo avergli donato la manna e le quaglie prende il nome di Kivrot-Taava, ovvero “i sepolcri della cupidigia” (Num 11,34). Per questo il Sal 106 commenta: “arsero di brame nel deserto... e (Dio) saziò la loro cupidigia” (vv. 14-15).
    Tenendo conto di tutto questo sfondo esodico non appare affatto strano che Matteo e Luca facciano del cibo la prima tentazione di Gesù e dunque del suo digiuno la prima risposta del Signore a tale tentazione. Alla cupidigia stimolata dal tentatore, “fa’ che queste pietre diventino pane”, Gesù contrappone come si è visto la parola della Legge, citando il testo di Dt 8,3. In questo modo, il digiuno diviene il primo mezzo per vincere la cupidigia e ritrovare ciò che è essenziale; non tanto il pane, quanto colui che ce lo dona, ovvero Dio e la sua parola; il digiuno ci fa scoprire il donatore, prima ancora del dono.

    Un ritorno al giardino dell’Eden

    L’episodio delle tentazioni di Gesù nel deserto non richiama tuttavia soltanto il contesto dell’esodo; la presenza di satana e la triplice tentazione di Gesù si ricollegano anche all’episodio dell’uomo e della donna nel giardino dell’Eden, là dove la donna, tentata insieme all’uomo di porsi al posto di Dio (“sarete come Dio”; Gen 3,5), si scontra anch’essa con una triplice tentazione. L’albero della conoscenza del bene e del male, infatti, viene descritto come “buono da mangiare, gradito agli occhi, desiderabile per acquistare saggezza” (Gen 3,7). Sono queste le stesse tentazioni alle quali è sottoposto Gesù: il desiderio di mangiare, di far proprio il dono di Dio; il desiderio “degli occhi”, che nel nel caso di Gesù diviene il buttarsi giù dal pinnacolo del tempio perché tutti vedano che gli angeli lo sostengono, e la superbia della vita; quest’ultima, se nella Genesi si manifesta come sapienza, nel caso di Gesù si manifesta come potere; “tutto questo sarà tuo...”.
    In tal modo nel testo di Gen 3,1-7 il frutto dell’albero diviene un vero e proprio test per l’essere umano; anche qui il cibo è cifra del rapporto tra Dio e l’uomo. Egli, che alla luce della parola divina di Gen 2,16-17 potrebbe mangiare di tutto, vuole invece mangiare il tutto; così l’essere umano non riconosce più che nel cuore del dono che gli è stato fatto (“tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino”) c’è in realtà un solo limite, che è non tanto l’albero della conoscenza del bene e del male, quanto piuttosto ciò che esso rappresenta, ossia Dio stesso, l’autore del dono.
    Collocato anche su questo sfondo genesiaco il digiuno di Gesù nel deserto appare un elemento particolarmente importante; rinunciando al cibo, Gesù rinunzia in realtà alla tentazione di appropriarsi del dono di Dio e dunque di sostituirsi a lui; sfugge alla tentazione di piegarsi a disegni umani legati al successo e al potere. Detto nelle parole di Paolo, Gesù “pur essendo di natura divina, non considerò una rapina l’essere uguale a Dio...” (Fil 4,5). Il digiuno di Gesù è così la risposta che il Figlio di Dio offre alla tentazione di mangiare il frutto dell’albero proibito; tale risposta restaura in Gesù un nuovo rapporto dell’uomo con Dio.

    Digiuno, conversione e pedagogia divina

    Ma la nostra analisi del significato del digiuno di Gesù nel deserto non si ferma qui; è necessario, infatti, per comprendere ciò che fa il Signore, ricordare quale fosse il senso del digiuno nel giudaismo del tempo, alla luce dei testi delle Scritture di Israele.
    Il digiuno è prima di tutto un mezzo pedagogico, proprio come ci dice il già ricordato testo di Dt 8,3 e proprio come è avvenuto a Israele nel suo cammino del deserto. Dio costringe il popolo al digiuno; il desiderio di nutrirsi viene sospeso così da imparare ciò che è davvero essenziale per la vita: la parola del Signore. Per i profeti, la privazione del cibo e quindi un digiuno non cercato ma subìto divengono il segno della punizione del Signore che vuole così ricordare al suo popolo da quale parte provenisse il dono; si leggano al riguardo i testi di Os 2,10.11.14. Proprio la privazione forzata del cibo porterà il popolo recalcitrante a riconoscere che solo Dio è in grado di nutrirlo.
    L’ebraismo conosce tuttavia un digiuno volontario, pratica molto seguita ai tempi di Gesù, che esprime essenzialmente una esigenza di carattere penitenziale. Si veda ad esempio l’appello che apre il libro di Gioele (cf. Gl 1,13-14; 2,12.15) e che la chiesa cattolica ha significativamente ripreso all’interno della liturgia del mercoledì delle Ceneri. Il digiuno è per Gioele il segno del ritorno del popolo al Signore: “ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti” (Gl 2,12). Rinunciando al cibo, il popolo esprime in un gesto concreto e coinvolgente il suo desiderio di conversione. Un caso non molto diverso da questo è quello del digiuno bandito dal re di Ninive al seguito della predicazione di Giona (Gn 3,7-8), un digiuno che non è certamente un atto formale, poiché è accompagnato dalla rinunzia al male e soprattutto alla violenza. Qui comprendiamo che digiunare significa stabilire una distanza non solo nei confronti del nutrimento, ma anche dalla cupidigia che spesso ad esso si accompagna. In questo modo, il libro di Giona può stabilire un rapporto davvero molto stretto tra il digiuno e la rinunzia alla violenza; rinunziando al cibo ci si apre perciò all’altro. E’ la stessa tematica che compare nel testo di Is 58,6-7, dove sembra quasi che il profeta polemizzi contro la pratica del digiuno; in realtà, il testo isaiano ci ricorda che il vero digiuno deve essere sempre accompagnato dall’eliminazione della violenza e dell’oppressione esercitata nei confronti dell’altro:

    “Non è forse questo il digiuno che desidero?
    Rompere le catene ingiuste,
    sciogliere i vincoli del giogo,
    rimandare in libertà gli oppressi,
    spezzare ogni giogo?
    Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato,
    far entrare da te i poveri senza tetto,
    vestire chi è nudo...?”.

    Solo un digiuno che va di pari passo con la rinunzia alla violenza e con l’accoglienza generosa dell’altro è un digiuno autentico. Ora questo aspetto che senza dubbio caratterizza il digiuno descritto nell’Antico Testamento si ritrova anche nel digiuno di Gesù nel deserto. La terza tentazione descritta da Matteo (4,8-9) è chiaramente relativa al potere: “tutte queste cose io ti darò se prostrandoti mi adorerai”. Con il suo digiuno Gesù rinunzia sin dal principio a fondare la sua missione messianica sulla forza dei poteri mondani e da inizio a una vita interamente spesa per l’altro, sino alla morte. Il digiuno di Gesù è così di fatto sulla linea di quello descritto dal testo di Isaia di cui abbiamo appena parlato: è una dichiarazione di una rinunzia alla violenza e di completa apertura all’altro. Ciò è evidente nella redazione di Luca più che in quella di Matteo; Luca infatti all’episodio delle tentazioni (Lc 4,1-13) fa subito seguire l’enunciazione del programma di Gesù nella sinagoga di Nazareth (4,16-21), un programma condotto proprio su temi isaiani non certo lontani dal vero digiuno descritto in Is 58,6-7. Il portare il lieto messaggio ai poveri è così proprio la prima conseguenza del digiuno nel deserto.

    Il digiuno del discepolo di Gesù

    Occorre a questo punto sottolineare come l’unica catechesi esplicita di Gesù sul digiuno si trovi all’interno del discorso della montagna, ancora nel vangelo di Matteo, due capitoli appena più avanti dell’episodio delle tentazioni; qui, in Mt 6,16-18, Gesù accosta la pratica del digiuno a due altre pratiche tipiche del giudaismo del tempo, ovvero l’elemosina e la preghiera. L’apertura all’altro insieme all’apertura a Dio costituiscono così le condizioni essenziali perché il digiuno sia autentico e non uno dei tanti atti di ipocrisia religiosa che si fanno “per essere visti dagli uomini”.
    Osserviamo come, proprio a proposito della preghiera, Matteo inserisca esattamente in questo contesto la preghiera del “Padre nostro” (6,9-13) che al suo cuore contiene proprio la richiesta del dono del pane (Mt 6,11). Il digiuno consiste perciò, per il discepolo di Gesù, l’aprire in se stesso quello spazio necessario per accogliere il dono di Dio e per anche l’altro, proprio così come è stato per Gesù nel deserto; a questo riguardo non va trascurata la connessione posta in Matteo tra il digiuno e l’elemosina. Privo di queste dimensioni ogni digiuno diventerebbe soltanto una sterile prodezza ascetica, del tutto fine a se stessa e alla fine persino contraria ai disegni di Dio.

    Il valore del digiuno di Gesù

    Al termine di questi spunti di riflessione provenienti dalla Scrittura è giunto il momento di trarre qualche conclusione sintetica circa il senso del digiuno di Gesù descritto nell’episodio delle tentazioni.
    Il digiuno di Gesù, come tutte le pratiche dell’ascesi cristiana, è, lo ripetiamo, un mezzo e non un fine. Esso è legato alla preghiera, prima di tutto, e quindi all’ascolto della Parola di Dio. Non dimentichiamo che proprio ricordando a satana la Parola Gesù ne vince le tentazioni. Non si digiuna perciò per diventare migliori, per ottenere un qualche risultato positivo in vista di un autoperfezionamento e del raggiungimento di una qualche forma di santità più elevata. Si digiuna, come Gesù, per togliere via quel superfluo che ci impedisce di rivolgerci al Padre comprendendo ciò che è davvero essenziale per vivere: la sua Parola.
    Questo superfluo, alla luce del doppio contesto esodico e genesiaco del racconto delle tentazioni di Gesù, è la nostra cupidigia, che ci conduce a dimenticare il valore del dono, ad aprirci alla violenza nei confronti dell’altro. Il digiuno crea nell’uomo la possibilità di aprirsi a Dio e quindi al fratello. Luca sottolinea che fu lo Spirito a condurre Gesù nel deserto (4,1) e l’esperienza del digiuno, della preghiera, dell’ascolto della Parola, fanno sì che Gesù possa uscire proprio da quel deserto “con la potenza dello Spirito” (4,14). Il digiuno è così imparare a disporre di se stessi per poterci aprire al dono dello Spirito. In una parola, la gestione della propria oralità e della cupidigia ad essa associata è apprendere la via per uscire dal regime del possesso e della rapina per entrare in quello del dono e della comunione.


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