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    Dio ha fatto in me grandi cose. Maria, Madre di Dio e vergine (cap. 5 di: Nato da donna. Maria, la Madre di Gesù)


    José Miguel Nuñez, NATO DA DONNA. Maria, la Madre di Gesù, Elledici 1998



    La comunità cristiana ha sempre guardato a Maria come a un grande tesoro sul quale vegliare. Sebbene i primi passi della riflessione teologica della Chiesa ruotassero - e non poteva essere diversamente - intorno al mistero pasquale e da lì intorno al mistero di Cristo, la figura della madre è sempre stata presente nella fede dei credenti che l'hanno apprezzata, amata e celebrata come la madre del Signore.
    Certamente non si può parlare di una vera e propria «mariologia» nel lavoro teologico dei padri della Chiesa dei primi secoli, ma sicuramente troviamo nei loro scritti tracce di una teologia mariana in formazione, la cui nota più caratteristica è il suo rapporto con Cristo e con l'opera di salvezza di Dio. Riflettere sul Figlio implicava approfondire la madre; investigare il mistero di salvezza di Cristo induceva i cristiani a interrogarsi sul ruolo privilegiato di Maria di Nazaret nel progetto di Dio.
    È stato così che la Chiesa ha percorso un lungo cammino articolando in modo sempre più chiaro il suo pensiero su Maria. Chi è questa donna? Che ruolo occupa nella storia della salvezza? Che cosa implica per i credenti nell'oggi della Chiesa? Molti interrogativi hanno trovato una risposta nell'approfondimento dei dati della Scrittura e nel sentire dei fedeli che, incoraggiati dallo Spirito nel corso dei secoli, hanno via via alimentato una robusta tradizione intorno alla madre di Gesù.

    MARIA, THEOTÒKOS

    Già nei primi due secoli della storia della Chiesa furono poste le basi per lo sviluppo della dottrina mariana che si cristallizzerà poi nei grandi concili ecumenici. Ma mentre si svelava il mistero della madre di Gesù, la Chiesa dovette far fronte a false interpretazioni della Scrittura che fecero nascere numerose eresie. Allontanarsi dal giudaismo e combattere la gnosi furono le preoccupazioni maggiori di quei primi «teologi» che furono i padri della Chiesa. Momenti difficili in cui la comunità cristiana avvertì l'urgenza di delineare il contenuto della fede, segnando bene le differenze con coloro che, stando nell'errore, invocavano il nome di Cristo. Ma i movimenti eretici - oltre a essere dolorosi - contribuirono notevolmente a chiarire il pensiero teologico su Maria.
    È difficile - e non lo possiamo pretendere - tracciare una storia del dogma in poche pagine. Tuttavia vogliamo abbozzare gli elementi fondamentali che la comunità credente è andata accumulando nel corso dei secoli sulla figura di Maria nel «deposito della fede». Una delle principali questioni che ha preoccupato i nostri padri in questi primi tempi della storia della Chiesa fu, senza dubbio, la maternità divina di Maria, una riflessione che avanza parallelamente allo sviluppo del pensiero cristologico nelle varie comunità.

    Gesù, uomo o Dio?

    Sembra abbastanza logico che nello sviluppo del pensiero cristiano la preoccupazione della Chiesa si concentri, all'inizio, sulla persona di Cristo, soprattutto perché in lui si «giocavano» la sua identità come comunità di fede e la stessa salvezza di Dio nella storia degli uomini.
    Si trattava, dapprima, di chiarire chi fosse questo Gesù morto e risorto, Signore della storia, Messia e Salvatore. Era uomo o era Dio? O le due cose insieme? E se era così... come si doveva intendere tale affermazione? Non è stato facile rispondere a tutte queste domande. I padri della Chiesa cercarono di chiarire il mistero di Cristo articolando la dottrina ecclesiale con i termini filosofici che la cultura del loro tempo offriva. Sostanza, persona, natura, essenza... sono solo alcuni dei concetti provenienti dai grandi sistemi classici, platonico e aristotelico, che entrarono a far parte - con più o meno giustezza - del patrimonio cristiano in questi primi secoli in cui si forgiò il dogma cristologico.

    Cristo è consostanziale al Padre

    L'eresia di Ario, un presbitero della chiesa di Alessandria, fu l'occasione più propizia perché l'imperatore Costantino - che aveva promulgato lo storico editto di Milano del 313 con cui si proclamava la libertà dei cristiani - convocasse il Concilio di Nicea nell'anno 325. Ario affermava che il Figlio non coesisteva col Padre da sempre e che era stato creato dal nulla; pertanto la natura del Figlio non derivava da quella del Padre perché il Verbo era una creatura ed era Dio solo in senso «figurato». I padri riuniti a Nicea riconobbero il Figlio omoousios (della stessa sostanza), generato, non creato, Dio vero da Dio vero, e condannarono l'eresia di Ario (cf D 125).
    Non si poteva dire molto di più sulla dottrina di Nicea; tuttavia l'eresia apollinarista (da Apollinare di Laodicea) sottolineò tanto l'importanza della divinità di Gesù Cristo che corse il rischio di sminuire in essa la sua umanità. Sarà il concilio di Costantinopoli I (381) che cercherà di affermare la completa umanità di Gesù Cristo di fronte agli errori apollinaristi (cf D 150).
    Sicuramente il concilio di Nicea non si riferì esplicitamente alla madre di Gesù, ma l'affermazione della divinità di Cristo rese possibile più tardi anche la riflessione sulla maternità divina di Maria: Maria è solo madre di Cristo in quanto uomo? Lo è in quanto Dio? Che senso ha la maternità di Maria?

    La «comunicazione degli idiomi»

    La fede ecclesiale, riaffermata nei concili di Nicea e di Costantinopoli, proclama con chiarezza le due nature di Cristo, vero Dio e vero uomo, ma senza riuscire a chiarire come queste due nature siano unite nella persona del Verbo incarnato. Verso la fine del IV secolo, il pensiero teologico si concentrò su tale questione cristologica che trovò una formulazione magistrale definitiva nei concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451). Sulla stessa questione si basa il problema della «communicatio idiomatum», vale a dire lo scambio di attributi tra le due nature di Cristo, il che significa che l'unione delle due nature è tale che ciò che si può dire della natura umana di Cristo lo si può dire anche di quella divina e viceversa.
    Nestorio, vescovo di Costantinopoli, si fece portavoce - intorno all'anno 430 - di un movimento eretico che prese il suo nome: i nestoriani. Il punto fondamentale del nestorianesimo fu considerare Cristo come un composto, un'unione accidentale di due nature o persone: da una parte, il soggetto umano; dall'altra, quello divino. Cristo deriva dall'unione di entrambi.
    Il concilio di Efeso prese posizione sulla questione, condannando Nestorio e affermando la completa unità delle nature nel Verbo incarnato: nell'unica persona del Verbo incarnato sussistono in modo chiaro e integro le caratteristiche dell'umanità e della divinità (cf D 250).
    Parallela a questa riflessione cristologica - un po' complessa, d'altra parte - si pone la convenienza o meno di applicare a Maria il termine theotókos (madre di Dio). Secondo Nestorio, sarebbe errato dire che Maria è la Madre di Dio. Maria è, in ogni caso, madre del Cristo in cui Dio ha abitato. Ma nel suo rifiuto del nestorianesimo, il concilio di Efeso proclamò senza riserve la maternità divina di Maria: Maria è madre del Verbo incarnato.

    La maternità divina

    La maternità divina di Maria non si riferisce, chiaramente, a una impossibile natura divina della madre di Gesù, ma alla natura divina del figlio generato. In una delle più antiche preghiere rivolte a Maria i cristiani recitavano: «Sotto la tua protezione ci rifugiamo, o Madre di Dio». Certo, questa non poteva essere solo la pia espressione di un cristiano; sarà piuttosto l'espressione di fede del popolo di Dio che invoca Maria come «Madre di Dio». E la maternità divina di Maria, basata sulla Bibbia, appartiene al deposito della fede della Chiesa sin dall'antichità. È vero che in nessun punto della Scrittura si usa l'espressione letterale «madre di Dio», ma in molti dei testi che abbiamo citato nei capitoli precedenti abbiamo trovato l'origine del sentire della Chiesa a questo proposito, che sarà esplicitato solo nei secoli successivi.
    Storicamente il titolo «Madre di Dio» raggiunge la sua formulazione dogmatica nel concilio di Efeso dell'anno 431. Chiarite le questioni cristologiche sull'unione ipostatica dell'umanità e della divinità nell'unica persona di Cristo, Verbo incarnato, il cammino era libero per esprimere con chiarezza che Maria è «Madre di Dio».
    Il termine utilizzato nel concilio è Theotókos e non Christotókos come pretendevano i seguaci di Nestorio e la scuola di Antiochia. Maria è madre del Verbo incarnato, completamente uomo e completamente Dio. L'umanità e la divinità in lui sono due dimensioni inseparabili, perché entrambe formano un'unica realtà personale che chiamiamo Gesù Cristo, Parola del Padre.

    Maria, madre nostra

    La certezza che Maria è madre di Dio appartiene alla coscienza ecclesiale fin dalle origini. Ma che senso ha per noi questo dato della tradizione? In primo luogo ci rendiamo conto che, per una mentalità come la nostra, l'evento della maternità divina supera di molto i limiti del «prevedibile» e del «facilmente assimilabile dalla ragione». Siamo di fronte a un avvenimento «inaspettato», sorprendente, che merita credibilità solo nell'ambito della rivelazione e nell'ambito della fede, nell'affidabilità della persona di Gesù Cristo e nell'incessante e unanime tradizione ecclesiale. Senza dubbio Dio ci sorprende decidendo di diventare uno di noi e di accompagnarci nel nostro cammino nella storia per farci conoscere il suo progetto di felicità, che «volle realizzare nella pienezza dei tempi» (Ef 1,10).
    Nel mistero dell'incarnazione, la maternità divina ci svela il desiderio di Dio di portare avanti il suo piano liberatore contando sull'uomo e sulla sua libertà. Avrebbe potuto scegliere un'altra strada, certo, ma Dio ha voluto contare sul sì di Maria per rinnovare definitivamente la sua promessa di fedeltà agli uomini. Nel suo sì si racchiude tutta la capacità dell'uomo di aderire al Dio che gli viene incontro e gli propone nuovi cammini di libertà.
    Se abbiamo capito bene il dato del dogma, capiremo senza grandi difficoltà che la maternità divina in Maria ha un peso enorme per i credenti. L'evento non si esaurisce nel fatto personale di essere Maria la Madre di Gesù, ma trascende i limiti individuali e fa svolgere a Maria un ruolo particolare nella storia della salvezza. Così la maternità fisica si estende alla maternità spirituale per tutti gli uomini che la invocano come «madre nostra».
    Il racconto di Cana (Gv 2,1-12), in cui Maria appare come la sposa delle nozze messianiche, e l'episodio ai piedi della croce (Gv 19,25-27), in cui Maria' viene affidata come madre al discepolo amato, hanno sottolineato che nel suo rapporto unico con Cristo, Maria diventa la madre dei discepoli del Figlio. In questo senso si è espresso in molte occasioni il Concilio Vaticano II: «[Maria] è congiunta nella stirpe di Adamo con tutti gli uomini bisognosi di salvezza: anzi è 'veramente madre delle membra [di Cristo]... perché cooperò con la carità alla nascita dei fedeli nella Chiesa, i quali di quel capo sono le membra'. Per questo è anche riconosciuta quale sovreminente e del tutto singolare membro della Chiesa, e sua figura ed eccellentissimo modello nella fede e nella carità, e la Chiesa cattolica, edotta dallo Spirito Santo, con affetto di pietà la venera come Madre amatissima» (LG 53).

    MARIA, LA VERGINE MADRE

    Per la comunità credente, il concepimento di Gesù nel seno di Maria per azione dello Spirito Santo è sempre stato un dato indiscutibile del patrimonio della fede. Ma non vi è dubbio che, allo stesso tempo, abbia sempre suscitato perplessità e reazioni contrarie in coloro che non vogliono accettare tale realtà. È quanto meno curiosa, per esempio, l'interpretazione data in merito da un eretico, Celso, contemporaneo di Origene (1 254). Celso rinfaccia a Gesù l'essersi presentato falsamente come figlio di una vergine; mentre la verità sarebbe un'altra: Maria, secondo Celso, sarebbe stata sorpresa in adulterio e - pertanto - allontanata da Giuseppe; più tardi, avrebbe dato alla luce un bambino figlio di un soldato di nome «Pantera». Non mancano dunque, sin dalle origini, controversie sul tema. Ancora oggi le difficoltà per accettare un simile fatto sono numerose e le domande poste dalla mentalità contemporanea non facilitano la sua comprensione.
    Indipendentemente dalle riserve culturali sul tema, ciò che è certo è che, sin dalle origini, per i cristiani la maternità divina di Maria appare indissolubilmente legata alla sua verginità. Non vogliamo entrare nelle varie e polemiche interpretazioni attuali del tema, ma ci domandiamo: che significa nella tradizione l'espressione «la sempre vergine»? Come va interpretata? Quali conseguenze ha questa affermazione per la fede dei credenti oggi?

    La testimonianza della verginità di Maria nella Scrittura e nella Tradizione

    Vale la pena ricordare, anche in questa occasione, che il nostro approccio alla Scrittura non può essere fatto da prospettive esclusivamente storiche e razionali. Sappiamo bene che i libri della Scrittura non sono stati scritti come «documenti scientifici» nel senso con cui oggi intendiamo questa espressione. Sono unicamente il fedele riflesso di un'esperienza di fede vissuta nel seno di un popolo o di una comunità cristiana trasmessa come testimonianza e proposta per altre comunità e altre generazioni. Da questo punto di vista i testi del Nuovo Testamento sono scritti come espressione del «credere» delle prime comunità cristiane, in modo tale che il nostro approccio verso Gesù è possibile soltanto attraverso l'esperienza di fede di quegli uomini e donne della prima ora, testimoni privilegiati dell'evento di Cristo.
    Così il dato della verginità di Maria nelle tradizioni neotestamentarie non si appoggia su un argomento razionale né pretende di essere scientificamente dimostrabile, ma è piuttosto espressione della fede della Chiesa, ancora in germe, che a sua volta ha bisogno di essere esplicitata dalla tradizione posteriore.

    «Avverrà che una giovane incinta darà alla luce un figlio...»

    Tradizionalmente il concepimento verginale di Gesù è stato letto alla luce delle profezie dell'Antico Testamento. In particolare nel libro di Isaia leggiamo: «Ebbene, il Signore vi darà lui stesso un segno: avverrà che una giovane incinta darà alla luce un figlio e lo chiamerà Emmanuele» (Is 7,14). Il testo va collocato nel contesto storico a cui si riferisce. Dio promette un segno al re Acaz: la nascita di un figlio, Ezechia, che assicurerà la continuità della dinastia di Davide. Ma l'oracolo di Isaia, che attribuisce il nome di «Emmanuele», Dio con noi, a colui che nascerà, è stato letto spesso al di là della successione dinastica, in chiave di intervento divino nell'arrivo del Regno messianico.
    Certo è che questo testo è stato interpretato nella tradizione cristiana come l'annuncio della nascita di Cristo. Anzi, la traduzione greca del testo adopera il termine «vergine» invece di «fanciulla» o «ragazza». Allo stesso modo l'evangelista Marco riconosce qui, e così lo interpreta nella sua catechesi, il concepimento verginale di Gesù (Mt 1,23).
    Oggi si tende, anche per quanto riguarda il concepimento verginale, a sfumare molto di più il rapporto tra Antico e Nuovo Testamento. Malgrado sia vero che possiamo parlare di continuità fra le due tradizioni, è anche necessario segnalare, allo stesso tempo, l'enorme discontinuità tra le stesse quando si scopre la vera novità di Gesù Cristo, avvenimento che trascende, di molto, tutte le aspettative di Israele.
    Risulta pertanto insufficiente il legame tra il testo di Isaia e la tradizione cristiana del concepimento verginale. Anche se non possiamo negare che, come scrisse un noto mariologo spagnolo - X. Pikaza -, anche quando «l'Antico Testamento non è in grado di spiegare quanto accade nella nascita di Gesù, ci pone già sulla strada per comprenderla».

    Qualcosa di più di un genere letterario

    Come capire, quindi, il concepimento verginale nei testi di Lc 1,26-38 e Mt 1,18-25? Di sicuro non possiamo assolutamente affermare che si tratta di un genere letterario. Forse la storicità del concepimento verginale non è una questione che può essere risolta dalla mera esegesi dei testi. Ciò che è certo è che la tradizione ecclesiale ha compreso e creduto sempre nel concepimento verginale come un fatto storico che dà senso e fondamento alla stessa filiazione divina di Gesù Cristo,
    Figlio del Padre, testimoniata nei racconti evangelici di origine apostolica.
    Si può parlare, inoltre, di simbolo non come «invenzione» o «racconto mitico», ma come realtà profonda attraverso la quale si esprime qualcosa che non può essere espressa diversamente. Da questo punto di vista si può parlare del concepimento verginale come «simbolo», simbolo che non annulla, d'altro canto, la dimensione storica dell'avvenimento. Simbolo di cosa? Simbolo della nuova creazione, dell'uomo nuovo - secondo Adamo, Cristo - generato dallo Spirito; espressione della profonda relazione dell'uomo con Dio, della sua vocazione di essere profondamente uomo, «molto simile» a Dio. In questo contesto interpretativo, Maria, la madre di Gesù, è la vera Eva che nel suo slancio libero e gratuito accoglie la Parola e la rende feconda nella storia per azione dello Spirito.
    Il dato tradizionale, abbozzato nella Scrittura, della verginità di Maria è prima di tutto una verità cristologica. Sicuramente. La chiave di lettura - se vogliamo comprenderla bene - non può essere solamente il «privilegio» di Maria di essere vergine, ma soprattutto - prima di tutto - Cristo uomo nuovo, Figlio del Padre, che concepito nel seno di Maria con la forza dello Spirito costituisce l'inizio della nuova creazione.

    Il simbolo di fede

    Da sempre la comunità credente ha creduto e celebrato Maria come vergine e madre. Uno dei più antichi inni alla Madre di Dio che conosciamo esprime questa verità con singolare bellezza:
    «Ave, Vergine scelta da Dio!
    Ave, o Santa!
    Ave, Amabile e Bella!
    Ave, Piena di Grazia!
    Ave, Pura!
    Ave, Incontaminata!
    Ave, Vergine e Sposa! ».
    La verginità di Maria appartiene - senz'altro - al patrimonio della tradizione cristiana e come tale appare nei simboli che nei primi secoli della Chiesa testimoniavano la fede dei credenti. La prima volta che troviamo l'espressione «sempre vergine» riferita a Maria in un simbolo di fede è nel secolo IV, nel cosiddetto «Simbolo di sant'Epifanio di Salamina», che sarà poi ripreso dai concili successivi, a Costantinopoli (381) e soprattutto a Calcedonia (451), che col suo carattere ecumenico lo accetterà come espressione di fede della Chiesa universale: «(...) per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, si incarnò nella Vergine Maria e si è fatto uomo» (D 150).
    Nel nostro secolo Paolo VI, nel cosiddetto «Credo del Popolo di Dio», ha riespresso il simbolo niceno-costantinopolitano introducendo in esso, inoltre, altre tradizioni successive. Su Maria il testo dice: «Crediamo che la Beata Maria, che rimase sempre Vergine, fu la Madre del Verbo incarnato, Dio e Salvatore nostro, Gesù Cristo...».

    Il significato teologico del «concepimento verginale»

    La convergenza dei dati della Scrittura, l'unanimità della tradizione e la chiave interpretativa offerta ci potranno ora aiutare a comprendere meglio che il concepimento verginale di Gesù non è affatto un genere letterario e che - al contrario - si tratta di un indiscutibile patrimonio di fede con abbondanti significati simbolici di grande forza teologica.

    Gesù, Figlio del Padre

    Riflettendo sul concepimento verginale forse ti sarai domandato: che senso ha per Gesù? Che cosa presuppone per la sua storia, per la sua vita? Rispondere a queste domande ci può aiutare a capire meglio il significato teologico della tradizione.
    I testi evangelici su cui ci siamo basati puntano in una direzione che ci sembra significativa: lo stretto legame tra il concepimento verginale di Gesù e la sua filiazione divina. Il testo di Luca (1,35) e il prologo di Giovanni (1,13-14), infatti, si basano sul senso cristologico del concepimento per opera dello Spirito nel seno di Maria, e accentuano il valore del «segno».
    Vediamo. Nella tradizione raccolta da Luca, è Dio stesso che interviene nella maternità di Maria: sarà il potere dell'Altissimo ad agire in modo sorprendente nella giovane di Nazaret, tanto che colui che nascerà da lei si chiamerà Figlio di Dio. L'evangelista sembra guardare con attenzione allo stretto rapporto tra l'annuncio del concepimento e la nascita di colui che sarà chiamato «Figlio di Dio». Sarà proprio questo segno quello che i cristiani interpreteranno più tardi per capire, grazie a esso, che il padre di Gesù non era un uomo ma lo stesso Dio. Il concepimento verginale sarà, prima di tutto, un segno dell'origine divina del figlio di Maria.
    Se prestiamo attenzione anche al prologo di Giovanni, l'elaborata teologia dell'evangelista consente, secondo l'accorta esegesi attuale, alcune interessanti interpretazioni. I versetti 13-14, così discussi nella storia della teologia, sono stati recentemente tradotti da un eminente biblista, I. de La Potterie, in questo modo: «Il quale (il Verbo) non nacque dal sangue né dalla volontà di carne né dalla volontà di uomo, ma fu generato da Dio. Sì, il Verbo divenne carne e abitò fra di noi; e abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come dell'unigenito che viene dal Padre, pieno della grazia della verità» (Gv 1,1314). L'interpretazione dello studioso è conseguente alla sua traduzione; se Gesù nacque «non dal sangue», vale a dire, senza l'intervento dell'uomo, allora può essere chiamato a ragione «Figlio di Dio», perché è stato «generato da Dio» ed è l'«unigenito che viene dal Padre».
    Questa interpretazione, coerente nella sua struttura e fedele al testo, ci mostra che il concepimento verginale sarà allora - sulla stessa linea di interpretazione del testo di Luca -, un «segno» del quale danno testimonianza coloro che hanno accolto Gesù e hanno creduto in lui. In questo segno gli uomini possono giungere a scoprire il mistero della sua filiazione divina.
    La testimonianza della Scrittura, raccolta dalla tradizione ecclesiale, è eloquente: esiste uno stretto rapporto tra il segno, il concepimento verginale, e il suo significato, la filiazione divina di colui che nascerà. Nelle parole di Ratzinger: «Nascere senza alcun intervento di un padre terreno è l'origine intrinsecamente necessaria di colui che poteva dire a Dio: "Padre mio", di colui che, persino in quanto uomo, era radicalmente figlio, il Figlio di questo Padre».

    Maria vergine: segno dell'alleanza di Dio col suo popolo

    Maria vergine, la Figlia di Sion, donna e madre, rappresenta allo stesso tempo l'alleanza definitiva di Dio, che prende sempre l'iniziativa, con l'uomo. Non è difficile vedere nell'episodio dell'annunciazione una struttura teologica simile a quella dei racconti detti «dell'alleanza» nell'Antico Testamento. Qualche mariologo contemporaneo non ha trovato difficoltà a stabilire paralleli tra il testo di Lc 1,26-28 e Es 19,3-8; in effetti le coincidenze sono impressionanti. In entrambi i testi è Dio che deve comunicare qualcosa e lo fa attraverso un mediatore, Mosè nel caso dell'alleanza sul Sinai, e l'angelo nel caso dell'annunciazione a Maria; il messaggio, in entrambi i casi, si inquadra nella storia della salvezza ed è portatore di un progetto liberatore nel quale Dio impegna la sua parola; i destinatari del messaggio sono, rispettivamente, il popolo di Israele e Maria, Figlia di Sion, il resto fedele; il patto è siglato con la risposta di entrambi i contraenti: «Noi ubbidiremo agli ordini del Signore» (Es 19,8); «Dio faccia con me come tu hai detto» (Le 1,38). Notevoli somiglianze che ci suggeriscono l'idea di questa alleanza di Dio col suo popolo simboleggiato da Maria, alleanza definitiva in Gesù Cristo, Verbo di Dio incarnato nel seno vergine della giovane di Nazaret per azione dello Spirito.
    La stessa struttura dell'alleanza ci ricorda il rapporto sponsale tra Dio e il popolo di Israele espresso nel linguaggio profetico (Os 2,21-22), tra lo Sposo e la Figlia di Sion simboleggiata ora da una donna, la madre di Gesù. In lei si rinnova l'antico patto con cui Dio, con la sua Parola, apre un futuro nuovo nella storia degli uomini. Nel segno della verginità troviamo la massima espressione, al momento dell'incarnazione, del compimento dell'alleanza definitiva. La Parola che era al principio nacque da Dio e si fece carne; e pose la sua dimora tra noi. E se anticamente la legge ci fu data per mezzo di Mosè, ora - in modo pieno - nel segno della maternità verginale la grazia e la verità ci sono arrivate per mezzo di Gesù Cristo (cf Gv 1,14-18).
    Così lo ha interpretato, in modo unanime, la tradizione ecclesiale. Così crede oggi il popolo dell'alleanza che venera Maria vergine, donna e madre, in cui Dio ha fatto - in Gesù Cristo - grandi cose.


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