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    La santità

    della porta accanto,

    alla luce della

    Gaudete et exultate

    Dossier di "Orientamenti pastorali" 12/2018

    La santità della vita quotidiana
    Domenico Sigalini

    L'esortazione apostolica Gaudete et exsultate di papa Francesco propone senza preamboli o mezzi termini la santità come dono di Dio a ogni persona nella sua vita di ogni giorno, con concretezza estrema e profonda visione teologica. In essa emerge determinante un punto di vista che dà ampiezza a tutto il discorso sulla santità, che va innanzitutto sdoganato da facili e comodi pregiudizi che la collocano abitualmente in straordinari eventi e per persone che vivono in un mondo apposito, un po' fuori dalla vita quotidiana. Un punto di vista, invece, quello indicato dall'esortazione apostolica, che diventa la chiave ermeneutica per capire il senso del nostro esistere: la vita, le lotte, le sofferenze, le piccole e grandi gioie, le contraddizioni di ogni giorno, le stesse fragilità, sono necessari e sufficienti per vedere concretamente e capire la presenza del Signore Gesù che si fa compagno di strada con la sua grazia e la sua tenerezza. Rileggiamo innanzitutto il pensiero di papa Francesco, che propone la santità come meta desiderabile e dono di Dio a ogni persona, risposta quotidiana alla chiamata di Dio. Una strada bella, affascinante, delicata e impegnativa, senza essere vista tropo lontana o segnata solo e soprattutto da ascesi impossibili, sofferenze scoraggianti, ma donata nei sentimenti e attese di ogni giorno nella vita delle persone: è la strada delle beatitudini. Si tratta, e questo è uno dei percorsi che ci suggerisce il papa, di aiutare a coniugare l'assoluto con il relativo, la perfezione con la fragilità, l'eternità con la storia, la vita di assoluta concretezza e la presenza di Dio in questa piccola storia di persone di uomini fragili, sofferenti e gioiosi.
    La comunità cristiana è il luogo ermeneutico per riconoscere la presenza di Dio e discernere i segni della sua chiamata. Parola di Dio, vita concreta, sfide all'umanità di ciascuno hanno bisogno di trovare unità di proposta e di accoglienza da parte della persona concreta.
    Nella santità vanno letti tutti i doni di Dio, le sue attese, le nostre fragili risposte, il percorso per fare unità tra fede e vita.
    Ecco la via che offriamo per entrare con semplicità, ma anche con determinazione, nella conoscenza del messaggio di papa Francesco e nella realizzazione che, di esso, Dio ci concederà di operare nelle nostre vite.

    La vita cristiana è un cammino di santità
    Rilettura dell'esortazione apostolica Gaudete et exsultate
    Giuseppe Alcamo *

    Il trittico di papa Francesco

    Le esortazioni apostoliche di papa Francesco sono come un trittico da contemplare e studiare in continuità, anche se ognuna di esse ha una sua configurazione specifica. Credo di non esagerare se affermo che attraverso queste tre esortazioni veniamo a conoscere il personale cammino spirituale di papa Francesco, le sue guide, la sua esperienza di santificazione. Ciò che lega tutte tre le esortazioni è il tema della gioia che nasce dal puntare sull'essenziale, sul kerigma, che nell'Evangelii gaudium (EG) viene così definito: «E il fuoco dello Spirito che si dona sotto forma di lingue e ci fa credere in Gesù Cristo, che con la sua morte e resurrezione ci rivela e ci comunica l'infinita misericordia del Padre» (EG 164).
    Questa descrizione del kerigma è originale, perché lo colloca esplicitamente dentro la totalità del mistero della Trinità, richiamando al-la memoria la professione di fede ecclesiale, come messaggio semplice e unitario, maturato dentro il grembo vivo della Chiesa, che non può mai essere ridotto a una formula astratta di verità.
    Il kerigma, per papa Francesco, è l'esperienza viva che, dentro la Chiesa, a un cristiano è possibile fare di Dio uno e trino; l'esperienza viva a cui Gesù di Nazaret ha iniziato e introdotto i Dodici e la totalità della Chiesa nascente, sostenendoli con la forza dello Spirito; l'esperienza viva che nel tempo lo stesso Spirito permette di fare a tutti coloro che accolgono Gesù come Cristo, l'inviato del Padre.
    Una esperienza viva e quotidiana che nella Gaudete et exsultate (GeE) viene così descritta: «Ci occorre uno spirito di santità che impregni tanto la solitudine quanto il servizio, tanto l'intimità quanto l'impegno evangelizzatore, così che ogni istante sia espressione di amore donato sotto lo sguardo del Signore. In questo modo, tutti i momenti saranno scalini nella nostra via di santificazione» (GeE 31).
    L'Evangelii gaudium del 24 novembre 2013, è l'esortazione apostolica sull'annuncio del vangelo nel mondo attuale. È una esortazione postsinodale, come conclusione del XIII sinodo dei vescovi, dedicato alla «Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana», e diventa anche il programma d'inizio di ministero di papa Francesco.
    È la prima delle tre esortazioni che pone a tema la gioia legata al vangelo. Una gioia, quella di cui parla Francesco, radicata in Dio, accolta come dono e vissuta come sfida alle difficoltà della vita quotidiana; una gioia, quella cristiana, che si contrappone ai piaceri della logica di una vita comoda e superficiale, che cerca il futile e non si assume le proprie responsabilità.
    Per l'uomo, in quanto uomo, la gioia non è un di più, qualcosa di cui potrebbe fare a meno; è il motivo per cui ogni giorno si affatica e lotta, magari anche, qualche volta, sbagliando strada o identificandola con qualcosa che lo porta lontano da essa; l'uomo per tutta la vita cerca la gioia e non trova serenità al di fuori di essa.
    Ma la gioia cristiana di cui parla Francesco è altro, e si fonda sull'Altro, ha il sapore della santità, percorre la via della fedeltà, esprime la scelta personale di vivere fino in fondo la fedeltà al vangelo, e, consapevole dell'umana fragilità, pone la sua sicurezza in colui che tutto può. La gioia cristiana non teme di essere rubata da qualcuno, perché solo chi la possiede, decidendo di vivere contro di essa, se ne può privare; trova la sua dimora nel cuore dell'uomo, ma la sua origine non è nell'uomo. La gioia cristiana permette di vivere su un'altra dimensione, quella di Dio, apre altre prospettive che sono contagiose e invitano alla sequela. Tutto ciò che è cattivo umore, chiusura, rigidità, malinconia, tristezza, lamentela va nella direzione opposta alla realizzazione piena della vita, non aiuta l'uomo a essere uomo ed è in contrapposizione con la gioia del vangelo. Gioia e santità nell'Evangelii gaudium si equivalgono.
    L'Amoris laetitia, del 19 marzo 2016, è l'esortazione apostolica sull'amore nella famiglia, frutto del sinodo sulla vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo.
    L'esortazione è il punto di arrivo di un percorso di attento ascolto del popolo di Dio e di confronto, franco e schietto, nella collegialità episcopale, cum et sub Petro, iniziato nel novembre del 2013 con il primo questionario inviato alle diocesi, a cui fa seguito il concistoro del febbraio 2014, dove papa Francesco ha chiesto di discutere sulla famiglia, affidando la relazione introduttiva al cardinale Walter Kasper. Poi, le due assemblee sinodali: la III Assemblea generale straordinaria sul tema Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell'evangelizzazione, del 5-19 ottobre 2014; e la XIV Assemblea generale ordinaria, sul tema Gesù Cristo rivela il mistero e la vocazione della famiglia, del 4-25 ottobre 2015. Un cammino lungo che ha coinvolto la Chiesa in tutte le sue espressioni, per comprendere come la vita familiare e la vita coniugale possano essere oggi il luogo della santità vissuta.
    L'amore resta sempre la bussola che deve orientare il cammino di tutti e di tutta la Chiesa; le esigenze dell'amore non permettono di accontentarci di facili sconti, ma non innalzano mai muri invalicabili. L'amore sa trovare vie inedite di comunione e di intimità con il Signore, dentro la Chiesa. Qui la gioia è declinata dentro la vita coniugale e familiare, come cammino di santità che chiede coraggio e audacia, perseveranza e costanza. Una gioia che guarda in faccia la fatica del vivere familiare e che trova dentro la Chiesa l'habitat giusto per mettere radici. L'amore è fonte di gioia vera, quella che non finisce anche quando la fatica di vivere fa sentire tutto il suo peso.
    Infine, la Gaudete et exsultate del 19 marzo 2018, una esortazione apostolica sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo. Papa Francesco, con questa terza esortazione apostolica, si propone di esplicitare l'universale chiamata alla santità, contestualizzandola dentro la vita di oggi (cf. GeE 2).
    Francesco vuole affermare «l'attualità perenne della santità cristiana, presentandone il contenuto, così come è narrato dalla Scrittura, in modo da poterla proporre a tutti come meta desiderabile del proprio cammino umano, come una chiamata che Dio rivolge a ciascuno».[1]

    La santità rende straordinaria la vita

    L'esortazione, per esplicito volere del suo autore, non è un trattato sulla santità, ma un invito a porre davanti a sé questa via che conduce a pienezza la vita. La santità è vivere l'ordinario in modo straordinario, cioè nella gioia e nell'amore. La gioia e l'amore, come frutti dello Spirito, rendono saporita questa vita in tutte le sue espressioni, anche nelle sue realtà non facili e a volte dolorose.
    Francesco, citando il cardinale vietnamita Francesco Saverio Nguyén Van Thuàn, che ha passato molti anni della sua vita in carcere, scrive: «"Vivo il momento presente, colmandolo di amore"; e il modo con il quale si concretizzava questo era: "Afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in un modo straordinario"» (GeE 17). L'ordinario, la vita semplice e quotidiana vista come spazio che Dio offre per rendere visibile lo straordinario, cioè, l'amore di Dio concreto e storico, che va incontro all'uomo per dare un senso a tutto quello che, senza di lui, non ha senso. Nel caso del cardinale vietnamita, il carcere come luogo teologico dove vivere l'amore di Dio e rendere testimonianza della bellezza della vita. Per noi, il nostro lavoro, la nostra casa, il nostro ambiente concreto dentro cui scorrono le ore del nostro tempo.
    L'esortazione è strutturata in cinque capitoli, suddivisi in 177 numeri: il primo capitolo descrive la chiamata alla santità (nn. 3-35); il secondo capitolo mette in guardia contro due sottili nemici della santità (nn. 36-64); il terzo capitolo descrive il cammino delle beatitudini come esemplare per vivere in santità (nn. 65-109); nel quarto capitolo si evidenziano alcuni elementi della santità nel mondo attuale (nn. 112-158); e infine, nell'ultimo capitolo per concludere parla del combattimento, della vigilanza e del discernimento (nn. 159-177).
    Nel corso del testo si incrociano diverse figure di santi appartenenti alle diverse spiritualità, che nel tempo lo Spirito ha fatto nascere: dai padri e dottori della Chiesa – Agostino, Tommaso d'Aquino, Bonaventura, Basilio Magno, Giovanni Crisostomo – alla tradizione monastica con Bernardo di Chiaravalle, Giovanni della Croce, Teresa d'Avila, Edith Stein e Teresa di Lisieux; dai francescani, ai gesuiti; dai fondatori dei servi di Maria a Filippo Neri fondatore della congregazione dell'oratorio; e infine, Teresa di Calcutta, Charles de Foucauld, Faustina Kowalska, i monaci di Tibhirine, e tanti altri, fino ad arrivare a padre Brochero canonizzato nel 2016, a Hans Urs von Balthasar, al cardinale Martini.
    Una lunga e articolata geografia spirituale per mostrare la santità come un poliedro dalle molte sfaccettature, ricca di storia ma sempre attuale. La via della santità non omologa e non è riciclabile, è sempre una via originale e inedita, anche quando traccia un sentiero che è percorso da molti altri. Santità è una parola antica, che trova la sua radice, per noi cristiani ma anche per gli ebrei, nel desiderio di Dio stesso: «Siate santi perché io, il Signore, sono santo» (Lev 11,44). Scrive Francesco: «Egli ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un'esistenza mediocre, annacquata, inconsistente (Gen 17,1)» (GeE 1).
    Parlare di santità per affrontare il male di vivere, il non senso dell'esistenza. Santità in opposizione a superficialità, mediocrità, a un cristianesimo annacquato, perché potrebbe succedere di cedere alle tentazioni di adulterare la nostra fede per desiderio di approvazione, per non entrare in dispute che ci pongono in minoranza, per moda o per accondiscendere alle esigenze dei nostri contemporanei (cf. GeE 161).
    Santità come forma e stile di una vita all'insegna della fedeltà; come direzione da dare alla totalità della propria vita. Tutto questo però senza credere che la santità sia frutto di una sapienza umana o ubbidienza a tutte le regole. Francesco mette in allarme contro quella sapienza che chiude in se stessi, che fa diventare il centro del mondo e a quella ubbidienza legalista che fa insuperbire giudicando gli altri inferiori a se stessi.
    La santità dà accesso a un'altra sapienza, frutto di una relazione che è iniziata da Dio e che da noi con umiltà viene riconosciuta come fondante per se stessa. Accogliere questa fondante relazione ci permette di riconoscere gli altri come interlocutori necessari per continuare a vivere in quella relazione con Dio. Dio è il tre volte santo e dona la possibilità di vivere della stessa vita divina.
    La santità per il papa è l'esperienza cristiana in quanto tale, in ogni sua espressione e forma. I cristiani, sin dai primi tempi, sono chiamati e si reputano «i santi», senza per questo millantare né davanti agli uomini né al cospetto di Dio una propria rettitudine morale, anzi riconoscendosi pubblicamente e con insistenza deboli e peccatori.
    L'icona riferita dal Vangelo di Luca, del fariseo e del pubblicano che si recano al tempio per pregare, e che escono dal tempio il primo con un ulteriore peccato di superbia e il secondo con il dono del perdono, è lo specchio in cui specchiarsi (cf. Lc 18,9-14).
    Per Luca, il fariseo formale e legalista, che rivendica la sua giustizia davanti a Dio è l'opposto del santo; mentre, il pubblicano, che prova vergogna per la sua vita infedele e che si mortifica per gli errori commessi, chiedendo perdono e proponendosi di non farlo più, è colui che si incammina decisamente verso la santità, perché da Dio giustificato; non si è autogiustificato, ma si è lasciato giustificare da Dio.
    Il papa, ricollegandosi al NT, ci ricorda sommessamente che i veri santi non sono persone che rivendicano la perfezione, ma uomini e donne che hanno fatto esperienza del perdono di Dio e, in forza di questo perdono, sono stati resi capaci di misericordia, di ascolto, di assumersi la responsabilità verso chi è debole e bisognoso.
    Una santità «feriale», «della porta accanto», «della classe media», che si realizza attraverso gesti quotidiani che fanno gustare il dolce sapore del vangelo. I cristiani abbiano la consapevolezza di essere, più che santi da noi stessi, «santi per vocazione», come scrive san Paolo. E «siccome colui che vi ha chiamati è santo – spiega Pietro nella sua prima lettera – voi pure dovete essere santi in tutta la vostra condotta, come sta scritto: siate santi, perché io sono santo» (1Pt 1,15).
    La citazione veterotestamentaria prodotta da Pietro, ci rimanda difatti allo Shemà Israel, la professione di fede dell'antico Israele, che annuncia il primato di Jhwh Adonai nella vita del credente e che declina le forme di un monoteismo «totalitario», in quanto investe e impegna il credente in ogni dimensione della sua esistenza e in ogni momento della sua vita: egli dovrà avere rapporto d'amore solo con l'unico Dio, sempre e dovunque, quando sarà sveglio e quando dormirà, quando camminerà per strada e quando siederà a casa propria, quando tratterà i suoi commerci e quando starà con i suoi familiari, in ogni sua attività pubblica e anche in privato, legandosi un filo al dito e dipingendo lo stipite esterno della sua abitazione come promemoria di questo precetto, per essere sempre nella condizione di ricordarselo e di farselo ricordare dagli altri.[2]
    Il popolo di Israele lo sa per esperienza e i profeti più volte lo hanno ricordato: se si ha a che fare con il Dio di Abramo, allora questi dev'essere il tutto della vita di chi crede e tutta la vita del credente dev'essere ricondotta a Dio. Mettere Dio e gli idoli sullo stesso piano per Jhwh Adonai è insopportabile; lui è geloso!
    Chiediamoci: che cos'è un idolo? Possiamo rispondere: qualcosa o qualcuno che, pur essendo relativo viene assolutizzato; l'idolatria è porre la propria speranza di ricevere, da qualcosa o da qualcuno, ciò che solo Dio ti può dare. Il campo dell'idolatria è vastissimo. Possiamo essere idolatri in tantissimi modi. Si può essere idolatri di una persona, di una idea, di un sentimento, di tante cose che vanno dal potere al denaro al piacere. Possiamo arrivare al punto da assolutizzare perfino noi stessi.
    Ognuno di noi sa per esperienza, quante cose assurgono al ruolo di idolo dentro la propria vita? Per vincere l'idolatria può essere opportuno rileggere la storia della salvezza, rileggere l'attraversamento del deserto compiuto da Israele, rileggere l'itinerario di Cristo, rileggere l'itinerario della Chiesa; e perché no, rileggere l'itinerario personale e ricomprendere come Dio ci ha fatto volare su ali d'aquila.
    Elia sul monte Carmelo – dove viene descritto uno dei più spettacolari episodi, la teofania di Dio che rivela la sua esclusiva unicità in contrapposizione alla cultura politeista dei popoli vicini e che Acab, con la moglie Gezabele, aveva introdotto inquinando la fede del popolo eletto – dice al popolo: «Fino a quando salterete da una parte all'altra? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!» (1Re 18,21). La santità del popolo si deve esprimere nel decidere di non saltellare da Dio agli idoli e dagli idoli a Dio. [3]
    I temi che vengono affrontati nella sfida sul monte Carmelo sono quelli della unicità di Dio e della sequela del popolo di Israele; cioè, i temi della identità di Dio e della santità del popolo; i testimoni di questa sfida sono i membri del popolo stesso che, disorientati dalle scelte del re e della sua corte, non sanno più decidersi da che parte stare.
    L'infedeltà di colui che ha la responsabilità di governare sul popolo ha delle ripercussioni sulla fede d'Israele; il popolo sente il bisogno di avere nel suo re, anche dal punto di vista della fede e dei valori, un riferimento sicuro, una scelta chiara. La doppia morale di coloro che governano, oltre a esprimere la loro infedeltà, crea confusione e disorientamento dentro la vita del popolo.
    Per noi cristiani, con le diverse vocazioni che ci caratterizzano, questa è una prima provocazione: tutti ci guardano, anche coloro che si considerano lontani e senza fede e si attendono dalla Chiesa e dai singoli cristiani coerenza e fedeltà. Anche coloro che affermano di non far parte delle nostre comunità, cercano in noi adulti nella fede un punto di riferimento sicuro, pretendono e hanno diritto di trovare una maggiore coerenza e fedeltà.
    Lo sappiamo, perché purtroppo è sotto gli occhi di tutti, il nostro peccato, la nostra mediocrità, i nostri scandali hanno una risonanza maggiore e indignano tutti, credenti e non credenti; molto disorientamento esistenziale, tra tutte le generazioni, è anche causa di una nostra fedeltà non sempre limpida e facilmente identificabile.
    Lo stile con cui trascorriamo le nostre giornate, il nostro linguaggio corrente, le nostre relazioni, i nostri discorsi informali, l'uso che facciamo delle nostre risorse economiche, il modo come trattiamo i nostri dipendenti o colleghi, tutto questo e altro ancora ha una incidenza non solo sulla qualità della nostra vita di fede, ma anche sulla vita di tutti coloro che interagiscono, direttamente o indirettamente, con noi; la trasmissione della fede, l'evangelizzazione passa anche attraverso questi canali; di tutto questo non possiamo far finta di non essere responsabili. A questa responsabilità la santità ci richiama.
    Il tema della santità chiama in causa l'identità di Jhwh Adonai, l'identità della Chiesa e l'identità di noi singoli cristiani. Parlare di santità significa cercare di delineare il volto che abbiamo davanti a Dio e davanti agli uomini. In fondo la santità mostra il volto di Dio all'uomo di oggi attraverso il nostro volto.
    Il concilio Vaticano II ha recuperato questa antica consapevolezza, insegnando nel n. 40 della Lumen gentium che tutti i cristiani, di ogni condizione e stato, per il fatto stesso che sono battezzati, sono chiamati a essere santi. Una santità legata al dono del battesimo. Ma già nel numero 11 della stessa costituzione dogmatica, parlando del sacerdozio comune esercitato nei sacramenti, i padri conciliari affermavano: «Tutti i fedeli d'ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità, la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste».
    La santità, in quest'ottica, è tutta l'esperienza cristiana e quindi a essa non si sottrae niente di ciò che dell'umano l'esperienza cristiana assume e redime. La santità è la vocazione di tutti, che poi deve realizzarsi nelle diverse vocazioni a cui ciascuno è chiamato, «ognuno per la sua via», dice la Lumen gentium. Santità come pienezza di vita, ma anche come missione da accogliere e portare a compimento. In questa missione, lo Spirito Santo riproduce i lineamenti del volto di Cristo oggi.
    Scrive papa Francesco: «Per un cristiano non è possibile pensare alla propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità, perché "questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione" (1Ts 4,3). Ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del vangelo. Tale missione trova pienezza di senso in Cristo e si può comprendere solo a partire da lui. In fondo, la santità è vivere in unione con lui i misteri della sua vita. Consiste nell'unirsi alla morte e risurrezione del Signore in modo unico e personale, nel morire e risorgere continuamente con lui. Ma può anche implicare di riprodurre nella propria esistenza diversi aspetti della vita terrena di Gesù: la vita nascosta, la vita comunitaria, la vicinanza agli ultimi, la povertà e al-
    tre manifestazioni del suo donarsi per amore» (GeE 19-20).
    Santità come disponibilità ad accogliere la missione che viene affidata al cristiano, «in un momento determinato della storia», per mostrare un aspetto del vangelo. Ogni cristiano è chiamato a rendere visibile, da una prospettiva particolare, il tutto del vangelo; è come una feritoia, posta dentro il mondo, che permette di osservare il tutto, la pienezza della vita.
    Questa visione della santità prende le distanze da tutto ciò che è disumano, che limita la vita dell'uomo, che la ferisce o impoverisce, che la corrompe o la rende opaca; mentre valorizza ed esalta tutto ciò che umanizza l'uomo, che lo rende vero, buono, giusto. Questa santità che è dono di Dio, si incarna nella storia e si esplicita nella concreta vita di ogni uomo, che accoglie questo dono.

    La santità del popolo di Dio

    Quello che il cristiano è chiamato a vivere in modo personale, è un dono che Dio fa al suo popolo: «LO Spirito Santo riversa santità dappertutto nel santo popolo fedele di Dio, perché "Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame Ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità" (LG 9). Il Signore, nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo» (GeE 6).
    L'appartenenza al popolo santo di Dio, per accogliere la santità come dono di Dio, è un vincolo di cui non possiamo fare a meno, non è qualcosa di marginale bensì costitutivo. Il cammino di santità non può essere pensato in termini individualistici o in conflitto con gli altri. È un cammino di popolo, dentro cui si trovano le singole persone. L'habitat della santità a cui Gesù Cristo ci ha dato accesso è la vita del popolo.
    Ma chi è questo popolo che, a volte con molta enfasi, chiamiamo santo? È la mia famiglia, sono i miei vicini, i miei colleghi, gli amici del calcetto, quelli del muretto o del circolo, coloro con cui condivido la mia vita quotidiana. Il popolo di Dio, santo per vocazione, sono tutti coloro che mi circondano e che consapevolmente o inconsapevolmente mi mostrano il volto di Cristo risorto. Non si sta parlando di una santità al ribasso, ma di una santità che si abbassa, che diventa concreta e accessibile a tutti, che contagia, che seduce, che provoca e invita all'imitazione. Una santità fatta di buone azioni, di buon umore, di rispetto, di attenzione, di ripresa del dialogo, di attesa amorosa, di vita concreta. Papa Francesco riflette non su una santità da immaginetta, ma di vita virile e storica, quella che è accessibile a tutti.
    Non si diventa santi da soli: il marito e la moglie sono chiamati a diventare santi insieme e a introdurre i propri figli dentro la loro vita santa; il presbitero è chiamato a diventare santo dentro la comunità che è chiamato a presiedere e non nonostante la comunità, la stessa cosa vale per i religiosi; il vescovo è chiamato a diventare santo dentro il presbiterio che gli è stato affidato e non senza i suoi presbiteri. Siamo il corpo di Cristo, come Chiesa, perché tutti insieme siamo chiamati a vivere della stessa santità di Cristo. Dentro questa Chiesa, ortodossia e ortoprassi non sono due cose separabili, si complicano e si esplicitano reciprocamente.
    Il primo segno della vera santità è sentire il bisogno di non poter fare a meno degli altri; l'individualismo e la pretesa di autosufficienza non possono essere percorribili alla luce del vangelo; abbiamo bisogno gli uni degli altri, di sentire che la nostra vita è inserita in quella del popolo di Dio, dentro cui lo Spirito aleggia.
    La santità per essere autentica deve inculturarsi attraverso un processo dialogico con il popolo che vive in un determinato territorio, facendo sue tutte le realtà positive di quel popolo e cogliendo in esse la presenza preveniente dello Spirito che precede sempre l'azione della Chiesa.
    Questo processo di inculturazione della vita di fede, per la Chiesa, non può essere una semplice azione di adattamento culturale, quanto una riscoperta gioiosa che lo Spirito, ancora oggi, non solo accompagna la Chiesa, ma la precede e prepara il terreno per l'annuncio fruttuoso del vangelo. Papa Francesco, nell'Evangelii gaudium, ampliando quanto nella Gaudium et spes viene detto, arriva ad affermare che «la grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve» (EG 115).
    I pastori, i teologi, i catechisti, gli educatori, i genitori, tutti coloro che hanno ricevuto la vocazione di accompagnare, a diverso titolo, il popolo nella comprensione della propria fede, possono assolvere questa vocazione perché essi stessi sono membri del popolo di Dio. Soggetto della fede della Chiesa è il popolo di Dio nella sua totalità.
    La Commissione teologica internazionale, nel documento del 2014, dal titolo il sensus fidei nella vita della Chiesa, afferma che la cultura del popolo ha la sapienza
    e le categorie adeguate per una evangelizzazione efficace e incisiva, perché mette in campo una conoscenza affettiva di Dio, e non solo speculativa, quella che Tommaso definisce «conoscenza per con-naturalità»: «I fedeli possiedono un istinto per la verità del vangelo, che permette loro di riconoscere la dottrina e le prassi cristiane autentiche e di aderirvi. Questo istinto soprannaturale, che ha un legame intrinseco con il dono della fede ricevuto nella comunione ecclesiale, è chiamato sensus fidei, e permette ai cristiani di rispondere alla propria vocazione profetica» (n.2; cf. n. 49-50).
    Il sensus fidei è un «istinto spirituale» che permette di acquisire una conoscenza diversa dalla conoscenza speculativa e oggettiva, è una conoscenza per «empatia o una conoscenza del cuore». Si tratta di pensare il sapere teologico come theologia cordis, capace di coniugare la ricerca scientifica con la vita concreta, l'ascolto della Parola e la celebrazione del memoriale con le scelte storiche che ogni giorno la Chiesa è chiamata a compiere per vivere dentro il cono dell'amore di Dio.
    Questo rende contemporaneamente forte e fragile il sensus fidei del popolo di Dio, perché storicamente ogni uomo vive la fede in modo sempre «inquinato», nel senso che le giuste intuizioni sono mescolate dentro opinioni personali o modi di pensare molto contestualizzati alla limitata e povera esperienza che ciascuno possiede. La Commissione precisa che in ogni credente si attua una forma di correlazione, o di interazione, tra il sensus fidei e il modo concreto con cui egli vive la sua fede nei vari ambiti della sua esistenza personale (cf. n. 59).
    Pur nella diversa responsabilità ministeriale dei pastori e dei fedeli laici, quanto afferma la Commissione teologica internazionale implica che non vi sono dentro la Chiesa cristiani di serie A, che possono accedere alla santità, e cristiani di serie B, che sono semplici destinatari del vangelo ma che non possono vivere una vita santa; non vi sono persone che vengono implicitamente autorizzate a deresponsabilizzarsi dal vivere e testimoniare il vangelo. Per dirla con le parole della Commissione, non possiamo pensare alla Chiesa come a una realtà fatta da «una gerarchia attiva e un laicato passivo, e in particolare la nozione di una rigorosa separazione fra Chiesa docente (Ecclesia docens) e Chiesa discente (Ecclesia discens)» (n. 4).
    Papa Francesco nell'Evangelii gaudium allarga ancora la prospettiva e ribadisce che non si può essere cristiani senza essere missionari e questo non perché si sono fatti corsi di specializzazioni, ma perché si è fatta esperienza dell'amore di Cristo: «Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare a uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni» (EG 120).
    Santità e missione sono due aspetti inscindibili di una vita fedele al vangelo. Il vicario di Roma nel presentare questa esortazione esplicita: «Come si comprende, la spiritualità cristiana è essenzialmente comunitaria, ecclesiale, profondamente diversa e lontana da una visione elitaria o di eroismo individuale della santità. La sorgente da cui scaturisce la santità è il Signore Gesù, la meta a cui tende è la storia umana, la trasformazione della storia nel regno di Dio».[4]
    Dobbiamo concludere dicendo che il sensus fidei dei singoli credenti deve essere vissuto dentro il sensus fidei della Chiesa; è la fede della Chiesa che noi riceviamo nell'atto del battesimo ed è la fede della Chiesa che noi ogni domenica professiamo, anche se ciascuno la vive con l'originalità della propria vita.
    L'unica fede che lega tutti i cristiani, assume volti ed espressioni diversi, perché ciascuno la esprime con la propria personalità, carattere, intelligenza, ma anche con la propria fragilità.
    La santità è un cammino personale in comunione con tutti gli altri. Dentro il cammino di tutto il popolo, ognuno vive lo stesso dono in modo originale e personale; la santità non è un cammino omologante: «Il concilio Vaticano II lo ha messo in risalto con forza: "Muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e di una tale grandezza, tutti i fedeli di ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste" [LG 11]. "Ognuno per la sua via", dice il concilio. Dunque, non è il caso di scoraggiarsi quando si contemplano modelli di santità che appaiono irraggiungibili. Ci sono testimonianze che sono utili per stimolarci e motivarci, ma non perché cerchiamo di copiarle, in quanto ciò potrebbe perfino allontanarci dalla via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi. Quello che conta è che ciascun credente discerna la propria strada e faccia emergere il meglio di sé, quanto di così personale Dio ha posto in lui (cf. 1Cor 12,7) e non che si esaurisca cercando di imitare qualcosa che non è stato pensato per lui» (GeE 10-11).

    I mali antichi ma sempre presenti

    Nel capitolo secondo papa Francesco mette in guardia contro due mali antichi, ma sempre in agguato nella vita della Chiesa: lo gnosticismo e il pelagianesimo. Due falsificazioni della vita cristiana: «In questo quadro, desidero richiamare l'attenzione su due falsificazioni della santità che potrebbero farci sbagliare strada: lo gnosticismo e il pelagianesimo. Sono due eresie sorte nei primi secoli cristiani, ma che continuano ad avere un'allarmante attualità. Anche oggi i cuori di molti cristiani, forse senza esserne consapevoli, si lasciano sedurre da queste proposte ingannevoli. In esse si esprime un immanentismo antropocentrico travestito da verità cattolica» (GeE 35).
    Se si perde di vista che la santità è innanzitutto la presenza di Dio dentro la vita del suo popolo e dentro la vita dei singoli cristiani è facile scadere dentro questa duplice logica fuorviante. La santità non può essere pensata come frutto dello sforzo umano, non è una montagna da scalare in solitudine, non è il prodotto di piani e progetti pastorali. Niente di tutto questo! La santità è relazione d'amore con Dio e con tutti coloro con cui condivido la vita.
    La santità noi la viviamo sempre nella linea e nella logica del dono che riceviamo, «nonostante» la nostra vita non sia uno splendore. La fede ci dice che la Chiesa è il luogo storico, ma non esclusivo, dove agisce lo Spirito di Dio. In riferimento alla Chiesa, la dimensione della santità e del peccato coesistono; essa è santa e peccatrice. L'aggettivo «santo» non è riferito alle persone che fanno parte della Chiesa, ma si riferisce alla presenza di Cristo e dello Spirito, al dono divino, al dono della santità in mezzo alla non santità umana.
    La santità della Chiesa sta in quel potere di santificazione che Dio esercita in essa malgrado la peccaminosità umana. Attraverso la Chiesa la santità di Dio si rende visibile e operante tra gli uomini. È santità che brilla tra il peccato degli uomini e questo solo per grazia gratuita, non per conquista umana. Il divino, nella Chiesa, è sempre presente nello stile del «nonostante»; lo sconcertante intreccio tra la fedeltà di Dio e l'infedeltà dell'uomo caratterizza la struttura della Chiesa.
    La santità della Chiesa è espressione dell'amore di Dio che non si lascia vincere dall'incapacità dell'uomo. Dio continua, nonostante tutto, a essere buono con l'uomo, non cessa di accoglierlo proprio in quanto peccatore, si rivolge verso di lui, lo santifica e lo ama. La santità della Chiesa si realizza nella situazione paradossale, nella quale il divino si rende accessibile attraverso mani indegne: «In ultima analisi, la mancanza di un riconoscimento sincero, sofferto e orante dei nostri limiti è ciò che impedisce alla grazia di agire meglio in noi, poiché non le lascia spazio per provocare quel bene possibile che si integra in un cammino sincero e reale di crescita. La grazia, proprio perché suppone la nostra natura, non ci rende di colpo superuomini. Pretenderlo sarebbe confidare troppo in noi stessi. In questo caso, dietro l'ortodossia, i nostri atteggiamenti possono non corrispondere a quello che affermiamo sulla necessità della grazia, e nei fatti finiamo per fidarci poco di essa. Infatti, se non riconosciamo la nostra realtà concreta e limitata, neppure potremo vedere i passi reali e possibili che il Signore ci chiede in ogni momento, dopo averci attratti e resi idonei col suo dono. La grazia agisce storicamente e, ordinariamente, ci prende e ci trasforma in modo progressivo. Perciò, se rifiutiamo questa modalità storica e progressiva, di fatto possiamo arrivare a negarla e bloccarla, anche se con le nostre parole la esaltiamo» (GeE 50).
    Sin dai tempi del Gesù storico, la sua santità si mescola con il peccato degli uomini; riecheggiando il vangelo possiamo dire che grano e zizzania crescono insieme, il fuoco dal cielo non viene invocato quando sono allontanati dalla Samaria,
    Gesù non scenderà dalla croce per punire i suoi crocifissori; Gesù si fa peccato, si mescola con i peccatori, prende su di sé il peccato di tutti, mostrando cosa sia la santità.
    Nella santità della Chiesa, ben poco santa rispetto all'aspettativa umana di assoluta purezza, non si svela forse la vera santità di Dio che è amore? Un amore che non si allontana dalle situazioni concrete, ma si sporca della sporcizia umana. Tenendo presente questo, la santità della Chiesa può mai essere qualcosa di diverso dal portare gli uni i pesi degli altri?
    La santità della Chiesa comincia con il sopportare le difficoltà degli altri e si sviluppa nel sorreggere gli altri; qualora, però viene meno il sopportare, cessa anche il sorreggere, e l'esistenza priva del sostegno precipita nel vuoto.
    I cristiani vivono di ciò che la Chiesa è; se si vuole saper cosa è la Chiesa bisogna accostare coloro che vivono di Chiesa. La Chiesa, infatti non è per lo più dove si organizza, si riforma, si dirige, bensì è presente in coloro che credono con semplicità, ricevendo in essa il dono della fede che diviene per loro fonte di vita.
    Solo chi ha sperimentato come la Chiesa, al di là di chi la dirige e delle sue forme, dà coraggio alle persone offrendo loro una patria e una speranza, una patria che è speranza, vale a dire una via che con-
    duce alla vita eterna, solo costui sa cosa sia la Chiesa, perché vi vive e vi incontra il Signore della vita. La Chiesa è caratterizzata dal dono di Dio che la santifica e dalla lotta di colui che non è santo ma vi tende con tutte le sue forze.
    Lo gnosticismo e il pelagianesimo rinnegano tutto questo; due ostacoli che papa Francesco definisce «nemici della santità». Al di là dei termini e della loro collocazione storica, papa Francesco mette in allarme contro una fede senza Dio, fatta di ragionamenti e di idee umane, per ribadire che la fede e la santità non sono frutto dell'intelligenza dell'uomo: «Lo gnosticismo suppone "una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell'immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti"» (GeE 36; cf. GeE 3).
    Mentre lo gnostico assolutizza le proprie idee e vuole ridurre la fede a una serie di ragionamenti fondati su una fredda e dura logica, i pelagiani o i semipelagiani assolutizzano lo sforzo umano e considerano la santità come frutto dell'impegno dell'uomo, trascurando che tutto dipende dalla misericordia di Dio. Ci si dimentica o si relativizza che Cristo ci ha raggiunti mentre eravamo ancora peccatori e che nonostante la sua grazia restiamo permanentemente peccatori; la santità non consiste nel non fare peccati, cosa impossibile all'uomo segnato dal peccato originale, ma nell'accogliere il perdono di Dio e nel permettere a Dio di realizzare la sua volontà in noi, nonostante il nostro peccato: «Lo gnosticismo ha dato luogo a un'altra vecchia eresia, anch'essa oggi presente. Col passare del tempo, molti iniziarono a riconoscere che non è la conoscenza a renderci migliori o santi, ma la vita che conduciamo. Il problema è che questo degenerò sottilmente, in maniera tale che il medesimo errore degli gnostici semplicemente si trasformò, ma non venne superato. Infatti, il potere che gli gnostici attribuivano all'intelligenza, alcuni cominciarono ad attribuirlo alla volontà umana, allo sforzo personale. Così sorsero i pelagiani e i semipelagiani. Non era più l'intelligenza a occupare il posto del mistero e della grazia, ma la volontà. Si dimenticava che tutto "dipende [non] dalla volontà né dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che ha misericordia" (Rm 9,16) e che egli "ci ha amati per primo" (1Gv 4,19)» (GeE 47-48).
    Per vivere una vita santa, il cristiano non si fa forte né della propria intelligenza né della propria capacità eroica, ma si abbandona, si affida, confida, lascia fare quello che Dio stesso vuole operare in lui e con lui: «Solo a partire dal dono di Dio, liberamente accolto e umilmente ricevuto, possiamo cooperare con i nostri sforzi per lasciarci trasformare sempre di più. La prima cosa è appartenere a Dio. Si tratta di offrirci a lui che ci anticipa, di offrirgli le nostre capacità, il nostro impegno, la nostra lotta contro il male e la nostra creatività, affinché il suo dono gratuito cresca e si sviluppi in noi: "Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio" (Rm 12,1). Del resto, la Chiesa ha sempre insegnato che solo la carità rende possibile la crescita nella vita di grazia, perché "se non avessi la carità, non sarei nulla" (1Cor 13,2)» (GeE 56).
    La santità come disponibilità, senza calcolo e senza ricerca di convenienze, a mettersi nelle mani di Dio; d'altra parte, pensiamoci bene: quali mani sono più sicure di quelle di Dio, a cui affidare tutta la nostra vita: il passato con le sue delusioni e i suoi fallimenti, il presente con la sua mediocrità e qualche volta insignificanza, il futuro con tutti gli imprevisti che ci riserva. Dio il luogo più sicuro in cui abitare, fonte di serenità e di speranza. Questa è la santità, ma anche la nostra missione e la nostra testimonianza!
    «La sua amicizia ci supera infinitamente, non può essere comprata da noi con le nostre opere e può solo essere un dono della sua iniziativa d'amore. Questo ci invita a vivere con gioiosa gratitudine per tale dono che mai meriteremo, dal momento che "quando uno è in ozia, la grazia che ha già ricevuto non può essere meritata". I santi evitano di porre la fiducia nelle loro azioni: "Alla sera di questa vita, comparirò davanti a te a mani vuote, perché non ti chiedo, Signore, di contare le mie opere. Ogni nostra giustizia è imperfetta ai tuoi occhi"» (GeE 54).

    Il sentiero che porta verso la santità

    Tutto questo non per deresponsabilizzarci, ma per collocarci in un giusto rapporto con Dio, dentro la storia della nostra vita. Una storia, la nostra, che inizia con un atto di amore di Dio e che permanentemente è guidata dall'amore di Dio che la ricostruisce, la risana, la qualifica, la rende significativa. Che cosa saremmo noi senza Dio? Niente e nessuno! Il nostro operare nella logica della santità è risposta e manifestazione di questo amore che precede e fonda ogni cosa. Dentro la nostra vita, preghiera e azione si intrecciano nelle beatitudini evangeliche e nello scegliere come stile di vita gli elementi della santità:
    sopportazione, pazienza, mansuetudine, gioia, senso dell'umorismo, audacia, fervore, preghiera.[5]
    «Ci possono essere molte teorie su cosa sia la santità, abbondanti spiegazioni e distinzioni. Tale riflessione potrebbe essere utile, ma nulla è più illuminante che ritornare alle parole di Gesù e raccogliere il suo modo di trasmettere la verità. Gesù ha spiegato con tutta semplicità che cos'è essere santi, e lo ha fatto quando ci ha lasciato le beatitudini (cf. Mt 5,3-12; Lc 6,2023)» (GeE 63).
    Papa Francesco individua nelle beatitudini, rilette a partire dal capitolo 25 di Matteo, «la grande regola di comportamento», la carta di identità del cristiano, che lo pone dentro l'umanità come un segno di contraddizione, come una pietra di inciampo; le beatitudini indicano uno stile di vita alternativo alla logica del mondo: «Le beatitudini in nessun modo sono qualcosa di leggero o di superficiale; al contrario, possiamo viverle solamente se lo Spirito Santo ci pervade con tutta la sua potenza e ci libera dalla debolezza dell'egoismo, della pigrizia, dell'orgoglio» (GeE 65).
    Papa Francesco si accosta alla pagina evangelica, senza argomentare in modo difficile e complesso, tralasciando tutte le implicanze esegetiche, applicandola ed esemplificandola dentro le possibili situazioni umane: «Sono poche parole, semplici, ma pratiche e valide per tutti, perché il cristianesimo è fatto soprattutto per essere praticato, e se è anche oggetto di riflessione, ciò ha valore solo quando ci aiuta a vivere il vangelo nella vita quotidiana. Raccomando vivamente di rileggere spesso questi grandi testi biblici, di ricordarli, di pregare con essi e tentare di incarnarli. Ci faranno bene, ci renderanno genuinamente felici» (GeE 109).
    La santità, alla luce delle beatitudini, ha una doppia dimensione che è inscindibile: contemplare il volto del Signore e contemplare il volto dell'uomo che vive accanto a noi e, in lui, poter contemplare il volto dell'intera umanità. Il verbo contemplare assume nel discorso di Francesco una duplice valenza: orante e operativa; preghiera personale e comunitaria, che mette in relazione con Dio, e, servizio concreto e storico, che mette in relazione con Dio tramite il fratello.
    Attraverso Gaudete et exsultate, Francesco implicitamente pone alla Chiesa e al cristiano alcune domande: che cosa rende veramente la Chiesa, Chiesa? Di che cosa la Chiesa non può fare a meno? E inoltre, che cosa rende un uomo «cristiano»? Che cosa significa essere cristiano? Che cosa comporta? A tutte queste domande, la risposta è una sola: la santità vissuta nel quotidiano, come relazione, personale e comunitaria, con Dio nei fratelli. Questo, e solo questo, rende la Chiesa «sacramento di salvezza» dentro l'umanità, e i singoli cristiani «lievito» e «sale», che non hanno perso la loro funzione. Nella santità l'uomo trova la via della piena realizzazione personale, ma anche il vero itinerario per evangelizzare il mondo di oggi.

    Per concludere

    Francesco ribadisce che la santità è a portata di mano per tutti, ma non è una scelta banale, nessuno la può vivere da solo, non nasce da una vita tiepida, accomodata, né da una vita ideale e inesistente, ma da una vita che conosce cadute e rialzate. Per poterci rialzare, tutte le volte che cadiamo abbiamo «le potenti armi che il Signore ci dà: la fede che si esprime nella preghiera, la meditazione della parola di Dio, la celebrazione della messa, l'adorazione eucaristica, la riconciliazione sacramentale, le opere di carità, la vita comunitaria, l'impegno missionario» (GeE 162).
    Se guardiamo la santità dalla parte di Dio, è vicinanza e accoglienza della sua stessa vita; se la guardiamo dalla parte dell'uomo, la santità è conversione, discernimento, ascolto, servizio, condivisione; se la guardiamo dalla parte della Chiesa, la santità è comunione sacramentale, è liturgia, lode, ringraziamento, ma anche profezia e martirio; se la guardiamo dalla parte del mondo, la santità è stoltezza che rende felici coloro che la vivono. Prospettive diverse che permettono di cogliere la globalità della vita santa della Chiesa e del cristiano, dentro un mondo che cammina verso il Signore, che come narra l'Apocalisse, a grandi passi gli viene incontro: «Colui che attesta queste cose dice: "Sì, vengo presto!". Amen. Vieni, Signore Gesù. La grazia del Signore Gesù sia con tutti» (Ap 22,20-21).

    * Docente stabile di catechetica e di introduzione al cristianesimo, - Facoltà Teologica di Sicilia

    NOTE

    1 A. DE DONATIS, «Perché parlare di santità?», in L'Osservatore Romano, 9/10 aprile 2018, 4.
    2 Cf. M. NARO, «Santità e politica: binomio possibile», in Segno 36(2010)313, 47-53.
    3 Cf. G. ALCAMO, Il profeta Elia. La voce scomoda di Dio, Paoline, Milano 2013, 55-69.
    4 A. DE DONATIS, «Perché parlare di santità?», in L'Osservatore Romano, 9/10 aprile 2018, 5.
    5 Cf. M. FIGUEROA, «La portata ecumenica della "Gaudete et exsultate"», in L'Osservatore Romano, 12 aprile 2018, 1.

    Essere santi secondo le beatitudini
    Pina De Simone *

    «Ci possono essere molte teorie su cosa sia la santità, abbondanti spiegazioni e distinzioni. Tale riflessione potrebbe essere utile, ma nulla è più illuminante che ritornare alle parole di Gesù e raccogliere il suo modo di trasmettere la verità. Gesù ha spiegato con tutta semplicità che cos'è essere santi, e lo ha fatto quando ci ha lasciato le beatitudini (cf. Mt 5,3-12; Lc 6,20-23). Esse sono come la carta d'identità del cristiano. Così, se qualcuno di noi si pone la domanda: "Come si fa per arrivare a essere un buon cristiano?", la risposta è semplice: è necessario fare, ognuno a suo modo, quello che dice Gesù nel discorso delle beatitudini. In esse si delinea il volto del Maestro che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita».1
    Che cosa significa essere santi secondo le beatitudini è già tutto qui, in questo paragrafo che conduce al cuore dell'esortazione apostolica.
    Le parole usate non sono casuali: semplicità, quotidianità, santità; ma anche beatitudine, ossia felicità, gioia profonda e inattaccabile.
    Prima di tutto, la gioia, la beatitudine. Essere santi, tendere alla santità rende felici; è tutt'uno con la tensione, non alla perfezione –che non è di questo mondo e neppure dei credenti in Cristo Gesù –, ma alla pienezza, che ci verrà donata in misura sovrabbondante e che, nell'eccedenza rispetto a ogni nostro merito, ci è data continuamente, al fondo di noi stessi e di quanto viviamo: quella pienezza che ci genera e ci attrae e che è la vita stessa di Dio.
    Siamo chiamati a essere felici, e lo siamo già, se solo sappiamo guardare con la sapienza di Dio a quanto viviamo, se solo riusciamo ad avvertire la presenza di Dio in noi e intorno a noi.
    Non c'è nessuna pretesa in questa beatitudine, nessun calcolo, solo una enorme, incontenibile gioia che è tessuta di gratitudine e che perciò può vincere la ritornante tentazione della disperazione.

    Una ventata di freschezza

    «Beati» è come un ritornello, una parola d'ordine, un invito accorato continuamente ripetuto al cuore dell'esortazione.
    Non è nuovo papa Francesco a questo invito. Basta scorrere le pagine di Evangelii gaudium o anche quelle di Amoris laetitia per vedere come Francesco contesti con determinazione assoluta e con freschezza inaudita l'atteggiamento saccente e l'aria contrita di alcuni credenti. Riescono a essere oltremodo antipatici quanti ritengono che la fede ponga al di sopra degli altri e sia motivo di una mortificazione, di un sacrificio, che nel rendere superiori pone nella condizione di meritare rispetto e prestigio. Non di volti scuri e di malcelata superbia ha bisogno il vangelo per risuonare nella vita degli uomini e correre per le strade delle nostre città, ma di persone felici di vivere che hanno il senso della gratitudine, che non si scandalizzano, ma sanno riconoscere il bene laddove fiorisce, o timidamente si affaccia, che non pretendono di appropriarsi di ogni traccia di positività ma contribuiscono a farla crescere, mettendosi in gioco e creando collaborazione e condivisione solidale.
    È davvero una boccata d'aria, una ventata di freschezza per i nostri ambienti talvolta un po' asfittici. Un senso profondo di libertà che spinge con decisione verso le radici, le condizioni di possibilità di ogni bene: quello di cui siamo capaci e quello che ci è dato di scoprire intorno a noi.
    La carta di identità del cristiano comincia e continua con l'invito a trovare o ritrovare nella nostra vita quotidiana questa beatitudine che viene dall'intimità con il Signore.
    È un invito che ci impegna in un'assunzione di responsabilità, in un cambiamento di vita, perché le beatitudini delineano uno stile di vita, un modo d'essere che permea ogni comportamento e ogni scelta.
    Scrive il papa: «Le beatitudini in nessun modo sono qualcosa di leggero o di superficiale; al contrario, possiamo viverle solamente se lo Spirito Santo ci pervade con tutta la sua potenza e ci libera dalla debolezza dell'egoismo, della pigrizia, dell'orgoglio». C'è dentro il richiamo a «un reale cambiamento di vita» (GeE 65).
    Per questo la prima delle beatitudini è «beati i poveri in spirito».

    Tutto comincia dal cuore

    Tutto comincia dal cuore, sede delle scelte e delle decisioni, ma anche e soprattutto luogo in cui prende forma ciò che ci orienta, luogo delle motivazioni che ci spingono e della percezione di ciò che vale per noi. E nel cuore, nella profondità del nostro essere che è custodito il nostro tesoro, ciò che vale e che dà consistenza alla nostra vita quel che per noi conta veramente.
    «Il vangelo ci invita a riconoscere la verità del nostro cuore, per vedere dove riponiamo la sicurezza della nostra vita. Normalmente il ricco si sente sicuro con le sue ricchezze, e pensa che quando esse sono in pericolo, tutto il senso della sua vita sulla terra si sgretola» (GeE 67). Che cosa per noi è veramente importante? Cosa tiene insieme la nostra vita? Qual è il bene più grande per noi, il bene senza di cui ci sentiamo persi e da cui ogni altro bene trae valore? È una domanda che non siamo abituati a farci, ma davanti alla quale ci pone l'invito del vangelo alla beatitudine. Dove è il tuo tesoro? Non è beato chi è privo di tutto, ma chi ha in Dio, nel suo amore, nella sua presenza il bene più grande. «Gesù chiama beati i poveri in spirito, che hanno il cuore povero, in cui può entrare il Signore con la sua costante novità» (GeE 68).
    Il cuore povero è un cuore leggero, un cuore libero che non si lascia stritolare dagli affanni della vita o sedurre dalla tentazione di stringere tra le mani ciò che avvertiamo come un bene. Si tratta di «non desiderare da parte nostra più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l'onore che il disonore, più la vita lunga piuttosto che quella breve, e così in tutto il resto» (Ignazio di Loyola) e di adottare lo stile della sobrietà nella ricerca dell'essenziale.
    «Essere poveri nel cuore, questo è santità» (GeE 70).

    Una santità (e una beatitudine) fatta di concretezza

    Ma se è al cuore che bisogna guardare prima di tutto, la santità (e la beatitudine) che siamo invitati a cercare e a riconoscere nella nostra vita è fatta di concretezza, di situazioni e di gesti che riguardano il rapporto con gli altri e con le cose, il nostro modo di essere al mondo.
    «Beati i miti, perché avranno in eredità la terra».
    Chi si fida del Signore e ripone in lui la sua speranza, non è arrogante o presuntuoso, ma ha il tratto paziente e amabile di chi non pensa di essere l'unico giusto. «Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita» (Mt 11,29). «Se viviamo agitati, arroganti di fronte agli altri – scrive il papa –, finiamo stanchi e spossati» (GeE 72). Lamentarci dei difetti altrui, provare fastidio e rabbia, sentirci superiori determina un enorme spreco di energie. Molto meglio è invece imparare a fare i conti con le debolezze altrui e con le proprie per imparare a stare insieme e a guardare avanti. La vera mitezza non ci fa soccombere ma ci fa procedere con determinazione e speranza. «I miti – scrive ancora il papa – "avranno in eredità la terra", ovvero, vedranno compiute nella loro vita le promesse di Dio». Perché essi sperano nel Signore. «La mitezza è un'altra espressione della povertà interiore, di chi ripone la propria fiducia solamente in Dio. Reagire con umile mitezza, questo è santità» (GeE 74).
    La beatitudine promessa e sperimentata nell'intimità con il Signore, non mette al riparo dalla sofferenza, non è una bolla incantata in cui rifugiarsi dinanzi alle fatiche del vivere. E dentro la sofferenza, non mitizzata o negata, ma riconosciuta e chiamata per nome, che siamo invitati a riconoscere la presenza della tenerezza di Dio e ritrovare il rapporto con gli altri. In nessun momento si dimentica di noi il Signore ed è questa la nostra forza, la nostra gioia anche quando il dolore ci trafigge e ci inchioda. Saper piangere è lasciarsi attraversare dal dolore scoprendo di non essere mai da soli.
    /«Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati». Quando non ci si gira dall'altra parte, quando si impara a guardare in faccia la sofferenza, a riconoscerla nella propria vita e nella vita degli altri, allora si può essere veramente felici. «Si spendono molte energie –scrive il papa – per scappare dalle situazioni in cui si fa presente la sofferenza, credendo che sia possibile dissimulare la realtà, dove mai, mai può mancare la croce» (GeE 75). La persona che vede invece le cose come sono realmente, «si lascia trafiggere dal dolore e piange nel suo cuore è capace di raggiungere le profondità della vita e di essere veramente felice. Quella persona è consolata, ma con la consolazione di Gesù e non con quella del mondo. [.. .] In tal modo scopre che la vita ha senso nel soccorrere un altro nel suo dolore, nel comprendere l'angoscia altrui, nel dare sollievo agli altri. Saper piangere con gli altri, questo è santità» (GeE 76). Ed è solo se si sa piangere con gli altri che si può cercare la giustizia e costruirla giorno dopo giorno. Una giustizia da invocare di cui avere fame e sete e mai da far coincidere con il proprio particolare punto di vista.
    / «Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati».
    Non è la giustizia fatta di interessi particolari, sbandierata e "manipolata" da una parte o dall'altra, ma la giustizia «per i poveri e per i deboli», per i dimenticati la cui storia è negata specie quando viene enfatizzata dall'ideologia di qualsivoglia matrice. E ancor di più «la giustizia con gli indifesi» quella che non solo siamo invitati a cercare – perché è solo nel condividere che trova senso la nostra vita – ma che è al cuore della promessa di Dio, la giustizia che verrà e che sazierà veramente la nostra fame e la nostra sete.
    «"Cercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova" (Is 1,17). Cercare la giustizia con fame e sete, questo è santità» (cf. GeE 77-79).

    Costruttori del regno di Dio

    Il cuore di chi si fida del Signore e si lascia condurre dalla sua promessa, di chi spera in lui è un cuore che si allarga, che batte con il cuore di Dio, che sente la vita dell'altro, la porta dentro di sé lasciandosi coinvolgere in una storia di condivisione non puramente emotiva, in cui la fragilità sperimentata diventa punto di forza da cui ripartire, un cuore misericordioso, un cuore che sa amare e che per questo sa tessere i fili della pace.
    / «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia». «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio». «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio». I pacifici sono «fonte di pace». È richiesta una grande apertura della mente e del cuore perché «non si tratta di "un consenso a tavolino o [di] un'effimera pace per una minoranza felice", né di un progetto "di pochi indirizzato a pochi". Nemmeno cerca di ignorare o dissimulare i conflitti, ma di "accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo". Si tratta di essere artigiani della pace, perché costruire la pace è un'arte che richiede serenità, creatività, sensibilità e destrezza. Seminare pace intorno a noi, questo è santità» (GeE 89).

    una realtà del passato, perché anche oggi le soffriamo, sia in maniera cruenta, come tanti martiri contemporanei, sia in un modo più sottile, attraverso calunnie e falsità» (GeE 94). Guai però se il nostro stile di vita fosse improntato a una contrapposizione aspra e spocchiosa nei confronti del mondo e di chi non condivide la nostra fede.
    L'invito alla beatitudine ritorna ancora. Ed è l'invito a lasciare che la gioia del Signore invada la nostra vita e traspaia da ogni fibra del nostro essere, prevalendo su tutto: in ogni situazione, in ogni nostro gesto. La vera gioia, sorella della serietà, che nessuno potrà mai toglierci e che non possiamo tenere per noi, perché in essa è il regno dei cieli. 
    Tutto questo non è semplice e soprattutto non apre a un percorso trionfale, ma a un cammino fatto di asperità e talvolta di incomprensioni. «Beati i perseguitati per causa della giustizia». E tuttavia non possiamo aspettare «che tutto intorno a noi sia favorevole». «Se non vogliamo "sprofondare in una oscura mediocrità", non possiamo pretendere una vita comoda, perché "chi vuol salvare la propria vita, la perderà" (Mt 16,25)» (GeE 90).
    Vivere le beatitudini «può essere addirittura una cosa malvista, sospetta, ridicolizzata». «Le persecuzioni – scrive il papa – non sono

    * Docente di filosofia della religione - Facoltà Teologica di Napoli, sezione San Luigi

    NOTE

    1 Gaudete et exsultate 63. Da ora in poi GeE.

    Laicità e santità
    Giuseppe Lorizio *

    La riflessione sulla laicità ci pone di fronte al paradosso cristiano della santità non separata del laico. Se il termine «santità», nella sua accezione biblica indica separazione (Dio è il tre volte santo, ossia la trascendenza-separazione assoluta rispetto al modo e all'uomo), la laicità, correttamente intesa, toglie, a livello interumano, la separazione e chiede di vivere la fede nel mondo, ma senza lasciarsi omologare dal mondo.

    Santità e laicità di Gesù

    La laicità del cristiano si fonda sulla costitutiva e originaria laicità di Gesù, di Nazaret, che non apparteneva alla tribù sacerdotale, e in questa laica santità del Signore siamo implicati tutti, religiosi, preti e laici e su di essa si deve fondare la nostra spiritualità. Il confronto con il Gesù storico chiede che prendiamo coscienza della sua religiosità, ovvero che identifichiamo le dimensioni della sua esperienza religiosa. La religione di Gesù non può essere intesa (come voleva una certa cultura illuministica) esclusivamente alla stregua della religione dell'umanità, né dialetticamente contrapposta alla religione cristiana, e d'altra parte bisogna pur notare come essa cultualmente si esprima nel senso della partecipazione ai riti ebraici, al battesimo di Giovanni (peraltro gesto rituale posto in polemica con l'ambiente sacerdotale) e soprattutto nella preghiera. Gesù non pone dei riti propri, ma compie dei gesti e dice delle parole. La questione dell'eucaristia situata nel grembo della ritualità della cena ebraica, qualora tale ipotesi fosse accertata, consente di rilevare ulteriormente questa differenza, senza tuttavia autorizzare una sorta di demonizzazione del rito e del culto. Sintomatico evidentemente risulta anche l'atteggiamento della prima comunità cristiana.
    Un fecondo «germe» di riflessione che siamo chiamati a raccogliere e far germogliare speculativamente mi sembra di poterlo indicare nella fondamentale dimensione di pro-esistenza, che caratterizza l'esperienza e la vicenda di Gesù di Nazaret. Una prima tentazione sarebbe quella di intendere la pro-esistenza in senso eminentemente secolaristico e orizzontale, secondo la formula «Gesù un uomo per gli altri». Neppure possiamo cedere alla riduzione della pro-esistenza, interpretandola in senso radicalmente verticale. Siamo di fronte al dilemma paradossale che pone in antitesi identità e relazione, sicché la santità laica dovrebbe consistere nell'affermare l'identità nelle relazioni, in particolare nella relazione col mondo (= secolo, da cui l'aggettivo secolare e il termine secolarizzazione) e con Dio.
    Con un riferimento interessante al De Trinitate agostiniano, il teologo Ratzinger aveva a suo tempo sottolineato lo stravolgimento delle categorie (sostanza/identità e relazione) che l'evento cristologico apporta: «Con quest'idea di correlazione esprimentesi nella parola e nell'amore, indipendente dal concetto di "sostanza" e non catalogabile fra gli "accidenti", il pensiero cristiano ha trovato il nucleo centrale del concetto di "persona", che dice qualcosa di ben diverso e infinitamente più alto dell'idea di "individuo". [.. .] In questa semplice ammissione, si cela un'autentica rivoluzione del quadro del mondo: la supremazia assoluta del pensiero accentrato sulla sostanza viene scardinata, in quanto la relazione viene scoperta come modalità primitiva ed equipollente del reale. Si rende così possibile il superamento di cib che noi chiamiamo oggi "pensiero oggettivante", e si affaccia alla ribalta un nuovo piano dell'essere. Con ogni probabilità, bisognerà anche dire che il compito derivante al pensiero filosofico da queste circostanze di fatto è ancora ben lungi dall'esser stato eseguito, quantunque il pensiero moderno dipenda dalle prospettive qui aperte, senza le quali non sarebbe nemmeno immaginabile». Del resto, quando Tommaso d'Aquino deve definire la persona non può non ricorrere a un paradosso, affermando che essa è una «relazione sussistente», dove è evidente la compresenza dei due poli: quello dell'identità e quello della relazione.
    Ma, ritornando a Gesù di Nazaret, il ricorso alla pro-esistenza mi sembra non debba farci dimenticare quella che oggi chiameremmo la sua forte personalità, che gli consente di stare non solo con e per ma di fronte al Padre e agli altri, con tutta la sua consistenza di soggetto libero, capace di orientare la propria vita e di operare delle vere e proprie scelte. Il profondo mistero dell'io di Cristo e della sua coscienza non consente che la sua persona venga diluita in nessuna delle due direzioni (verticale e/o orizzontale) della pro-esistenza. Si dà, anche a livello cristologico, un'immanenza della soggettività (= interiorità), tale da non consentire che la persona e il suo io si riducano alla relazione, un nocciolo duro irriducibile che fa appunto dire «io» a Cristo, come, analogamente, a ciascuno di noi e che consente di pensare la relazionalità in termini di libertà e di gratuità.
    A partire da queste ultime considerazioni, possiamo brevemente concludere che l'identità di Gesù viene espressa nel Nuovo Testamento secondo tre dimensioni costitutive:
    a) quella dell'interiorità, che fa riferimento alla sua autocoscienza, così come si può rilevare ad esempio nella riflessione sui miracoli e come emerge dai titoli di origine gesuana (in particolare quello di «figlio dell'uomo»);
    b) quella dell'alterità, che si gioca a due livelli: a livello «verticale», nel peculiare rapporto col Padre e, a livello «orizzontale», nell'attenzione agli ultimi, ai peccatori, a coloro che sono appunto considerati «altri» dal contesto socio-culturale in cui Gesù vive e opera;
    e) quella della gratuità, espressa nell'annuncio del regno di Dio edel perdono a esso connesso, con un carattere di dirompenza tale da suscitare la meraviglia e la domanda degli interlocutori.
    L'assumere come canone di riferimento la persona di Gesù e la sua pro-esistenza per la santità laicale, comporta anche il fare i conti con la «fede di Gesù», nonostante la reticenza del Nuovo Testamento a utilizzare questa espressione. H.U. von Balthasar a questo proposito così si esprime: «Perché anche il Nuovo Testamento ha visibilmente ritegno di parlare senz'altro della fede di Gesù? Senza dubbio perché questo atteggiamento prototipico è stato nel suo foro interiore così perfetto e quindi così inesprimibile che designarlo con lo stesso termine in uso per l'imitazione che ne facciamo noi, rischia di sopprimere la distanza fra l'uno e l'altra. Per l'atteggiamento del Figlio dell'uomo di fronte a Dio, il Nuovo Testamento non ha un vocabolo globale e preciso. Esso è una luce così fulgida che noi possiamo sopportarla solo dopo averla decomposta nei suoi aspetti particolari e guardandola nel riflesso che ha in noi».
    Il risultato di questa rifrazione può essere così schematizzato, nell'orizzonte del compimento in Gesù di tutti gli elementi della fede così come è espressa nell'Antico Testamento:
    / «fedeltà totale del Figlio dell'uomo al Padre, data una volta per sempre e tuttavia sempre di nuovo attuata a ogni istante, nel tempo»;
    / «preferenza assoluta data al Padre, alla sua persona, al suo amore, alla sua volontà, al suo comando, di contro ai desideri e alle inclinazioni proprie»;
    / «perseveranza irremovibile in questo proposito, capiti quel che capiti»;
    / «rimettere ogni iniziativa al Padre, senza voler saper niente prima, senza anticipare l'ora» (R. Penna).
    Un punto nevralgico a partire dal quale riflettere sul rapporto tra «visione beatifica» (= santità) «fede di Gesù» (= laicità) è certamente il Golgota. A questo riguardo ci sembra meritare tutta la nostra attenzione la risposta di Antonio Rosmini alla domanda di don Luigi Gentili sull'«abbandono del Padre». L'ineffabile grandezza della morte di Cristo sta nel fatto che egli avrebbe potuto «impedirsi questo dolore», «confortarsi da sé medesimo» (dato il godimento della visione beatifica nella «parte superiore dell'anima»): «Poteva: anzi nulla gli era più facile: ma non volle: e questo è l'eroico, l'ineffabile abbandono di Cristo alla Provvidenza del suo Padre celeste». La generosità portata al grado ultimo fa dire al Crocifisso: «Io ho un Padre, penserà egli a me: io non voglio pensare che a lui, a chiarificar lui!». Da parte sua il Padre mette all'ultima prova l'umanità del Cristo, la sua fede e il suo abbandono: «Il Padre volle mettere all'ultimo cimento possibile tanta fede, tanto abbandono; e lo lasciò morire senza confortarlo, senza soccorrerlo. Ecco l'ineffabile abbandono. Abbandonato Cristo dal Padre non abbandonò per questo il Padre, ma sperò ancora in lui, e spirando disse: In manus tuas commendo spiritum meum!!! (nelle tue mani affido il mio spirito!)».

    Santità secolare e mondana

    L'evento salvifico di Gesù consente di affermare con ancora maggiore forza che la realizzazione del destino umano avviene nel mondo e in virtù del mondo. Anche se il mondo non ha ancora perduto la sua radicale ambiguità, messa in luce dalla croce.
    Ponendo per un attimo tra parentesi l'immensa letteratura sulla «secolarizzazione», ci sembra necessario spogliare la categoria di «secolo» e il termine «secolare» delle ambiguità di cui si sono caricati nel corso della storia. Se da un lato risulta certamente preoccupante la deriva secolaristica, cui la modernità pretende di consegnare il vecchio continente e la sua propaggine d'oltre oceano e a cui – non senza violenza – cerca di ricondurre culture ed esperienze religiose diversamente configurante-si, non va d'altra parte abbandonata una lezione feconda e decisa-
    mente attuale, che l'allora card. Wojtyla ha saputo far propria, rilevando notevole spirito profetico e sapienziale nello stesso tempo. Come giustamente notava Karol Wojtyla, «di fronte all'evangelizzazione si trova – dicono gli studiosi di questo problema – non la "secolarizzazione", perché questa, se rettamente intesa, può a modo suo rivelare la realtà dello Spirito, l'autentico dominio di Dio, la trascendenza della Verità e dell'Amore che non devono mai venire strumentalizzati, ma il "secolarismo" – cioè la vera e propria religione del mondo».
    Si giunge così a comprendere che, in ultima analisi, «essere del (o nel) secolo» significa «essere di Dio» e che l' «indole secolare» è partecipazione dall'interno alla continua opera creativa, e ricreativa di Dio. Creazione dice da un lato alterità del mondo rispetto a Dio e dall'altro legame creaturale del mondo con Dio (fondamento della sacramentalità del mondo).
    Il mondo può essere legittimamente pensato come la tenda della storia umana; una tenda però che non è solo un contenitore o un riparo, ma soprattutto il luogo che offre all'uomo sia gli strumenti con i quali egli può costruire se stesso e la propria vita, sia gli strumenti con i quali egli può distruggere se stesso e la propria vita. Senza il mondo l'uomo non è pensabile.
    Il rapporto solidale dell'uomo con il mondo non viene meno anche quando questi, in conseguenza del peccato, è scacciato dal giardino dell'Eden. Ciò che si modifica invece, dopo la cacciata dal paradiso terrestre, è la qualità del rapporto dell'uomo con il mondo. Infatti, il rapporto da collaborativo e armonico diviene conflittuale e doloroso, attraverso l'esperienza della fatica e della finitudine. In più si può dire che solo dopo l'uscita dell'uomo dal giardino di Eden il mondo, forse proprio in conseguenza della maledizione che la terra ha ricevuto a causa del peccato dell'uomo, rivela il suo carattere di ambiguità. Ed è per questo che la redenzione del destino umano attraverso l'evento salvifico dell'incarnazione di Cristo avviene all'interno del mondo. Infatti, Gesù nasce, opera, muore e risorge in un luogo e in un tempo ben preciso del mondo, rendendo in questo modo la storia il luogo possibile della salvezza umana.
    «Quando leggiamo – scrive Romano Guardini – "Dio ha amato il mondo" bisogna che diamo il suo peso reale a questa affermazione, e cioè che Dio ama realmente, effettivamente. Dopo l'incarnazione, Cristo appartiene definitivamente al mondo e, nello stesso tempo, il mondo appartiene definitivamente a Dio»; a partire dall'incarnazione «l'umanità del Cristo, e con essa la creazione, "il mondo", dovranno"sedere alla destra del Padre"». Il commento del pensatore mostra la centralità della categoria di «mondo» nel Vangelo di Giovanni che, nella tensione costante fra le due dimensioni della «mondanità» – quella assunta da Cristo e quella abbandonata da Cristo a seguito del rifiuto del messaggio di salvezza –può essere considerato il punto di partenza scritturistico per una riflessione sulla laicità.
    Anche alla luce del concilio dire «secolo», e cioè mondo, non significa fare riferimento a una realtà abbandonata da Dio o a un mondo «uscito da Dio», ma piuttosto a una realtà nella quale Dio è presente, anche se in forme spesso inavvertibili e misteriose. Si tratta della «sacramentalità del mondo, che non si identifica con la sacralità del cosmo di stampo neopagano. Il tema della santità laicale richiede un profondo ripensamento dei confini sacro/profano, in una prospettiva non esclusiva ed escludente, ma decisamente inclusiva.

    Testimonianza

    Alla dinamica della santità appartiene la logica del martirio-testimonianza e a essa deve ispirarsi la figura del laico-testimone. L'orizzonte laicale e la presenza testimoniale vengono, anche di recente, spesso connesse nel magistero di papa Francesco e nelle indicazioni dei vescovi italiani all'impegno dei credenti nella società civile e nella vita politica.
    Onde evitare facili tentazioni pragmatistiche, la riflessione non può non rivolgersi all'ontologia da cui si genera il dinamismo della testimonianza: si tratta dell'ontologia della rivelazione del Dio trinitario, così come ad esempio si esprime nel quarto vangelo. Il dinamismo di trasmissione della «conoscenza» soprannaturale qui viene espressa appunto in termini rivelativi, dove interviene tra le altre una categoria particolarmente significativa per l'apologia e l'apologetica, esprimente una modalità privilegiata di tale trasmissione, ossia la testimonianza (= martirio), sicché Gesù non presenta un proprio pensiero, ma appunto rende testimonianza al Padre: «In verità, in verità ti dico, noi parliamo di quel che sappiamo e testimoniamo quel che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza» (Gv 3,11) e, viceversa, il Padre gli rende testimonianza: «Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. E anche il Padre, che mi ha mandato, ha reso testimonianza di me» (Gv 5,36-37), cui va aggiunta la testimonianza delle Scritture: «Voi scrutate le Scritture credendo di
    avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza» (Gv 5,39). E su tale testimonianza reciproca del Padre e del Figlio poggia la testimonianza dei discepoli e quella di Giovanni Battista.
    In questa prospettiva Antonio Rosmini ha elaborato e proposto una dottrina della certezza della fede, basata sulla testimonianza e la sua trasmissione. Ogni mediazione della conoscenza di Dio si fonda su una immediatezza di comunicazione, sicché la fede fa riferimento a verità che si percepiscono e non solo si conoscono. In questa prospettiva si tratta della testimonianza interiore su cui poggia quella esteriore, oppure, si direbbe con linguaggio paolino, della «testimonianza della coscienza» (Rm 2,14-15). Vale la pena riportare il passaggio decisivo in cui questa dottrina della testimonianza viene esposta nel contesto della logica: «E infatti la rivelazione divina da prima fu immediata. Tal è quella fatta a' profeti e agli apostoli e altri discepoli, e questi preordinati a ricevere l'immediata comunicazione di Dio non la ricevettero solamente come si riceve una testimonianza espressa in parole esterne, ma di più come si riceve una percezione, ché essi percepirono internamente le cose divine; e la percezione non ammette errore. Quelli poi che ricevono questa comunicazione mediante la testimonianza della Chiesa, la ricevono anch'essi per un mezzo che Iddio rende infallibile; non solo perché la Chiesa comunicante da parte sua è infallibile, ma di più perché anche in quelli che credono alla testimonianza della Chiesa, è un lume interiore ed evidente che viene da Dio, e quindi un'interna percezione, che dà loro la facoltà di giudicare quelle cose assolutamente vere e di prestare a esse una fede incondizionata e assoluta. Tale è la teoria coerentissima della fede cristiana, tutta conforme alla dottrina logica. Laonde quantunque le verità della fede sieno attestate da innumerevoli testimonianze, consentanee tra loro e in tutti i secoli, quantunque e le profezie e i miracoli e l'autorità d'uomini dottissimi, la costanza de' martiri, la portentosa sua propagazione e altri argomenti interni e razionali accumulati d'ogni maniera ne confermino la verità in modo da produrre la massima certezza normale e pratica e anche apodittica; tuttavia la verità di questa religione non si fon- da soltanto sulla dimostrazione, ma di più sull'evidenza del lume interno, che Iddio per grazia comunica, dando a chi crede una percezione di sè e un criterio immediato della verità. Il che è conforme a' divini attributi, anche per questo che dipendendo dalla fede la salute di tutti gli uomini, s'ella si fondasse puramente sopra una dimostrazione razionale, sarebbe per pochi; perché per pochi è la verità dimostrativa, e Iddio non avrebbe ottenuto il suo fine» (il corsivo è mio). Per tornare alla presenza nel mondo e in particolare nella politica, questo richiamo rosminiano, insieme a quello relativo alle due dimensioni della pro-esistenza in Gesù di Nazaret porta a concludere che quanto maggior coinvolgimento nel mondo è richiesto al fedele laico, tanto più profonda e radicata dovrà essere la sua spiritualità.
    Nel contesto attuale, la parola testimonianza potrebbe facilmente produrre il triste collegamento nella nostra mente fra l'esperienza della testimonianza/martirio e il fondamentalismo. Tale devastante equivoco può essere ampiamente (e direi oggi opportunamente) falsificato da una riflessione più approfondita e meno legata alle contingenze dell'attualità, tale da consentire di cogliere la dimensione teologica del martirio cristiano e quindi il suo radicarsi nella fede testimoniale, che ne costituisce il nucleo portante e al tempo stesso l'orizzonte di comprensione. Una prima indicazione preziosa in questo senso viene dal fatto che originariamente (ed etimologicamente) il martirio non ha a che fare con la morte, significando appunto il termine greco «testimonianza», come forma privilegiata dell'apologia, ossia non solo della difesa della verità della fede, ma anche della esibizione della credibilità del vangelo nel mondo. In secondo luogo, allorché ha a che fare con la morte, il martirio cristiano (che nella prospettiva rahneriana viene descritto come la morte cristiana per eccellenza) viene a realizzarsi storicamente nel contesto della persecuzione, ossia della sofferenza e della morte che cristiani subiscono a motivo del loro credere.
    Il martirio cristiano ha innanzitutto a che fare con la struttura testimoniale della fede: ad fidem pertinet aliquid alicui credere (S. Th. II/II, 129,6), si tratta dunque di «accettare per vero e reale qualcosa sulla testimonianza di qualcun altro». Lungi dal costituirsi in un orizzonte fideista e fondamentalista, la fede cristiana esige strutturalmente il rapporto con la conoscenza, per quanto da essa non si lasci completamente catturare. La complessa dinamica del credere e del conoscere e, se si vuole, di fede e ragione riguarda sia l'aliquid sia l'alicui, presenti nella definizione tommasiana. Rispetto all'aliquid, si tratta della non assurdità del messaggio, rispetto all'alicui dell'attendibilità o affidabilità del testimone.
    Il «radicalismo» cristiano sta appunto nella totalità dell'atto del credere, che interpella e coinvolge tutta la persona, nella sua sfera conoscitiva, affettiva e volontaria, ponendola in rapporto di una testimonianza assolutamente affidabile e attendibile, percepita e colta come fondamento della certezza del credere. Tale «radicalismo» inoltre consente di prendere le distanze e di porre la fede al riparo da ogni deriva dossica, ossia da ogni concezione che ne mini la fondamentale istanza veritativa, relegandola nell'ambito delle opinioni e quindi, come direbbe il card. Newman, degli assensi nozionali, tralasciando o addirittura negando il suo imprescindibile nesso con la realtà (assenso reale).
    Se il senso della laicità cristiana sta nella «testimonianza», posta sulla base del fondamento agapico ed esprimentesi in una strutturale forma kenotica, allora:
    1) il martirio cristiano non ha nulla a che vedere con il fondamentalismo di qualsiasi genere;
    2) la sua realizzazione suprema nel dare la vita per Cristo non esprime alcun fanatismo ideologico, ma la semplice coerenza del testimone col contenuto della propria testimonianza (l'evento pasquale).
    La morte del martire è quindi paradigmatica dell'esistenza credente nel suo quotidiano esprimersi e realizzarsi: «Il martirio il più difficile non è quello che ti dà la morte per un atto di virtù passeggera, a cui può supplire talvolta un affetto impetuoso; ma quello che sostiene con serenità e costanza d'animo le afflizioni, i travagli e la lenta agonia della vita» (V. Gioberti). Lo stesso testo programmatico di 1Pt 3,15, pressoché unanimemente considerato la magna charta dell'apologetica, racchiude insieme al famoso invito a «rendere ragione della speranza» (un'attestazione minoritaria aggiunge «e della fede») delle indicazioni contestuali a mio avviso particolarmente significative per il nostro discorso.
    La prima concerne l'orizzonte contemplativo in cui va innestato il «rendere ragione», per cui senza tale radicamento le ragioni del credere risulteranno sterili, se non controproducenti, ma il contesto storico in cui questo versetto è incastonato fa esplicito riferimento alle persecuzioni che la comunità sta subendo e suggerisce quindi l'accostamento fra apologia e martirio/testimonianza, legando indissolubilmente i due termini e le due modalità espressive del credere (rendere ragione e testimoniare). Il testo, dunque, esortando all'apologia (difesa della fede), chiede che il cristiano espliciti le ragioni della propria speranza/fede e ciò è possibile perché il contenuto della fede non è assurdo, irrazionale o il prodotto del nostro sentimento, bensì possiede una intrinseca ragionevolezza che l'apologia manifesta. L'apologia, pertanto, esercita una sorta di arte maieutica nel momento in cui estrae dalla fede la sua logica e le sue ragioni. Quanto poi al modo dell'apologia, il testo ci indica che essa non è mai violenta, anzi le si richiede dolcezza e retta coscienza; non la violenza, ma il metodo della persuasione e del dialogo sarà quello proprio del cristiano. Ciò vuol dire il riconoscimento che anche nell'interlocutore opera il logos: se il credente esercita la ragione redenta l'altro possiede comunque la ragione creata, come partecipazione al Logos preesistente, nel quale tutte le cose sono state create. Il martire cristiano subisce la violenza ma non la produce né verso di sé né verso gli altri. Il «radicalismo» evangelico consiste non in un atteggiamento intollerante e dispotico ma nel radicarsi nell'evangelo della fede cristiana e dei comportamenti e atteggiamenti che da essa sgorgano.
    Il paradigma apologia/testimonianza del proto-cristianesimo si rinviene, anche se in forme non identiche, ma analoghe, in ogni epoca di questa ormai bimillenaria storia, per cui non deve meravigliare se la grazia ha suscitato delle figure anche laicali in cui in maniera mirabile il binomio si è realizzato anche nel nostro tempo. Il martirologio è un libro sempre aperto e ricco di nomi e di esperienze; percorrerlo e rileggerlo alimenta senz'altro la nostra spiritualità, ma non può non interpellare anche il nostro agire quotidiano nella comunità ecclesiale. In tempi in cui la credibilità del clero risulta fortemente compromessa dai suoi comportamenti, la possibilità di una risposta positiva alla domanda di Gesù, se il figlio dell'uomo al suo ritorno troverà la fede sulla terra, passa attraverso la capacità testimoniale vissuta nell'orizzonte della santità laicale (ossia di tutto il popolo di Dio).

    * Docente di teologia fondamentale - Pontificia Università Lateranense

    L'accompagnamento della comunità cristiana e l'arte del discernimento
    Giacomo Ruggeri

    Perché il prete si sente spesso in I– crisi? Perché la parrocchia che è nel territorio non riesce a parlare quasi più alla persona? Perché pensare la pastorale è faticoso con l'aggravante di sentirsi frustrati? Perché il laico è collocato più nell'ottica dell'eseguire scelte decise invece che nel dargli parola effettiva e affettiva? Posti questi interrogativi, preciso che l'articolo non intende (direttamente) rispondervi. Sono domande-pilota, ovvero, che mi portano a riflettere su un terreno alquanto frequentato in questi anni nella Chiesa italiana (soprattutto con l'evento di Bergoglio), ma assai raramente capito, esercitato, trafficato. Ovvero: il discernimento.

    La parrocchia da «organizzare»: organizzare cosa?

    Quando il vescovo convoca il parroco per affidargli una parrocchia, nel migliore dei casi l'espressione che usa è la seguente: «La situazione delle parrocchie di oggi sono tutte uguali, non c'è la parrocchia ideale. La parrocchia che ti affido è una parrocchia bella, impegnativa, con una forte componente di migrazione. C'è una pastorale da organizzare e so che posso contare su di te». Ora, ogni buon parroco – soprattutto se navigato e non di prima nomina – cerca di ricorrere alla sua esperienza, al bagaglio di vissuto che ha accumulato negli anni e si incammina verso il nuovo impegno con una molteplicità di sentimenti. Sarebbe bello proseguire una disamina di questi sentimenti che abitano il nuovo parroco, ma non è questa la sede. Però c'è un sentimento che sovente prevale su tutti nel cuore del nuovo pastore: organizzare al meglio la parrocchia perché sia al passo con i tempi attuali. Ma cosa vuol dire «organizzare» la parrocchia nella prospettiva del discernimento? Vediamo alcuni passaggi.

    Organizzare è ascoltare la realtà

    Porre come punto di partenza l'organizzazione in parrocchia come sinonimo di (sola) gestione intelligente di tutte le componenti significa anteporre i progetti alla relazione. Ogni progetto matura nel terreno dell'ascolto. Ascoltare la realtà viene prima di progettarla. Ascoltare il territorio viene prima di capirlo. Senza ascolto vero non ci può essere organizzazione fruttuosa. Credo che il primo servizio da rendere alla parrocchia, come preti e laici impegnati, sia quello dell'ascolto. Accompagnare è ascoltare, ben consapevole della fatica che comporta l'ascolto. Ascoltare e ascoltarmi è il verbo primordiale del discernimento. «Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede» (Evangelii gaudium § 20). Il discernimento si compie innanzitutto nell'ascolto della realtà nella quale sono inserito (senza nostalgie, senza illusioni).

    Organizzare è ascoltare cosa dice lo Spirito alla Chiesa

    È il realismo, dunque, che aiuta a oggettivare, a riconoscere potenzialità e carenze. La realtà è che la parola di Dio raggiunge una mini-male percentuale rispetto alla massa. Nello scenario italiano si assiste a un abbassamento della guardia rispetto all'ascolto della parola di Dio, rispetto ad alcuni decenni fa. I gruppi biblici parrocchiali faticano a perseverare nel cammino avviato; lo stesso gruppo liturgico che prepara la liturgia domenicale sente il fiato corto. Tutto ciò, pertanto, ricade sul parroco che sovente si ritrova a preparare la domenica sera/notte i commenti alle letture, ecc. Arrendersi è la logica del nemico (direbbe Ignazio di Loyola). Bisogna trovare non tanto (e solo) delle modalità nuove per annunciare il vangelo, ma di ascoltarsi personalmente innanzitutto come preti, per prendere coscienza che la grammatica che per decenni ha governato nella pastorale, oggi non è più compresa dalla gente. E i primi a farne le spese siamo proprio noi preti, perché cerchiamo di rimanere arrancati allo scoglio del «si è fatto sempre così, si è detto sempre così, si è annunciato il vangelo e fatta la catechesi sempre così», quando invece la nave del tempo attuale naviga al largo e su rotte ben diverse. Per questo credo che un prete, pur nel disorientamento che sente nel profondo (non senza frustrazioni e spaesamenti), non deve mai venir meno all'ascolto della Parola, di ciò che lo Spirito gli comunica tramite la Scrittura. Dico questo perché noto nell'esperienza del dare corsi di esercizi spirituali ai preti che la prima cosa che si spezza nel
    la vita di un parroco, vicario, ecc. è la meditazione quotidiana della Parola. Nella vita ho imparato a non scandalizzarmi perché non serve, non è nello stile di Cristo e non aiuta nella relazione con le persone. Per questo non mi scandalizzo quando mi sento dire da confratelli che nelle loro giornate «la parola di Dio è rara» (1Sam 3,1). Giornate dense di incombenze, dove lo stesso breviario è strattonato qua e là. Per non parlare poi dell'avere per sé il padre spirituale, merce rara nella vita di un prete. Se manca la sosta della Parola quotidiana nella giornata del prete, crolla tutto e tutti ne fanno le spese. Da una recente indagine nazionale sul livello delle omelie domenicali, si rafforza quanto appena detto: spesso si parla di altro e la Parola rimane ai margini. La gente lo capisce subito che manca il pane della Parola e, di conseguenza, lo cerca altrove.

    Accompagnare la comunità cristiana: quattro criteri dal basso, dalla gente

    Sono ben consapevole che la linea pastorale di Bergoglio fatichi a trovare terreno di seminagione in non pochi vescovi, parroci, consacrati, laici. La sua linea è di mettere mano agli scambi dei binari, ovvero, la meta è sempre la stessa: la relazione con le persone e l'annuncio del vangelo nel tempo attuale. A cambiare, invece, è il come pormi in relazione con le persone (cf. Amoris laetitia). Questo è lo snodo cruciale. Bergoglio costringe il parroco a conoscere in profondità e a camminare passo passo con le persone che incontra nel chiedergli un sacramento, una celebrazione, un cammino per il battesimo da adulti, un percorso per valutare l'annullamento del precedente matrimonio, ecc. In molti lamentano la confusione che si è generata, in questo modo di procedere. Può essere. Penso, però, che la confusione vera (prima ancora dell'avere una legge canonica da mettere sul tavolo dell'ufficio parrocchiale a chi chiede un sacramento ma non può averlo) sia quella che abita il cuore del parroco, costretto – suo malgrado – a fare un percorso ad hoc e un cammino di accompagnamento unicum non fotocopiabile con ciascuna persona. Non si tratta, perciò, di ritirarsi sull'Aventino delle sacrestie, concentrando le energie nella cura di celebrazioni e funzioni liturgiche (che meritano dignità e bellezza). C'è poco da ritirarsi. C'è tutto, invece, da investire nella fiducia che nasce nella relazione con il Signore. Il Signore è già presente nella vita delle persone, con percorsi inediti e incroci particolari, c'è prima ancora del mio annuncio di prete e catechista, vescovo e seminarista. Si tratta di mettermi al fianco delle persone lì dove sono (e non dove vorrei che fossero secondo una mia logica) e accompagnarle nel vissuto quotidiano. Qui di seguito, dunque, offro quattro criteri che ci vengono consegnati proprio dalla gente nel saper rifondare lo stile dell'accompagnamento nella comunità che vuole definirsi cristiana. E in essa esercitare il discernimento.

    Il criterio della complessità

    Complesso non è sinonimo di complicato. Complesso indica una realtà composta da più componenti tra loro 'in relazione o, perlomeno, in ricerca nell'esserlo. Ciò vale per una realtà di persone, per un carattere individuale, per una comunità religiosa, una parrocchia, ecc. Complicato, invece, è indice della relazione che ha subito traumi, rotture, interruzioni non previste, dinamiche improvvise che hanno compromesso la relazione stessa. Distinguere complesso e complicato non un cavillo linguistico, ma rappresenta il cuore stesso del discernimento. Si discerne sempre in una realtà complessa, composta da più elementi. Si discerne su persone e situazioni concrete, non sui sofismi ideologici, né sulle buoni intenzioni. La gente che va a fare la spesa, che si mette in fila dal dottore, che attende mesi per una visita specialistica sa bene che la vita è complessa e, sovente, il passaggio all'essere complicato è rapido. Il parroco a guida di una comunità, in tal caso, può assolvere un servizio importante: quello di accompagnare la persona nella situazione complessa che essa si trova a vivere (e spesso complicata a causa di molteplici fattori). Accompagnarla comporta come primo passo l'ascolto carsico ed eloquente di quanto sta vivendo, di come lo sta vivendo. Spesso pensiamo che l'annuncio del vangelo debba seguite determinati canonici, percorsi, luoghi. Il vangelo è già presente nella persona, ma spesso essa stessa non lo sa. Fatica a riconoscere la presenza del Signore in tutto quello che sta vivendo (anche per una persona attiva in parrocchia e partecipe all'eucaristia). Accompagnare il vissuto della persona per portarla alla consapevolezza che potrà raggiungere. Questo è vangelo che si fa notizia di bene in uno scenario complesso. Quando la vita ti tocca nelle fibre più interiori e intime, quando ti senti colpito nella carne e nelle viscere, anche la fede più incrollabile inizia a vacillare. L'accompagnamento nella complessità è possibile nella misura in cui so mettermi accanto alla persona senza progetti precostituiti, senza volerla portare dove voglio, ma dove la grazia di Dio presente in lei, mi vorrà guidare. La complessità, pertanto, è un criterio, per educarmi all'accompagnamento feriale, quotidiano, nelle situazioni concrete della vita.

    Il criterio dell'inatteso

    Essere «ministri di Dio» non significa averlo in tasca. La troppa sicurezza nasconde sempre frange deboli. La persona è forte quando è stabile, non quando è sicura. Dico questo perché è nel DNA del presbitero avvertire sicurezza, conferita soprattutto dal ruolo (ancor di più dall'abito). Il ruolo è a servizio di una relazione, non viceversa. Lasciarmi sorprendere dall'inatteso come presbitero può divenire la mia salvezza. La certezza mi porta all'ombelico (io). L'inatteso mi apre alla sequela (Dio). Il criterio dell'inatteso nell'accompagnamento è per un disorientamento che conduce al bene, alla vita. Come annunciare Cristo in una diagnosi di tumore allo stadio terminale? Come riconoscere il Dio della vita in una figlia di ventidue anni che si è tolta la vita gettandosi sotto il treno? E via così. Quasi per istinto siamo portati a pensare che quanto ci accade sia un incidente non previsto, per l'appunto inatteso. Un incidente da risolvere e rimuovere il più veloce possibile e con il minimo di dolore. Ma le cose, ahimè, non vanno così. Esercitare l'accompagnamento nelle vicende inattese non significa chiedermi subito «perché a me?». L'inatteso va ascoltato perché ha una parola da consegnarmi per me qui e ora. Fa bene al parroco non avere la parola pronta da dire, la parola «di bene da dare per consolare». Ci fa bene come pastori di parrocchie, diocesi, seminari, scuole di formazione teologica sentirci muti e sopraffatti dall'inatteso. Non sapere cosa dire non è brutto: è salvifico. Non sapere mi salva dall'egolatria. Se ho sempre una parola da dire su tutto e tutti, vuoi dire che Dio l'ho tacitato. Il criterio dell'inatteso aiuta me presbitero e la persona che incontro nel saperci mettere in ascolto di quanto il Signore ci vuole dire in questa situazione concreta. Cosa ha da dirci e come vuole donarcelo. Accompagnare con il criterio dell'inatteso, pertanto, richiede l'umiltà nel prendere in mano la Parola per lasciarsi portare dal Signore al «piano superiore» (Lc 22,12). Quante volte abbiamo sentito dire dalle persone frasi come queste: «Non avrei mai immaginato che in questa situazione il Signore mi donasse tanta pace, forza, speranza, coraggio...». E questo l'inatteso (di Dio).

    Il criterio di ferite e paure

    Accompagnare persone e comunità nelle ferite e nelle paure non è cosa per tutti. Non perché sia impossibile, ma perché non tutte le personalità caratteriali dei presbiteri riescono a stare con intelligenza e lucidità dentro ferite e paure (di se stessi e delle persone). Come può la ferita e la paura divenire criterio di accompagnamento? L'indicazione viene da Gesù stesso con verbi e parole che sono diventate incarnazione: vide, si fece vicino, pianse, cerca, cammina verso, tocca, abbraccia, corre, fascia, cura, non pretende, aspetta, si ferma, ha bisogno, chiede aiuto, ecc. Quando una persona viene a parlarmi in canonica ha già fatto una scelta di fondo. Penso alle tantissime situazioni che non bussano più alla canonica perché (forse) sanno già cosa rispondiamo, diciamo. Nelle case, nei condomini, dietro le finestre il dolore si mescola con la gioia, la lacrima con la speranza. Perché molte persone faticano nel pensare a noi preti come prime persone alle quali affidare dolori e angosce? Siamo «esperti» del sacro: e del sacrificio condiviso? Non possiamo incanalare tutto nella preghiera come se fosse la risoluzione del patire delle persone. A una persona che soffre a causa della sofferenza di una persona potrò arrivare a dirgli «preghiamo insieme» se prima cerco di farmi prossimo con la mia umanità alla sua umanità. La prossimazione dell'umano è la base per cercare assieme un senso. «L'assenza di significato può essere una sofferenza molto più devastante del dolore fisico». [1]

    A noi presbiteri – spesso – ci conoscono per ciò che siamo sull'altare, per quello che diciamo nell'omelia, sui social network, ecc. La vera conoscenza, però, avviene quando anche noi presbiteri apriamo cuore e anima alla persona che ci dona le sue ferite e paure, va in profondità e ci porta nel profondo. L'espressione ricorrente «quel prete è umano» indica l'eccezione, non la prassi. Siamo stati educati a essere uomini del divino e assai poco uomini dell'umano, Esercitare l'accompagnamento con il criterio di ferite e paure significa che in compagnia di Cristo nessuno e nulla è perduto. Sovente le persone guardano alle proprie paure e ferite come una condanna (per di più come una punizione di Dio riflesso di un'immagine di lui totalmente distorta). Ferite e paure possono essere un'opportunità di consolazione e apertura al futuro se incontro qualcuno che mi sta vicino, mi accompagna, mi aiuta (non mi dirige, non mi orienta), mi incoraggia. Bergoglio a tal proposito afferma: «Ricordiamo l'ambito delle persone battezzate che però non vivono le esigenze del battesimo, non hanno un'appartenenza cordiale alla Chiesa e non sperimentano più la consolazione della fede. La Chiesa, come madre sempre attenta, si impegna perché essi vivano una conversione che restituisca loro la gioia della fede e il desiderio di impegnarsi con il vangelo (Evangelii gaudium § 14).

    Il criterio del passo possibile

    Uno dei cardini del discernimento è saper accompagnare la persona là dove essa si trova. Lo zelo per il bene, in alcuni casi, può sortire l'effetto contrario, ovvero: preso dal desiderio di aiutare la persona perché risolva al meglio la sua situazione, mi lancio in discesa libera sulla via dei passi da far fare alla persona, in una strutturazione tempistica quasi perfetta.

    Questo non è accompagnare, ma dirigere. Accompagnare è stare al passo dell'altro. Volere il bene della persona (secondo come lo voglio io) è in seconda battuta rispetto al bene che le serve a lei qui e ora (che non conosco perché è intimo alla persona stessa). Portare la persona a compiere una scelta, a prendere una decisione basandosi solo nel darmi fiducia non è voler bene (e il bene) della persona. Sono sempre più frequenti, nel panorama dell'accompagnamento spirituale, casi di orientamento forzato della persona facendo leva su fiducia, stima, affetto, bisogno di consolazione (sino a casi di vessazione). È per me illuminante, a tal proposito, il pensiero che abitava mente e cuore di Ignazio di Loyola quando, nella sua ricerca di Dio,era sopraffatto da afflizioni, pensieri negativi e pur di venire fuori da quella situazione per trovare beneficio e aiuto sarebbe stato disposto a seguire il fiuto di un cane. [2] Le dinamiche personali e psicologiche della persona nel tempo attuale sono sempre più tendenti all'entrare in crisi, a non reggere particolari sofferenze, c'è fatica e rinuncia ad affrontare situazioni delicate. Quando la persona trova un presbitero che (in modo conscio e inconscio) si offre come la «sola scialuppa di salvataggio», l'accompagnamento spirituale si trova sulla soglia perché la persona è molto debole e fragile, esposta a qualsiasi vento, aggrappandosi a chiunque gli tenda una mano. Qui, però, si sconfina nell'accompagnamento psicologico, e bisogna avere l'umiltà come presbiteri di rimandare la persona a specialisti del settore. Non tutti devono fare tutto. Esercitare il criterio del passo possibile, dunque, significa per il presbitero capire qual è la natura interiore della persona per procedere con quella gradualità che matura nel camminare e non può essere data in anticipo. Il passo possibile è una forma di amore verso la persona, è una forma di rispetto che sa attendere, sa pazientare secondo la sapienza contadina trasudante nel vangelo: «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga» (Mc 4,26-28).
    Il passo possibile, pertanto, è riconoscere il regno di Dio già in opera nella persona prima ancora dell'accompagnamento. L'accompagnare, semmai, è una conferma dell'azione di Dio (o, in caso contrario, dell'azione del nemico, del male, della menzogna che sa essere un ottimo seduttore). In quella progressione dettagliata di Gesù «prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco» c'è il cuore di ogni processo di accompagnamento e di discernimento sia personale, sia comunitario. L'aver fretta, motivato da zelo di bene, non fa bene: fa male. In una società attuale dove la rapidità è segno di professionalità (si pensi alla fibra ottica di internet e di telefonia), bisogna avere la forza di riconoscere la rapidità come buona in sé in determinati settori e, nel contempo, declinare pastoralmente e pedagogicamente la rapidità nei sentieri della gradualità. Una delle ricchezze della Bibbia e della Chiesa è la concezione del tempo come abitazione privilegiata di Dio. Se faccio del tempo un criterio per raggiungere determinati obiettivi e scopi che mi sono prefissato, forzando i passaggi e accelerando i bisogni, diventa un tempo ombelico-centrico dove con i miei progetti MIO al centro e chiedo a Dio di confermarli e supportarli. È una forma reale dl idolatria, al pari del vitello biblico, Il criterio del passo possibile, invece, segue la via della naturalità rispettosa della persona e il tempo è luogo teofanico. E nella persona, come nella storia, che Dio si rivela. Accompagnare, perciò, è la forma di ascolto preziosa e necessaria nella pastorale del tempo attuale: «Il cuore dell'uomo è capace di ascolto e quindi è capace di risposta; di conseguenza il soggetto è sempre responsabile del proprio male, del proprio non ascolto, della propria infedeltà alla relazione di alleanza». [3]


    NOTE

    1 G. Cucci, «L'illusione: aiuto e ostacolo all'incontro con Cristo», in D. LIBANORI (a cura di), Il vessillo del Re, Society editions, Apostolato della Preghiera, Roma 2018, 149.
    2 Cf. IGNAZIO DI LOYOLA, Autobiografia, Apostolato della Preghiera, Roma 2010, § 23.
    3 M. CUCCIA, «"Porrò la mia legge nel loro intimo, la scriverò sul loro cuore" (Ger 31,33). Legge e cuore. Inconciliabili?», in D. LIBANORI (a cura di), Il vessillo del Re, Society editions, Apostolato della Preghiera, Roma 2018, 60.

    Per una santità del quotidiano
    Antonio Mastantuono

    Nel trapasso dal secondo al terzo millennio, nella mia bisaccia di pellegrino metterei soltanto otto parole, quelle delle beatitudini
    (E. De Luca)

    1. Nel solco del concilio

    L'esortazione Gaudete et exsultate riporta l'attenzione a un tema – quello della santità – che, pur essendo una delle intuizioni più feconde e profetiche del concilio Vaticano II, era divenuto marginale. E proprio dal Vaticano II che prende le mosse la riflessione proposta da papa Francesco; soprattutto nel 1° capitolo (nn. 3-34) che verte su La chiamata alla santità come chiamata alla comunione, (ma anche, in modi diversi, in tutto il corpo dell'enciclica) si trovano importanti riferimenti alla comunione dei santi, sulla linea delle affermazioni del concilio Vaticano II e particolarmente della costituzione dogmatica Lumen gentium (LG), che, eliminando in radice equivoci accumulatisi lungo i secoli, ha posto con forza l'accento sulla vocazione alla santità di tutti i membri del popolo di Dio. Ciascun battezzato è chiamato a essere «santo», sforzandosi d'interpretare, secondo la sua specifica realtà vocazionale e storico-esistenziale, la figura di uomo-credente incarnata in modo paradigmatico da Gesù.

    La Lumen gentium

    È importante richiamare alla memoria – anche se solo per cenni – il faticoso itinerario che ha caratterizzato la genesi della LG e segnatamente il c. V: Universale vocazione alla santità nella Chiesa. [1] Ne segnaliamo i passaggi cruciali. Nel periodo che ha preceduto l'apertura del concilio, la Commissione teologica preparatoria (tra giugno 1960 e novembre 1962) aveva elaborato un elenco di 13 punti, da cui si ricavò un primo schema formato da undici capitoli, che venne distribuito il 23 novembre 1962 ai padri conciliari. La risposta dei padri fu critica, sia per la configurazione dei contenuti che per il linguaggio impiegato. Sulla base delle nuove indicazioni, la Commissione teologica presentò una nuova versione del documento, articolato in quattro parti: I. «Il mistero della Chiesa»; II. «La costituzione gerarchica della Chiesa»; III. «Il popolo di Dio, con particolare considerazione dei laici»; IV. «La vocazione alla santità nella Chiesa». Il dibattito su questo secondo schema suggerì l'opportunità di aggiungere un altro capitolo: «L'indole escatologica della nostra vocazione e l'unione con la Chiesa celeste» (che corrisponde all'attuale c. VII). Inoltre, i padri deliberarono di non predisporre un documento specifico sulla vergine Maria, ma di inserire la riflessione mariologica nella stessa costituzione sulla Chiesa (l'attuale c. VIII). Nella prima parte del c. III si decise di far precedere la trattazione del popolo di Dio rispetto ai ministeri e agli stati di vita. La seconda parte del c. III sui «Laici» restò invece nel suo posto. Il c. IV si occupava originariamente dei «religiosi» e della «vocazione alla santità». Nella successiva discussione si deliberò di scomporre il capitolo in due parti e di far precedere il tema dell'«universale vocazione alla santità nella Chiesa», inserendo solo dopo la trattazione riguardante la vita religiosa e la sua specifica missione. [2] In tal modo risulta chiaro come la vita fondata sui «consigli evangelici» non si basa sull'organizzazione gerarchica, ma fa parte della struttura carismatica della Chiesa. In definitiva, l'attuale c. V, «Universale vocazione alla santità nella Chiesa», è collocato tra il c. IV, che tratta dei laici, e il c. VI che presenta la vita religiosa. [3] Un ulteriore aspetto dell'elaborazione del c. V ha riguardato lo stile e la formulazione linguistica, che riguardava: «Gli stati di vita nei quali si aspira alla perfezione evangelica». L'attuale formulazione pone l'accento sulla «santità» più che sulla «perfezione». Tale accentuazione permette di comprendere meglio la relazione di grazia che i credenti sperimentano nell'incontro con Dio, «il solo santo», mentre l'idea di perfezione indica il dinamismo spirituale dal punto di vista ascetico-morale. In tal modo si ha l'idea che lo stato di perfezione non è esclusivo della vita consacrata che persegue la via dei consigli evangelici, ma appartiene a tutti i battezzati che partecipano in pienezza alla realizzazione della «vocazione alla santità», ciascuno nel proprio stato di vita. Il c. V ribadisce che tale vocazione universale avviene «nella Chiesa». Questa accentuazione ricorda che la santità non riguarda solo la sfera individuale, ma si collega necessariamente alla santità di Cristo e della Chiesa, che ne è il corpo. In definitiva, tutti e tre gli stati di vita, i ministri ordinati, i laici e i religiosi hanno le proprie radici nello stesso mistero e sono variamente connessi gli uni agli altri,

    vivendo l'irrepetibile e unica «vocazione alla santità». [4]
    Nel corso degli anni non sono mancati gli approfondimenti sul concetto-chiave racchiuso nell'espressione «vocazione alla santità» [5] con il dibattito sull'utilizzazione della categoria di "vocazione" e sulla sua valenza teologico-morale; [6] l'attenzione rivolta all'approfondimento della radice biblica del binomio vocazione-santità, confermata dalla fecondità della prospettiva conciliare; [7] l'attenzione alla dimensione antropologica [8] ed ecumenica [9] della permanente chiamata alla santità, fondata sulla volontà di Dio «che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4); [10] infine la centralità riconosciuta al capitolo V della LG; Luigi Sartori lo ritiene come il capitolo in cui la Chiesa esplicita la sua missione e la sua finalità; [11] mentre Joseph Ratzinger lo considera come una delle chiavi interpretative dell’ecclesiologia conciliare [12].

    Gaudete et exsultate

    L'aver richiamato il contesto ci aiuta a comprendere la particolare angolatura che attraversa la Gaudete ed exsultate che, così come il papa si premura di affermare, non è un trattato sulla santità: «Il mio umile obiettivo – afferma il papa - è far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità, cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità» (n. 2).
    Papa Francesco, in coerenza con la sua ecclesiologia centrata sul «popolo di Dio», sottolinea che la vocazione alla santità è anzitutto suscitata nel popolo a opera dello Spirito (cf. n. 6). In un senso molto speciale, va detto che se la Chiesa è un popolo, anche la santità dev'essere «popolare», [13] perché non si dà élitarismo nel cristianesimo. È all'interno di tale prospettiva che il papa utilizza le espressioni della «santità della porta accanto», le «classi medie della santità» (J. Malègue) (n.7), [14] espressioni giornalisticamente apprezzabili e votate ad ampia circolazione, potrebbero però generare un'impressione errata di qualunquismo o di santità a buon -mercato nelle persone meno provvedute. Ricordando che la santità è di tutti, sa di non fare un richiamo scontato, perché talora vi sono alcuni ostacoli: ad esempio, quello di considerare la santità come una graziosa sorte per soggetti privilegiati, mentre essa è vocazione di tutti.

    2. La santità come fedeltà alla vita

    «La santità è un dono che viene offerto a tutti, nessuno escluso, per cui costituisce il carattere distintivo di ogni cristiano. [...] Tante volte siamo tentati di pensare che la santità sia riservata soltanto a coloro che hanno la possibilità di staccarsi dalle faccende ordinarie, per dedicarsi esclusivamente alla preghiera. Ma non è così! E qualcuno pensa che la santità sia chiudere gli occhi e fare la faccia da immaginetta... No, non è questo la santità!» [15] perché «tutti siamo chiamati a essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova» (n. 14).
    La santità, tante volte presentata come una specie di rovesciamento eroico delle tendenze personali, coincide con la felicità. Non è un cammino di rinuncia, ma un cammino verso la pienezza. Sua cifra caratteristica sono insieme la semplicità e la totalità. Papa Francesco è programmaticamente esplicito su questo sin dal primo paragrafo: «Il Signore chiede tutto, e quello che offre è la vera vita, la felicità per la quale siamo stati creati. Egli ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un'esistenza mediocre, annacquata, inconsistente» (n. 1). È una chiamata che ci raggiunge nella quotidianità del nostro vivere, così come è stato per i discepoli. Se leggiamo i vangeli ci colpisce un atteggiamento da parte di Gesù che potremmo chiamare di fedeltà alla vita, così come la persona la sta vivendo; non la sostituisce con un altro luogo, non la sostituisce con un'altra vita. Ciò significa che quando il Signore avvia il processo del divenire figli del Regno, non chiede e non indica alle persone un «altrove» rispetto al «dove» esse sono, al «dove» esse vivono. Non esige un altrove. E questo non è per nulla scontato, perché nel contesto religioso e culturale nel quale Gesù viveva, dominava invece la categoria dell'«altrove». Era per esempio la categoria degli esseni e dei qumraniti, per i quali il «dove» della vita spirituale era Qumran. Era la categoria dei movimenti battistici e apocalittici, all'interno dei quali dobbiamo collocare anche Giovanni, per i quali il «dove» della vita spirituale era il deserto. Era la grande categoria dei farisei, per i quali il «dove» della vita spirituale, almeno nel desiderio, era la «Terra Santa», Giudea e Gerusalemme elettivamente. Non era concepibile, se non come menomazione e sopportazione, una vicenda spirituale vissuta nello spazio profano della Galilea, della Samaria o delle città della Decapoli. Anche per i sadducei c'era un altro luogo, un «altrove» da raggiungere e nel quale collocarsi, anche se era in questo senso un altrove metaforico; ed era quello dell'abitare il potere, dell'abitare il vertice delle istituzioni, i luoghi della notabilità. Questa mentalità tutta giocata sulla categoria dell'altrove era talmente forte anche tra i Dodici, che sul Tabor Pietro avanza questa richiesta: «Signore, è bello per noi stare qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Mt 17,4). E, per contrasto, quando la nube li avvolse, li oscurò: «Non videro altro che il solo Gesù». Come dire: la delusione del ritornare alla terra di sempre, del ripiombare dentro la prosa. Invece, il rifiuto della categoria dell'«altrove» come luogo della vita per i figli del Regno è così evidente nell'insegnamento e nella vicenda di Gesù che, dopo la conclusione della sua vicenda storica, i Dodici troveranno del tutto normale tornare in Galilea a fare i pescatori (cf. Gv 21). Quindi non ricevono una consegna, una collocazione diversa rispetto a quella dalla quale provenivano, ma si considerano riconsegnati a ciò da cui erano venuti. Ed è là, nella Galilea, che Gesù farà nuovamente la raccolta del gruppo apostolico, del nuovo Israele, per l'avvio della missione. Quello che Gesù fa, e questo è veramente il cambiamento interessante, è di leggere quella vita concreta, quotidiana, con un alfabeto diverso, di leggerla con una profondità, con una «ulteriorità» insospettata. Per esempio, egli legge in un modo diverso il rapporto tra il cieco e la luce, tra la guarigione e la salvezza; legge in maniera differente la sete di acqua della samaritana; legge in un modo diverso lo stesso culto («Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato!», Mc 2,27), il rapporto con la Legge («Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli», Mt 5,20); legge in un modo diverso il rapporto con il mestiere, con il lavoro: da pescatori di pesci a pescatori di uomini. Si ha perciò una lettura nuova della vita normale, della vita ordinaria della persona, a partire dal Regno. La vicenda della persona non viene esteriormente cambiata, ma viene decifrata con un altro codice, il codice del regno di Dio: Gesù aiuta i figli del Regno a guardare alla propria vita, a capirla con gli occhi di Dio. E come se la persona si vedesse fiorire tra le mani una ricchezza e una bellezza insospettata.
    In questo senso, il cammino verso la santità non è «altra» rispetto alla vita normale, alla vita quotidiana. Essa viene tutta recuperata e le si conferisce una profondità, un significato e un orizzonte inaspettato, bello e nuovo. Riceve una risonanza e una dilatazione che non avremmo pensato mai.
    La vita così com'è, per ciascuno di noi, è un luogo teologico. Non nel senso tecnico in cui si scrive questa espressione nei libri di teologia dogmatica, ma nel senso più ampio: è un luogo cioè abitato da Dio e da noi, la tenda dell'alleanza, la tenda dell'incontro. È un luogo teologico, la vita di ogni giorno, la tenda del quotidiano. Abitata da Dio e da noi, luogo di incontro, luogo di dialogo tra noi e lui.

    3. Il Monte delle beatitudini, Nazaret e Cafarnao: tre icone per la santità quotidiana

    Il Monte delle beatitudini: sorgente di ogni cammino di santità

    Il Monte delle beatitudini, il luogo in cui Gesù, secondo l'evangelista Matteo, pronunciò il discorso della montagna (cf. Mt 5, 3-12), è il luogo della fondamentale formazione che Gesù opera nei confronti dei Dodici. La formazione base è lì, quando Gesù racconta il volto del Regno, l'assetto del suo passaggio nella storia e, per luce riflessa, l'identità del discepolo, la strada del discepolo.

    Questa è la convinzione di partenza che porta il pontefice a concentrare sulle beatitudini il capitolo centrale dell'esortazione. «Poche parole, semplici parole, ma pratiche a tutti, perché il cristianesimo è una religione pratica: non è per pensarla, è per praticarla, per farla». [16]
    Per arrivare a essere un buon cristiano – scrive papa Francesco – «è necessario fare, ognuno a suo modo, quello che dice Gesù nel discorso delle beatitudini» (n. 63), pratico «programma di santità».
    L'esortazione apostolica si sofferma su ogni singola frase del testo evangelico delle beatitudini, commentandola, presentando così una santità schiettamente evangelica, sine glossa e senza scuse: «Il Signore ci ha lasciato ben chiaro che la santità non si può capire né vivere prescindendo da queste sue esigenze» (n. 97). E così rifugge da una spiritualità astratta, che separa la preghiera dall'azione o che al contrario appiattisce tutto nella dimensione mondana.
    Parole da custodire nella cella del cuore, anche nel frastuono di una vita frammentata, perché non sia vita dispersa, vita profanata; il cuore come cella interiore, quella in cui si impara l'alfabeto per guardare, leggere e vivere la nostra vita e quella degli altri; così come la storia, il tempo.

    Nazaret: icona della santità quotidiana

    Se il Monte delle beatitudini è la sorgente del cammino della santità, Nazaret [17] è l'icona della santità quotidiana.

    Nazaret vuol dire che Dio è «dentro»: dentro le piccole cose, dentro l'apparentemente irrilevante e banale (i trent'anni di silenzio); ricorda che per insignificante che sia, la vita di un uomo non è mai di poco valore agli occhi di Dio. La potenza di Dio si manifesta nella quotidianità, nelle scelte perdenti, nell'operosità silenziosa e perfino nell'apparente inutilità della vita.
    Nazaret vuol dire saper cogliere e vivere dell'essenziale: il rifiuto dell'esibizione e dello spreco, la libertà da ciò che è status symbol, l'educarsi al necessario nell'uso delle cose e delle tecnologie, lo stile dell'austerità e della semplicità come modo di vivere la povertà nazaretana.
    Nazaret significa che la vera grandezza è nell'intensità dell'amore, non nella notabilità delle cose. È nell'intensità d'amore con cui si compiono le piccole cose. Questo è stato Nazaret per trent'anni nella vita di Maria e di Gesù.
    Nazaret vuol dire la gioia dei piccoli risultati, magari conseguiti con grande impegno e fatica; l'essere interiormente liberi dal fascino dell'applauso, dunque la libertà spirituale dal successo, dal numero, dalla visibilità.
    Vivere la santità nello stile di Nazaret porta a vivere la santità con realismo: «I santi – scriveva von Balthasar – sono i veri realisti, tengono conto che l'uomo, così com'è, non ha speranza, e non fuggono dal presente per rifugiarsi nel futuro. Essi sono i veri utopisti: malgrado tutto, si danno da fare e sperano contro la speranza. Sono cauti ma non calcolatori; vivono della prodigalità dell'amore eucaristico di Dio. I santi sono umili: vale a dire, la mediocrità della Chiesa non li scoraggia a solidarizzare definitivamente con essa; perché sanno bene che senza la Chiesa non troverebbero la strada che li porta a Dio. Essi non cercano di conquistarsi le grazie di Dio di propria iniziativa, scavalcando la Chiesa di Cristo. Combattono la mediocrità, non con la contestazione ma stimolando, contagiando, accendendo i migliori. Essi soffrono per la Chiesa, ma non diventano acidi, né si appartano imbronciati. E non creano conventicole accanto alla Chiesa, ma gettano il loro fuoco al centro. Se poi sono autentici, i santi non attirano l'attenzione su se stessi; essi non sono che un riflesso, mentre l'attenzione va diretta al signore del fuoco». [18]
    Vivere la santità nello stile di Nazaret porta a vincere le «due falsificazioni della santità che potrebbero farci sbagliare strada: lo gnosticismo e il pelagianesimo» (cf. nn. 35-62). [19]
    Nell'omelia del 27 giugno 2013 papa Francesco così descrive coloro che cedono a tali falsificazioni: «C'è un primo tipo – definibile come "gnostico" – che invece di amare la roccia, ama le parole "belle" e dunque vive galleggiando sulla superficie della vita cristiana. E poi c'è l'altro, che si può chiamare "pelagiano", il quale ha uno stile di vita serioso e inamidato. Cristiani che "guardano il pavimento". [...] I primi hanno una certa "allegria" superficiale. Gli altri vivono in una continua veglia funebre, ma non sanno cosa sia la gioia cristiana, Non sanno godere la vita che Gesù ci dà, perché non sanno parlare con Gesù. [...] Quelli sono schiavi della superficialità, di questa vita diffusa, e questi sono schiavi della rigidità, non sono liberi. Nella loro vita, lo Spirito Santo non trova posto».[20]
    Vivere la santità nello stile di Nazaret porta a colorare la propria esistenza con i tratti che papa Francesco delinea nel capitolo IV (nn. 110-156).
    I tratti della sopportazione, della pazienza, della mitezza e dell'umiltà, che si raggiunge anche grazie alla sopportazione delle umiliazioni quotidiane, sono caratteristiche del santo che ha un cuore «pacificato da Cristo, libero da quell'aggressività che scaturisce da un io troppo grande» (n. 121).
    La gioia e il senso dell'umorismo. La santità, infatti, «non implica uno spirito inibito, triste, acido, malinconico, o un basso profilo senza energia». Anzi, «il malumore non è un segno di santità» (n. 126). Al contrario, «il santo è capace di vivere con gioia e senso dell'umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza» (n. 122). Il Signore «ci vuole positivi, grati e non troppo complicati» (n. 127).
    L'audacia e il fervore. Il riconoscere la nostra fragilità non deve spingerci a mancare di audacia. La santità vince le paure e i calcoli, la necessità di trovare luoghi sicuri. Francesco ne elenca alcuni: «individualismo, spiritualismo, chiusura in piccoli mondi, dipendenza, sistemazione, ripetizione di schemi prefissati, dogmatismo, nostalgia, pessimismo, rifugio nelle norme» (n. 134). Il santo non è un burocrate né un funzionario, ma una persona appassionata che non sa vivere nella «mediocrità tranquilla e anestetizzante» (n. 138). Il santo spiazza e sorprende (cf. ivi) perché sa che «Dio è sempre novità, che ci spinge continuamente a ripartire e a cambiare posto per andare oltre il conosciuto, verso le periferie e le frontiere» (n. 135).
    Infine, la preghiera costante. Il santo «ha bisogno di comunicare con Dio. È uno che non sopporta di soffocare nell'immanenza chiusa di questo mondo, e in mezzo ai suoi sforzi e al suo donarsi sospira per Dio, esce da sé nella lode e allarga i propri confini nella contemplazione del Signore» (n. 147) che non addomestica la potenza del volto di Cristo (cf. n. 151).11papa precisa: «Non credo nella santità senza preghiera, anche se non si tratta necessariamente di lunghi momenti o di sentimenti intensi» (ivi). Egli mette, anzi, in guardia da «pregiudizi spiritualisti», che portano a pensare che «la preghiera dovrebbe essere una pura contemplazione di Dio, senza distrazioni, come se i nomi e i volti dei fratelli fossero un disturbo da evitare». E annota: «Essere santi non significa, pertanto, lustrarsi gli occhi in una presunta estasi» (n. 96). Al contrario, proprio l'intercessione e la preghiera di domanda sono gradite a Dio perché legate alla realtà della nostra vita.

    Una santità di lotta e di discernimento
    Se la vita quotidiana è il luogo del cammino verso la santità non possiamo esimerci dal pensare che non è affatto semplice cercare Dio nella «vita qualunque» di ogni giorno, anziché cercarlo sulla strada della mistica, della pura contemplazione. Una vita «a regime misto» non è affatto più semplice della pura via contemplativa. La vita quotidiana comporta l'assunzione del rischio, del giocarsi personalmente, senza rete di protezione, nelle vicende della vita. «La vita cristiana è un combattimento permanente. Si richiedono forza e coraggio per resistere alle tentazioni del diavolo e annunciare il vangelo. Questa lotta è molto bella, perché ci permette di fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita» (n. 158).
    È necessario perciò il discernimento: esso non approda quasi mai alla solarità di una conclusione certa, evidente, ma alla penombra del probabile, del possibile, e quindi non libera dalla percezione del rischio, dall'assunzione della responsabilità. Rimanda a un discernimento successivo e più avanzato. Ecco perché il discernimento fa metodo. Non è episodio: è metodo, concomitante alla sua strada, ed è una strada non nella solarità, ma nel chiaroscuro. Il dono del discernimento aiuta in questa battaglia spirituale, perché fa comprendere «se una cosa viene dallo Spirito Santo o se deriva dallo spirito del mondo o dallo spirito del diavolo» (n. 166). Per Bergoglio una vita santa non è semplicemente una vita virtuosa, nel senso che persegue le virtù in generale. Essa è tale, perché sa cogliere l'azione dello Spirito Santo e i suoi movimenti, e li segue.
    In un contesto di continuo zapping esistenziale, «senza la sapienza del discernimento possiamo trasformarci facilmente in burattini alla mercé delle tendenze del momento» (n. 167). Si potrebbe vivere persino uno zapping spirituale, diciamo così, se non si è condotti dal discernimento.
    Questo dono è importante, perché ci permette di essere «capaci dl riconoscere i tempi di Dio e la ius grazia, per non sprecare le ispirazioni del Signore, per non lasciar cadere il suo invito a crescere» (n, 169). Ancora una volta il papa insiste sul fatto che questo si gioca nelle piccole cose di ogni giorno, «persino in ciò che sembra irrilevante, perché la magnanimità si rivela nelle cose semplici e quotidiane». Si tratta – egli afferma – «di non avere limiti per la grandezza, per il meglio e il più bello, ma nello stesso tempo di concentrarsi sul piccolo, sull'impegno di oggi» (ivi). Quasi a voler riassumere il senso del suo itinerario compiuto fino a questo momento il papa scrive: «Quando scrutiamo davanti a Dio le strade della vita, non ci sono spazi che restino esclusi. In tutti gli aspetti dell'esistenza possiamo continuare a crescere e offrire a Dio qualcosa di più, perfino in quelli nei quali sperimentiamo le difficoltà più forti. Ma occorre chiedere allo Spirito Santo che ci liberi e che scacci quella paura che ci porta a vietargli l'ingresso in alcuni aspetti della nostra vita. Colui che chiede tutto dà
    anche tutto, e non vuole entrare in noi per mutilare o indebolire, ma per dare pienezza. Questo ci fa vedere che il discernimento non è un'autoanalisi presuntuosa, una introspezione egoista, ma una vera uscita da noi stessi verso il mistero di Dio, che ci aiuta a vivere la missione alla quale ci ha chiamato per il bene dei fratelli» (n. 175).

    Cafarnao: luogo della comunità e della missione

    A Cafarnao c'è l'invito ad essere comunità e diventare la «casa di Pietro» in cui Gesù abita e nella quale raccoglie i discepoli: una Chiesa che cresce nella conoscenza di Gesù e del suo vangelo (è in casa che Gesù spiega loro le parabole dei vari tipi di terreno, del seme e della zizzania), nell'esperienza concreta e quotidiana di lui, acquistandone lo stile e i «sentimenti» (come direbbe san Paolo); una Chiesa-popolo, non elitaria, acciaccata e sporca, non dogana, ma ospedale da campo – come ama dire papa Francesco – rappresentata da quella folla che alla sera si raccoglie sulla piazza del villaggio, attorno a Gesù.

    La dimensione comunitaria
    Cafarnao ci ricorda che la santità è un cammino che non si compie da soli, ma all'interno di un popolo: «Il Signore – afferma papa Francesco – nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo (n. 6). Siamo un solo popolo: il suo, quello che lui ha raccolto da ogni distanza, parzialità, solitudine. La santità, vista come cittadella, come qualcosa di appartato che va recintato e difeso dalla vita reale, viene smentita e respinta. Questo è appartenuto purtroppo a una tradizione triste di spiritualità, ma non è questa l'azione dello Spirito. Lo Spirito non difende, non ha difeso mai, fin dall'inizio è stato così: chiusi nel Cenacolo per paura dei giudei, spinge fuori i discepoli, fa saltare le porte sbarrate e li butta in piazza. Questo, dunque, è il luogo e lo stile della santità. Non si cresce nell'amore di Dio evitando la fatica delle relazioni umane. In altri termini, il cammino della santità è personale, perché è la persona il luogo decisivo, il luogo principe dove avvengono l'incontro e la conversione, dove avviene la fedeltà lungo la strada: è personale, ma non individuale. Allora la santità sorge
    e vive nella comunità: la vita comunitaria preserva dalla «tendenza all'individualismo consumista che finisce per isolarci nella ricerca del benessere appartato dagli altri» (n. 146).
    La Chiesa non è soltanto cornice, non è soltanto contesto della vicenda dei singoli: è la possibilità stessa della santità, perché essa ha la memoria di Gesù. La memoria di Gesù non è data ai singoli individui; essa è data al suo popolo, alla sua Chiesa.

    Dimensione «politica» della santità
    Cafarnao non è solo la casa di Pietro in cui Gesù è presente e parla, è anche un tetto scoperchiato perché c'è un paralitico a cui bisogna dare accoglienza.
    Cafarnao è «cifra» per una santità capace di mettersi accanto alle persone per aiutarle a leggersi dentro, a decifrare il proprio vissuto, a pronunciare il nome delle proprie piaghe e delle proprie ferite, non per deprimersi, autogiustificarsi o ribellarsi, ma per interpretarle come varchi, come attese e desiderio di un incontro che non condanna, ma sana e salva.
    «Essere santi non significa... lustrarsi gli occhi in una presunta estasi» (n. 96) ma porta a riconoscere il volto di Cristo nei poveri; «Il nostro culto è gradito a Dio – continua papa Francesco – quando vi portiamo propositi di vivere con generosità e quando lasciamo che il dono di Dio si manifesti nella dedizione ai fratelli. [.. .1 Il modo migliore per discernere se il nostro cammino di preghiera è autentico sarà osservare in che misura la nostra vita si va trasformando alla luce della misericordia» (nn. 104-105).
    Come i quattro amici di Cafarnao, coloro che cercano di conformare il proprio cuore ai sentimenti e alle scelte più profonde di Gesù, non possono ricercare «un ideale di santità che ignori l'ingiustizia di questo mondo, dove alcuni festeggiano, spendono allegramente e riducono la propria vita alle novità del consumo, mentre altri guardano da fuori e intanto la loro vita passa e finisce miseramente» (n. 101). È necessario far cadere l'alibi di chi pensa a un cammino spirituale tutto raccolto nell'intimità del proprio io e quasi infastidito dagli eventuali intoppi lungo la via: il povero che tende la mano, l'immigrato catapultato da mondi lontani, il disabile bisognoso di soccorso, il giovane «sfatto» dagli stupefacenti, il rom refrattario alle regole sociali. Il papa ricorda che queste situazioni di umanità debole, sofferente, marginale, non sono intralci ma, piuttosto, concrete occasioni di messa alla prova dell'autenticità o meno di una vita credente.
    La «santità feriale», a portata di tutti, non può chiudersi in se stessa, sottraendosi alle pressanti incidenze e sollecitazioni socio-politiche del proprio tempo.

    Per concludere...

    La santità non è un'espropriazione della nostra umanità, ma una grazia che ci rende «più vivi e più umani», essa è la «pienezza della vita cristiana» a cui tutti siamo chiamati. [21]
    La relazione con Cristo non soffoca, ma libera. Don Tonino Bello all'Azione cattolica scriveva: «Siate soprattutto uomini. Fino in fondo. Anzi, fino in cima. Perché essere uomini fino in cima significa essere santi. Non fermatevi, perciò, a mezza costa: la santità non sopporta misure discrete». [22]
    In Gaudete et exsultate, papa Francesco esorta a «non avere paura della santità. Non ti toglierà forze, vita e gioia. Tutto il contrario, perché arriverai a essere quello che il Padre ha pensato quando ti ha creato e sarai fedele al tuo stesso essere. Dipendere da lui ci libera dalle schiavitù e ci porta a riconoscere la nostra dignità. [.. .] Ogni cristiano, nella misura in cui si santifica, diventa più fecondo per il mondo. [.. .] Non avere paura di puntare più in alto, di lasciarti amare e liberare da Dio. Non avere paura di lasciarti guidare dallo Spirito Santo. La santità non ti rende meno umano, perché è l'incontro della tua debolezza con la forza della grazia» (nn. 32-34).
    Una santità popolare di cui oggi bisogna riscoprirne l'importanza: anzi, come affermava il cardinal Martini, essa «è necessaria oggi perché Dio altrimenti muore nella storia, perché altrimenti l'esistenza di Dio non è più resa visibile attraverso testimonianze diffuse, ma si rifugia appunto in testimonianza aristocratiche, elitarie, intellettuali, oppure solitarie, che sono molto utili, che sono belle, ma che non sono più una forma misteriosa della presenza nella vita quotidiana e, siccome Dio non vuole morire dalla vita quotidiana, Dio vive e rivive in questa santità di popolo che però va coltivata, suscitata, colta, capita e promossa». [23]

    * docente di teologia pastorale, vice assistente generale Azione cattolica italiana


    NOTE

    1 Cf. M. SCHLOSSER, «Chiamati alla santità nella Comunione dei santi. Osservazioni sul quinto capitolo della Lumen gentium», in Communio 238(2013), 55-57.
    2 Il passaggio dall'«universale vocazione alla santità», che riguarda tutti i battezzati, alla realizzazione propria della vita religiosa è ravvisabile nel collegamento di LG 42,2 che descrive i particolari doni della grazia e introduce al c. VI. Leggiamo infatti: «Tutti i fedeli del Cristo quindi sono invitati e tenuti a perseguire la santità e la perfezione del proprio stato. Perciò tutti si sforzino di dirigere rettamente i propri affetti, affinché dall'uso delle cose di questo mondo e da un attaccamento alle ricchezze contrario allo spirito della povertà evangelica non siano impediti di tendere alla carità perfetta; ammonisce infatti l'apostolo: Quelli che usano di questo mondo, non vi ci si arrestino, perché passa la scena di questo mondo (cf. 1Cor 7,31)» (LG 42).
    3 Nell'aula conciliare ci fu anche la proposta di collocare il tema della «vocazione alla santità» già nel capitolo II, dedicato al «Popolo di Dio», non solo perché questo capitolo offre una fondazione della teologia del laicato, ma soprattutto per la partecipazione di tutti i battezzati al popolo santo di Dio e al «sacerdozio comune» di tutti i fedeli. In tal modo l'«universale vocazione alla santità» è vista in stretta connessione con il tema del «sacerdozio comune» dei battezzati (LG 10-11). In questa prospettiva vi sono altri testi conciliari che affrontano la questione con accentuazioni diverse: cf. Sacrosanctum concilium 14; Unitatis redintegratio 4; Apostolicam actuositatem 2-3; Ad gentes 15; Presbyterorum ordinis 2.
    4 «Diversi padri conciliari chiesero di ancorare più saldamente la "vocazione alla santità", già all'inizio, alla teologia della grazia e all'ecclesiologia, evitando di offrire un'esposizione primariamente teologico-morale. Dall'altra parte sembrava altrettanto importante dare un adeguato risalto alla responsabilità del cristiano, al suo contribuire alla grazia. Anche qui andava trovato un equilibrio tra la santità sul piano dell'oggettività ontologica, quella donata come grazia, e il conseguente dovere di darle compimento. Non pochi padri (un centinaio) raccomandarono infine di formulare espressamente il nesso tra charitas e "santità" o le altre virtù teologali, in modo che la "santità" non rimanesse troppo sulle generali e da dire qualcosa anche sui singoli stati di vita concreti; una richiesta accolta al n. 41» (SCHLOSSER, Chiamati alla santità nella comunione dei santi, 57).
    5 Tale prospettiva è stata ben tematizzata da T. VETRALI, «La santità da categoria di separazione a luogo di unità», in La santità terreno di unità, a cura di ID., Istituto di studi ecumenici, Venezia 2009, 11-44.
    6 Cf. E. MASSERONI, «Vocazione e vocazioni», in Nuovo dizionario di teologia morale, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 41999,1498-1505; S. MAJORANO, «Il dialogo vocazionale: iniziativa di Dio e libera risposta dell'uomo», in Seminarium 12(2006), 247-266; L. BRESSAN, «Sequela o ministero? Vocazione o progetto? Ben al di là di una semplice questione di parole», in La Scuola Cattolica 3(2004), 405-424; F.G. BRAMBILLA, «Vocazione della Chiesa e vocazioni nella Chiesa», in La Scuola Cattolica 3(2004), 553-576.
    7 La ricchezza della riflessione sulla categoria vocazione e il cambiamento del suo impiego teologico morale è resa evidente dalla mole di pubblicazioni sul tema nel periodo postconciliare (cf. Dizionario biblico della vocazione, Rogate, Roma 2007).vi interpretative dell'ecclesiologia conciliare»
    8 Cf. P. PIVA, «La struttura dell'etica teologica e gli attuali dissensi tra le chiese nella prospettiva di un ecumenismo della santità», in La santità terreno di unità, 103- 135.
    9 Cf. R. GIRALDO, «Universale vocazione alla santità nella Chiesa», in La santità terreno di unità, 69-86; G. CERETI, «La santità nella riflessione ecumenica», in La santità terreno di unità, 87-102.
    10 Cf. E FERRARI°, «Credo la Chiesa santa», in La santità terreno di unità, 4568.
    11 Cf. L. SARTORI, La «Lumen gentium», Messaggero, Padova 2011, 89-90.
    12 Cf C J. RATZINGER, «Die Ekklesiologie der Kostitution Lumen gentium», in S.O. HORN - V. PFNUR (a cura di), Weggemeinschaft des Glaidbens. Kirche als Communio. Festgab zum 75. Geburtstag, Ausburg 2002, 107-131 (128).
    13 Il riferimento alla santità del popolo di Dio era già presente nell'intervista concessa, all'inizio del pontificato, a p. Spadaro: «Io vedo la santità nel popolo di Dio paziente: una donna che fa crescere i figli, un uomo che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati, i preti anziani che hanno tante ferite ma che hanno il sorriso perché hanno servito il Signore, le suore che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta. Questa per me è la santità comune. La santità io la associo spesso alla pazienza: non solo la pazienza come hypomoné, il farsi carico degli avvenimenti e delle circostanze della vita, ma anche come costanza nell'andare avanti, giorno per giorno. Questa è la santità della Iglesia militante di cui parla anche sant'Ignazio. Questa è stata la santità dei miei genitori: di mio papà, di mia mamma, di mia nonna Rosa che mi ha fatto tanto bene. Nel breviario io ho il testamento di mia nonna Rosa, e lo leggo spesso: per me è come una preghiera. Lei è una santa che ha tanto sofferto, anche moralmente, ed è sempre andata avanti con coraggio» (A. SPADARO, «Intervista a papa Francesco», in La Civiltà Cattolica [2013] III, 460).
    14 Joseph Malègue (1876-1940) è uno scrittore francese noto negli anni Trenta come il «Proust cattolico», amato da Paolo VI, riscoperto oggi grazie a papa Francesco. L'espressione «le classi medie della santità, di cui tutti possiamo far parte» è presa da romanzo Agostino Méridier, il protagonista del suo romanzo più noto, è un giovane colto e onesto che già adolescente s'imbatte in due grandi vortici che minacciano d'inghiottirlo: la dissolutezza e l'ambiente impregnato di positivismo. Cf. J. MALÈGUE, Agostino Méridier, Milano-Roma, Corriere della Sera-Civiltà Cattolica 2014, 831s.
    15 vatican.va/content/francesco/it/audiences/2014/documents/papa-francesco_20141119_udienza-generale.html (accesso del 3 dicembre 2018).
    16 J.M. BERGOGLIO - FRANCESCO, La felicità si impara ogni giorno. Omelie da Santa Marta, Rizzoli, Milano 2015, 371.
    17 Ricordiamo le parole che Paolo VI pronunciò a Nazaret il 5 gennaio 1964: «Nazaret è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del vangelo. In primo luogo, essa ci insegna il silenzio. Oh! se rinascesse in noi la stima del silenzio, atmosfera ammirabile e indispensabile dello spirito. Essa ci insegna il modo di vivere in famiglia. Nazaret ci ricordi cos'è la famiglia, cos'è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro e inviolabile. Infine impariamo una lezione di lavoro...».
    18 H. URS VON BALTHASAR, Punti fermi, Rusconi, Milano 1972, 332.
    19 L'attenzione a queste due tentazioni è una costante del magistero di papa Francesco; ricordiamo, ad esempio, tre luoghi in particolare, Evangelii gaudium al n. 94, il discorso del 28 luglio 2013 ai vescovi responsabili del CELAM e il discorso tenuto dal papa il 10 novembre 2015 alla Chiesa italiana in Convegno a Firenze. Sui rischi del neo-gnosticismo e neo-pelagianesimo cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, lettera Placuit Deo ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della salvezza cristiana, 22 febbraio 2018.
    20 J. M. BERGOGLIO - FRANCESCO, La verità è un incontro. Omelie da Santa Marta, Rizzoli, Milano 2014, 248.
    21 LG 40.
    22 T BELLO, «Messaggio agli aderenti all'AC diocesana (8 dicembre 1990)», in Fino in cima. Scritti e interventi di mons. Antonio Bello all'Azione cattolica, a cura di D. AMATO, Ave, Roma 2003.
    23 C.M. MARTINI, «Cristiani coraggiosi. Laici testimoni nel mondo di oggi», in Dialogo, Milano 2016, 185.


    Gaudete et exsultate: la santità della porta accanto

    Il contenuto fresco e originale e il linguaggio concreto di papa Francesco
    Piergiuseppe Accornero

    «La situazione dei migranti non è marginale o secondaria rispetto ai temi seri della bioetica». «La persona che dorme al freddo non è un fagotto, un delinquente o un problema ma un essere umano con la mia stessa dignità».
    Fa infuriare i benpensanti la Gaudete et exsultate, «Rallegratevi ed esultate», l'esortazione apostolica di papa Francesco sulla «chiamata alla santità nel mondo contemporaneo». Mette in guardia i cristiani dai cristiani che riducono tutto a un'«organizzazione non governativa, una ONG», separando il vangelo «dalla relazione personale con il Signore», nonché dai cristiani che diffidano «dell'impegno sociale degli altri e lo considerano superficiale, mondano, secolarizzato, immanentista, comunista, populista».
    Bergoglio tappa la bocca a chi lo accusa: «La difesa dell'innocente non nato deve essere chiara, ferma e appassionata perché è in gioco la vita umana, sempre sacra. Ma sacra è la vita dei poveri che si dibattono nella miseria, nell'esclusione, nella tratta di persone, nell'eutanasia dei malati e degli anziani, nelle nuove schiavitù». Spesso si sente dire che «i migranti sono un tema marginale. Che lo dica un politico si può capire, ma non un cristiano». Questa «non è l'invenzione di un papa» perché la Bibbia afferma: «Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi: l'amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri» (Lv 19,34); perché il profeta afferma: «Ciò che è gradito a Dio consiste nel dividere il pane con l'affamato, nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti» (Is 58,7-8).
    Datato 19 marzo 2018 e reso pubblico il 9 aprile, il documento in 44 pagine, 5 capitoli, 177 paragrafi, con stile colloquiale invita alla santità, non riservata a pochi, ma una via per tutti, come affermò nel 1965 la Lumen gentium del Vaticano II.

    La chiamata alla santità (c. I, 3-34)

    I santi non sono solo quelli «beatificati o canonizzati. Vedo la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono i figli, negli uomini e donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere». Davanti ai «santi della porta accanto» non bisogna scoraggiarsi: «Tutti siamo chiamati a essere santi nelle occupazioni di ogni giorno». Fulminante l'esempio: «Una signora va al mercato, incontra una vicina e inizia a parlare, e vengono le critiche. Questa donna dice dentro di sé: "Non parlerò male di nessuno". Poi, a casa, il figlio le chiede di parlare e, anche se stanca, si siede e ascolta con pazienza e affetto».

    Due sottili nemici della santità (c. 11, 35-62)

    Francesco mette in guardia da gnosticismo e pelagianesimo, antiche eresie che ritornano, come spiega la Placuit Deo, lettera della Congregazione per la dottrina della fede del 22 febbraio 2018. «Due forme di sicurezza che danno luogo a un élitarismo narcisista e autoritario dove si analizzano e si classificano gli altri. Gli gnostici credono che le loro spiegazioni rendano comprensibili la fede e il vangelo. Ma chi vuole tutto chiaro e sicuro pretende di dominare la trascendenza di Dio. I pelagiani credono che tutto si può fare con la volontà. Ma la grazia non ci rende superuomini». Non ci si salva «mediante le proprie forze, che si traduce in autocompiacimento egocentrico ed elitario». Molte volte «la vita della Chiesa si trasforma in un museo».

    Alla luce del Maestro (c. III, 63-109)

    Le beatitudini sono la carta d'identità del cristiano.

    1) «Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli»: «Le ricchezze non assicurano nulla».
    2) «Beati i miti, perché avranno in eredità la terra»: «Anche quando si difende la fede, bisogna farlo con mitezza e gli avversari vanno trattati con mitezza».
    3) «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati»: «La persona che piange è capace di raggiungere le profondità della vita».
    4) «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati»: «La giustizia di Gesù non è quella del mondo ed è facile entrare nelle combriccole della corruzione, far parte della politica del "do ut des"».
    5) «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia»: «Sono beati non quelli che programmano vendetta ma chi perdona settanta volte sette».
    6) «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio»: «Il mondo delle dicerie, fatto da gente che critica e distrugge, non costruisce la pace».
    7) «Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli»: «Per vivere il vangelo non si può aspettare che tutto sia favorevole». Sfamare gli affamati e accogliere gli stranieri sono «una regola di comportamento sulla quale saremo giudicati» (Mt 25). «La persona che dorme alle intemperie, in una notte fredda non è un imprevisto che intralcia, un delinquente ozioso, un problema che devono risolvere i politici. Chi desidera dare gloria a Dio deve vivere le opere di misericordia».

    Alcune caratteristiche della santità nel mondo attuale (c. IV, 110-157)

    Cinque manifestazioni dell'amore per Dio e per il prossimo.
    1) Sopportazione, pazienza e mitezza: «Anche i cristiani partecipano a reti di violenza verbale in internet e anche i media cattolici eccedono in diffamazione e calunnia. Pretendendo di difendere i comandamenti si passa sopra all'ottavo: "Non dire falsa testimonianza"».
    2) Gioia e umorismo: «La santità non è uno spirito inibito, triste, acido, malinconico. Il santo vive con gioia e umorismo, senza perdere il realismo. Il malumore non è segno di santità».
    3) Audacia e fervore: «La santità è parresia, audacia, slancio, entusiasmo, parlare con libertà, fervore apostolico». 4) In comunità: «È difficile lottare contro le tentazioni del demonio se siamo isolati. La santità è un cammino comunitario».
    5) Preghiera costante: «Non c'è santità senza preghiera» e «Dio spinge verso le periferie e le frontiere. La Chiesa non ha bisogno di burocrati e funzionari, ma di missionari».

    Combattimento, vigilanza, discernimento (c. V, 158-177)

    La santità è «lotta costante contro il diavolo, il principe del male, il maligno. Non è un mito o un'idea. Tutti, specie i giovani, sono esposti a uno zapping. Senza discernimento ci trasformiamo in burattini alla mercé delle tendenze del momento». Per la santità «non si tratta di applicare ricette o di ripetere il passato». La Gaudete et exsultate: non un trattato ma una vocazione universale.

    Note e citazioni, specchio dell'esortazione apostolica

    In 44 pagine, 5 capitoli, 177 paragrafi ci sono 150 note, alcune sono osservazioni tipicamente bergogliane, molto curiose.

    Santi e beati
    Teresa Benedetta della croce (Edith Stein), Verborgenes Leben und Epiphanie; (2) [1] Giovanni della Croce, Cantico spirituale B, Prologo; Francesco di Sales, Trattato dell'amore di Dio (Opere complete, 2011); (3) Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali; Bonaventura, Itinerario della mente in Dio; Francesco d'Assisi, Lettera a frate Antonio; Bonaventura, Sui sette doni dello Spirito Santo; Bonaventura, Commento al libro IV delle sentenze; Bonaventura, Le sei ali dei serafini; Tommaso d'Aquino, (6) Summa theologiae; Agostino, La natura e la grazia; Agostino, (2) Le confessioni; Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera ai Romani; Basalio Magno, Omelia sull'umiltà; Teresa di Gesù Bambino (di Lisieux), Preghiere (Opere complete, 1997); Teresa di Gesù Bambino (di Lisieux), (2) Manoscritto C (Opere complete, 1997); Benedetto, (3) Regola; Teresa di Calcutta, Cristo en los Pobres (1981); Giovanni della Croce, (3) Cautele (Opere, 1979); Giovanni della Croce, (2) Gradi di perfezione (Opere, 1979); La misericordia divina nella mia anima. Diario di Faustina Kowalska (1996); Vita di Teresa di Gesù scritta da lei stessa (Opere, 1981); Bernardo, (2) Discorsi sul Cantico dei cantici; Charles de Foucauld, Lettera a Enrico de Castries (14 agosto 1901), in Opere spirituali (1983); José Gabriel del Rosario Brochero, Predica delle bandiere, in El Cura Brochero. Cartas y sermones (1999); Ambrogio, Hexaemeron.

    Concili ecumenici
    Vaticano II, (3) Lumen gentium (1964); Trento, (5) De iustificatione; II sinodo di Orange, canone 4.

    Sommi pontefici
    / Giovanni XXIII: Missale romanum (1962).
    / Paolo VI: Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975). Francesco osserva: «Paolo VI lega intimamente la gioia alla parresia. Così come lamenta "la mancanza di gioia e di speranza", esalta la "dolce e confortante gioia di evangelizzare" che è unita a uno "slancio interiore che nessuno, né alcuna cosa potrà spegnere", affinché il mondo non riceva il vangelo "da evangelizzatori tristi e scoraggiati"». Ricorda che «nell'Anno santo 1975 Paolo VI dedicò alla gioia l'esortazione apostolica Gaudete in Domino (9 maggio 1975)». Nella catechesi del 15 novembre 1972 Paolo VI disse: «Uno dei bisogni maggiori è la difesa da quel male, che chiamiamo il Demonio. Il male non è più soltanto una deficienza, ma un'efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa. Esce dall'insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente; ovvero chi ne fa un principio a sé stante, non avente essa pure, come ogni creatura, origine da Dio; oppure la spiega come una pseudorealtà, una personificazione concettuale e fantastica delle cause ignote dei nostri malanni».
    / Giovanni Paolo II: (3) Novo millennio ineunte (6 gennaio 2001); Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994); omelia (7 maggio 2000); (8) Catechismo della Chiesa cattolica (1992); omelia (1° ottobre 2000); (2) Vita consecrata (25 marzo 1996); (2) Centesimus annus (1° maggio 1991); Orientale lumen (2 maggio 1995);
    / Benedetto XVI: omelia (24 aprile 2005); catechesi (13 aprile 2011).
    / Francesco:
    1) Citazione di interventi  Maiorem ac dilectionem (11 luglio 2017); catechesi (19 novembre 2014); (13) Evangelii gaudium (24 novembre 2013); omelia (11 novembre 2016); (2) lettera al gran cancelliere della Pontificia Università cattolica argentina (3 marzo 2015); videomessaggio al congresso internazionale di teologia della Pontificia Università cattolica argentina (1-3 settembre 2015); omelia (13 novembre 2016); omelia (9 giugno 2014); (3) Misericordiae vultus (11 aprile 2015); (4) Amoris laetitia (19 marzo 2016); discorso al V Convegno nazionale della Chiesa italiana a Firenze (10 novembre 2015); omelia nella messa (11 ottobre 2013),
    2) Osservazioni bergogliane – A proposito di «divertimento e piaceri effimeri» scrive: «Bisogna distinguere questo svago superficiale da una sana cultura dell'ozio, che ci apre all'altro e alla realtà con uno spirito disponibile e contemplativo». Sul «mondo delle dicerie, fatto da gente che si dedica a criticare e a distruggere, gente nemica della pace» osserva: «La diffamazione e la calunnia sono come un atto terroristico: si lancia la bomba, si distrugge, e l'attentatore se ne va felice e tranquillo. Questo è molto diverso dalla nobiltà di chi si avvicina per parlare faccia a faccia, con serena sincerità, pensando al bene dell'altro». Sull'«unità superiore al conflitto» aggiunge: «In certe occasioni può essere necessario parlare delle difficoltà di qualche fratello. In questi casi può succedere che si trasmetta un'interpretazione invece di un fatto obiettivo. La passione deforma la realtà concreta del fatto, lo trasforma in interpretazione e alla fine la trasmette carica di soggettività. Così si distrugge la realtà e non si rispetta la verità dell'altro». Alla domanda «Si può intendere la santità prescindendo dal riconoscimento
    della dignità di ogni essere umano?» risponde: «Ricordiamo la reazione del buon samaritano davanti all'uomo che i briganti avevano lasciato mezzo morto sul bordo della strada». Sulle forme di violenza aggiunge: «Ci sono parecchie forme di bullismo che, pur apparendo eleganti e rispettose e addirittura molto spirituali, provocano tanta sofferenza nell'autostima degli altri». Raccomanda di recitare la preghiera attribuita a san Tommaso Moro: «Dammi, Signore, una buona digestione, e anche qualcosa da digerire. Dammi la salute del corpo, con il buon umore necessario per mantenerla. Dammi, Signore, un'anima santa che sappia far tesoro di ciò che è buono e puro, e non si spaventi davanti al peccato, ma piuttosto trovi il modo di rimettere le cose a posto. Dammi un'anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri e i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa tanto ingombrante che si chiama "io". Dammi, Signore, il senso dell'umorismo. Fammi la grazia di capire gli scherzi, perché abbia nella vita un po' di gioia e possa comunicarla agli altri. Così sia». Sulla «comunità che custodisce i piccoli particolari dell'amore» ricorda «in modo speciale le tre parole-chiave "permesso, grazie, scusa"». Osserva: «Sulla tomba di sant'Ignazio di Loyola si trova questo saggio epitaffio: "Non coerceri a maximo, contineri tamen a minimo divinum est. Non aver nulla di più grande che ti limiti, e tuttavia stare dentro ciò che è più piccolo: questo è divino"».

    Sede apostolica
    Congregazione per la dottrina della fede, lettera Placuit Deo su alcuni aspetti della salvezza cristiana (22 febbraio 2018).

    Conferenze episcopali
    Conferenza dei vescovi cattolici della Nuova Zelanda, Healing love (1988); Conferenza episcopale dell'Africa occidentale, Messaggio pastorale (2016); Conferenza canadese dei vescovi cattolici, lettera aperta ai membri del Parlamento The Common Good or Exclusion: A Choice far Canadians (1 febbraio 2001); (2) Conferenza generale dell'episcopato latinoamericano e dei Caraibi: «L'essere umano è sempre sacro, dal suo concepimento, in tutte le fasi della sua esistenza, fino alla sua morte naturale e dopo la morte» e la sua vita deve essere protetta «dal concepimento, in tutte le sue fasi, fino alla morte naturale» (Aparecida, 29 giugno 2007); Conferenza dei vescovi cattolici dell'India, Dichiarazione finale della XXI Assemblea plenaria (18 febbraio 2009);

    Vescovi, teologi, scrittori
    Joseph Malègue, Pierres noires. Les classes moyennes du Salut (1958); Hans Urs Von Balthasar, (2) Teología y santidad (1987); Francesco Saverio Nguyén Van Thuàn, Cinque pani e due pesci. Dalla sofferenza del carcere una gioiosa testimonianza di fede (2014); Xavier Zubiri, Naturaleza, historia, Dios (1993); Carlo Maria Martini, Le confessioni di Pietro (2017); León Bloy, La donna povera (1978); Lucio Gera, Sobre el misterio del pobre, in P. Grelot-L. Gera-A. Dumas, El Pobre (1962); Racconti di un pellegrino russo (1979).

    Enzo Bianchi: «Il papa aiuta il cammino ecumenico»

    Intervistato da Vatican news sull'importanza per l'ecumenismo dell'esortazione apostolica, fratel Enzo Bianchi, fondatore e priore emerito della comunità di Bose (Biella), sostiene: «Il documento può aiutare l'ecumenismo perché pone al centro la domanda essenziale per tutti i cristiani, quella sulla santità. Grande merito del documento è quello di farsi comprendere da tutti su un tema così decisivo. Il papa parla della "santità della porta accanto" per indicare quella di tanti sconosciuti, di tanti cristiani quotidiani che non sono visibili, non si impongono per grandi azioni eroiche ma quotidianamente vivono il vangelo. Non è un trattato sulla santità. Non sono parole difficili: le può comprendere un cristiano dell'Africa, un cristiano dell'Europa, un "campesinos". Tutti possono capire».
    Alla domanda «Come far diventare vita quotidiana le beatitudini, cuore dell'esortazione?» il monaco piemontese risponde: «Basta ricordare che le beatitudini non sono un dire la beatitudine, la felicità di persone eroiche. È invece la felicità di quelle persone che ogni giorno combattono per essere poveri anche nel cuore; per essere miti nei rapporti con gli altri, per essere uomini di pace nelle famiglie e nelle situazioni umane; quelli che sono perseguitati e non minacciano vendetta [...1. Il cristiano, attraverso le beatitudini, ha un cammino di conformazione a Cristo».
    E l'ecumenismo? «Sono convinto che l'ecumenismo si nutre di relazioni tra le Chiese ma, come diceva un grande ecumenista, l'ecumenismo è quel cammino che si deve fare all'interno di una ruota: dal cerchio verso il centro. Se i cristiani, dalle varie Chiese vanno verso il centro che è Cristo, si sentiranno sempre più vicini come i raggi della ruota sono percorsi che portano al centro».


    NOTE

    1 Da questo punto in poi è specificato, tra parentesi, quante volte vengono riportate le corrispondenti citazioni all'interno dell'esortazione. Dove non è specificato si tratta di un riferimento unico.

    Sempre pronti!
    A me, però, chi mi aiuta?
    Giacomo Ruggeri *

    Questo è l'interrogativo che ogni laico impegnato nella comunità parrocchiale si pone di frequente: «Sempre pronti ad aiutare il don in tante richieste, però a me, chi mi aiuta quando ho bisogno? Chi mi accompagna nelle scelte feriali e speciali della mia vita di laico come papà, mamma, nonno/a, genitore, catechista, insegnante, ecc. Quando ho bisogno di un consiglio a chi mi rivolgo?». Con questa nuova rubrica «Vita quotidiana... da laici!» cerco di offrire alcuni criteri pratico pastorali-spirituali dedicati ai laici impegnati nella comunità cristiana e a tutti quei laici che, a vario titolo, avvertono il desiderio di donarsi quotidianamente per il bene di ogni persona e di ogni realtà. Affronterò tematiche che sono occasione di riflessione e preoccupazione per un laico (e accolgo ben volentieri proposte e suggerimenti di temi scrivendomi a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.). Temi e argomenti legati alla vita feriale, quella di tutti i giorni, che sovente sono oggetto di discussione in casa, parrocchia, famiglia, scuola o forse non lo sono più.
    Le vie di approccio a tali tematiche sono molteplici: dal versante dei genitori a quello dei figli, dalla prospettiva dei nonni a quella della famiglia, dall'ottica dell'educatore a quella dell'insegnante, dal vissuto del catechista a quello dell'educatore di AC, scout e associazionismo vario, assieme a gruppi ecclesiali e movimenti laicali. Queste, ed altre vie, saranno la prospettiva di orientamento di questa rubrica, con l'intento di accompagnare il laico nel suo vivere quotidiano, offrendo criteri di discernimento, punti di riflessione inesplorati o poco trattati, possibili piste di argomentazione sempre dal versante del laico.
    Sono ben consapevole che ogni parrocchia (e realtà ecclesiale), dalla piccola alla grande, in città e in montagna, in periferia e in zona urbana riesce a portare avanti la vita quotidiana grazie alla preziosa presenza costante e concreta di tantissimi laici. Sono diverse le figure che si rivolgono ai laici per chiedere (e tanto): vescovo, parroco, cappellano, rettore santuario, direttore casa di spiritualità. Si chiede un servizio, un aiuto, una mano, un sostegno pratico. Ma quando è il laico ad avere bisogno di aiuto, di un sostegno, di un consiglio importante, di un accompagnamento in un percorso di vita a chi si rivolge? A chi chiede aiuto? Certo: «il don» è sempre un riferimento al quale rivolgersi e, per quanto riesce ad aiutare e a consigliare, rimane una figura importante. Ma tutto non può, e non deve.
    Con questa rubrica si cerca di avviare una via di bene reciproco e trafficato tra le diverse figure laicali, sposate, sacerdotali, religiose, consacrate e altre forme di vita. Dove ognuno non basta a se stesso e ognuno ha bisogno di tutti.
    Nel contempo, tale rubrica cerca di offrire al laico nuove forme di servizio rispondenti al tempo attuale nella comunità cristiana, alle mutate condizioni sociali di vita, in uno scenario internazionale sempre più globalizzato e sempre più imploro su stesso. Essere laici oggi è completamente diverso rispetto a dieci anni fa perché le condizioni sociali di vita hanno subito un radicale cambiamento. La Chiesa, e la parrocchia con essa, sono dentro il mondo e pertanto risentono a tutto tondo di ogni cambiamento e trasformazione. È un viaggio quello che affrontiamo, con la consapevolezza laicale di saper cercare e trovare Dio in ogni cosa, persona, situazione, evento, circostanza.

    * Diocesi di Pordenone, guida di esercizi spirituali, formazione permanente del clero, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

    PS. Ringraziamo mons. Domenico Sigalini (direttore responsabile di OP), gli Autori citati e gli Amici dell'Editrice EDB per la gentile concessione dell'utilizzo del dossier stesso. Esso amplifica il tema della santità quotidiana, nucleo della proposta pastorale del MGS per l'anno 2019-2020.


    T e r z a
    p a g i n A


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