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    Verso una nuova evangelizzazione

    Davide D’Alessio

     

    La riflessione che propongo si svolge in due momenti. Nel primo si tratta di delineare il "sentire" comune, il contesto in cui viviamo; nella seconda cercherò di indicare la strada di un annuncio del vangelo oggi.

     

    IL PELLEGRINO, IL TURISTA E IL VAGABONDO

     

    Se volessimo dare un titolo a questo primo momento della riflessione potremmo intitolarlo così: il pellegrino, il turista e il vagabondo. Credo infatti che queste categorie ci possano aiutare a descrivere il nostro mondo attuale. Forse all'inizio tutto questo sembrerà un po' strano, ma lentamente il discorso apparirà chiaro.

    Iniziamo dunque dalla figura del pellegrino. Chi è il pellegrino? Raccogliamo la risposta dalle stesse parole di un pellegrino:

    Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni grande peccatore, per vocazione un pellegrino della specie più misera, errante di luogo in luogo. I miei beni terrestri sono una bisaccia sul dorso con un po' di pan secco e, nella tasca interna del camiciotto la Sacra Bibbia. Null'altro. Ventiquattro settimane dopo la festa della Santissima Trinità entrai in una chiesa, durante la liturgia, per pregare. Stavano leggendo, dalla prima lettera dell'apostolo Paolo ai Tessalonicesi, il passo in cui è detto: "Pregate senza intermissione". Queste parole si incisero profondamente nel mio spirito, e cominciai a chiedermi come fosse possibile pregare senza posa quando ciascuno è necessariamente impegnato a lavorare per il proprio sostentamento. Cercai nella mia Bibbia lessi con i miei occhi quello che avevo udito: "Pregate senza intermissione, pregate per mezzo dello Spirito in ogni tempo"; "gli uomini preghino levando mani pure, senza collera". Pensavo, pensavo, ma non trovavo alcuna soluzione. "Che fare?", mi domandavo. "Dove trovare qualcuno che mi chiarisca il senso di queste parole? Andrò nelle chiese dove si trovano predicatori di grande fama; chissà che da loro non mi giungano parole illuminanti". E così feci.

    Così iniziano i Racconti di un pellegrino russo. (1) Il pellegrino si presenta come "uomo e cristiano", "gran peccatore", continuamente in cammino da paese a paese. Il pellegrino è quindi un uomo incamminato verso una meta: questa determina anche la "direzione" o meglio il "senso" di tutta la sua esistenza, poiché è il cammino a dare "senso" cioè "significato" alla sua vita. Nel Medioevo (2), il tempo in cui si è affermata la passione per i grandi pellegrinaggi, la meta era spesso individuata in un luogo santo: il santo sepolcro a Gerusalemme, la tomba di Pietro a Roma, il santuario di S. Giacomo a Santiago di Compostela... Nella preghiera e nella meditazione del pellegrino questi luoghi raffiguravano l'incontro con Dio: arrivare alla meta significava incontrare Dio. Tant'è che i concittadini, al loro ritorno, li ricoprivano di ammirazione ritenendoli beneficiari di una grazia speciale. L'idea di intraprendere un pellegrinaggio poteva nascere dal desiderio di conversione oppure dal pentimento dei propri peccati. Il viaggio era una scommessa, quella della vita e quella della fede. Si era certi di dover affrontare le avversità naturali, la propria stanchezza e anche le insidie dei briganti... non si era altrettanto sicuri di tornare. Per questo molti pellegrini, prima di partire, preparavano il testamento: il viaggio poteva durare molto tempo e il ritorno non era sicuro. In ogni caso era consuetudine porre sotto la protezione della Chiesa i beni e le proprietà di chi partiva. Partendo, il pellegrino sapeva poco di quello che lo aspettava: non conosceva bene i territori, le popolazioni, il clima, le risorse che avrebbe incontrato. Aveva le poche notizie raccolte da quelli che avevano avuto la fortuna di ritornare: dove si trovavano luoghi ospitali; se c'erano confraternite dedite all'assistenza dei pellegrini, chiese e santuari pronti all'ospitalità o luoghi fortificati dove trovare riparo dalle scorrerie dei predoni; dov'erano i valichi di montagna o i guadi nei fiumi... Il pellegrino viaggiava solo, poteva però incontrare qualcuno come lui, in cammino, e insieme si sarebbero aiutati lungo il viaggio. Lungo il cammino il pellegrino conduceva una vita sobria: troppe cose gli avrebbero impedito di muoversi speditamente, per cui portava con sé solo l'essenziale, un po' di pane e pochi indumenti. Tra questi, un mantello di tessuto ruvido, il cappello, la bisaccia, il bastone: vestiti sobri che avevano anche un significato simbolico poiché venivano solennemente benedetti all'inizio del cammino attraverso un vero e proprio rito di vestizione. A questi oggetti potevano aggiungersi anche alcuni segni distintivi del pellegrinaggio che si intendeva percorrere: le chiavi se si era diretti a Roma, da Pietro; la conchiglia se diretti a Santiago, da S. Giacomo; l'immagine della Veronica che asciuga il volto di Gesù se diretti a Gerusalemme... Soprattutto, a questi oggetti si aggiungeva la Bibbia: la meditazione della Parola di Dio permetteva al pellegrino di percorrere un viaggio interiore nello stesso momento in cui percorreva quello fisico. Per questo, al termine del pellegrinaggio, il pellegrino sarà diverso, sarà cambiato, il viaggio lo avrà trasformato o, meglio, letteralmente "convertito": fisicamente e spiritualmente... Nella stagione caratterizzata dal pellegrinaggio essere pellegrini non era un lavoro, una professione e neppure un diversivo a tempo determinato o indeterminato: essere pellegrini era una vocazione che custodiva e svelava la qualità della vita umana, rivelava cioè che la vita stessa è un pellegrinaggio (1 Pt 1,17) nel quale ognuno di noi è incamminato all'incontro con Dio, verso la patria nei cieli (Fil 3,20).

    Oggi tutto questo non è possibile. Più precisamente sembra impossibile comprendere la vita come un pellegrinaggio. Il pellegrinaggio implica una meta stabile, una direzione di viaggio precisa, ma anche un punto di partenza chiaro. Oggi, invece, i luoghi sacri - quelle esperienze per le quali saremmo disposti a dare la vita - sembrano moltiplicarsi e sconfessarsi in continuazione. È difficile affrontare la vita come un pellegrinaggio quando i luoghi sacri non riescono più a godere di indiscusso apprezzamento e nessun punto di riferimento sembra riuscire a proporsi come certezza da cui muovere i primi passi o verso cui incamminarsi. Fuor di metafora: 

    Come prepararsi a una professione "per tutta la vita", a una professione come vocazione esistenziale, se le qualificazioni faticosamente acquisite giorno per giorno si trasformano da attive in passive, da atout in oneri, e se le professioni. gli impegni, i posti di lavoro svaporano senza traccia, mentre la capacità di oggi è destinata domani alle forche caudine del pregiudizio? E, in genere, come contrassegnare e delimitare il proprio posto nel mondo se i diritti acquisiti ai doveri altrui sono tutti disdetti, se la clausola di sfratto unilaterale è compresa in tutti i contratti di partecipazione L. .1 infine, se ogni amore è diventato un amore "convergente", nel senso che gli obblighi reciproci che potrebbero derivarne durano solo per il tempo che fa comodo a entrambi i partners? [...1 La vita è dura nel nostro mondo per chi si ostina a vivere la propria vita come un pellegrinaggio. Esisteranno sempre persone che, a dispetto di tutto, stringono i denti, prendono una decisione difficile e vi si attengono; ma in linea generale è poco probabile che la gente scelga in massa il pellegrinaggio come modello di vita. (3)

    La rappresentazione della vita come pellegrinaggio presupponeva dunque un terreno saldo su cui porre i piedi; oggi, invece, sembra che il terreno si sia "messo in movimento". Tutto ruota vorticosamente! Non si tratta di raggiungere una meta. Si tratta, più modestamente, di restare in piedi. E come restare in piedi se tutto si muove? Come restare in piedi se, quando il pavimento è scosso dal terremoto, vediamo cadere attorno a noi i libri dallo scaffale, gli stessi scaffali, la scrivania, le sedie...? L'immagine sembra suggerire che è possibile restare in piedi solo se non cerchiamo un vano appoggio a qualcosa di instabile. E se tutto è instabile, le cose come le persone, le idee come i valori... allora la strategia diventa quella di non appoggiarsi, di non legarsi, di non avvicinarsi troppo a nessuno e niente. Come durante il terremoto, la salvezza viene cercata allontanandosi dal luogo dove il terreno è divenuto instabile! Questa è esattamente la strategia più persuasiva che sembra proporsi oggi ai nostri occhi:

    La strategia in questione impone di astenerci dal contrarre impegni a lungo termine. Occorre rifiutare qualsiasi legame con idee, luoghi e persone. Tenere aperte tutte le porte. Non attaccarsi a nessun luogo, per quanto piacevolmente ci si viva, e trattare ogni luogo come soggiorno temporaneo. Non far dipendere le sorti della vita dall'esercizio di una sola professione. Non giurare eterna fedeltà a nessuno e a nessuna causa. Cercare non tanto di controllare (vanamente) il futuro, quanto di non ipotecarlo. Fare in modo che le conseguenze di un gioco non durino mai più del gioco stesso. Impedire al passato di influenzare il presente. In breve, occorre isolare il presente da entrambi i lati, separandolo da entrambi i lati, separandolo per quanto possibile sia dalla storia che dalla biografia. Bisogna abolire ogni forma di tempo che non sia un insieme di attimi presenti F...1. Quel che più conta in tali circostanze (anzi l'unica cosa che conti) è conservare la capacità di movimento. Non si tratta quindi di scoprire in sé una vocazione data una volta per tutte, né di costruire con pazienza mattone per mattone, il proprio essere; si tratta invece di "non lasciarsi definire" in modo che ogni identità adottata sia una veste e non una pelle, e che non aderisca troppo strettamente alla persona: così appena se ne presenti il bisogno o il desiderio, uno se la potrà togliere di dosso come una camicia intrisa di sudore. (4) 

    In questo quadro, la figura del pellegrino viene soppiantata - in senso metaforico ma anche in quello reale - da quella più modesta del turista.

    Il turista "doc" è maestro dello spostamento: si mette in viaggio perché si annoia a casa sua dove tutto è prevedibile e noto oppure perché è allettato dal fascino della novità e dell'avventura. È facile decidere di mettersi in viaggio. Naturalmente egli non intende compiere una scelta definitiva: è bello sapere che da qualche parte nel mondo c'è una casa che lo attende e lo può sempre accogliere, una casa dove si può sempre rifugiare, chiudere le porte a chiave e rilassarsi lasciando fuori il mondo intero. Questa casa "immaginata" nostalgicamente quando si è in viaggio non è però la casa concreta nella quale si vive quotidianamente: quella è un sogno, questa una prigione. Quando si chiude la porta, questa casa diventa una gabbia. Il turista preferisce perciò avere nostalgia di casa piuttosto che viverci. Così si mette in viaggio, senza appartenere a nessuno dei luoghi che visita, senza legarsi a nessuna delle persone che incontra, restando sempre e soltanto un ospite di passaggio. Viaggiando leggero, mettendo in valigia solo gli oggetti di uso quotidiano, spesso del tipo "usa e getta", è sempre pronto a ripartire quando inizia ad annoiarsi avendo ormai spremuto l'ambiente che l'ha accolto o quando si lascia affascinare da nuove attrattive, da nuovi sogni. Agli occhi del turista questa prontezza e disponibilità è sinonimo di libertà: interpretata come autonomia e indipendenza è il valore supremo della vita, quanto di fatto viene cercato e ricercato nel viaggiare. Il turista non sa quanto si fermerà in un luogo, né quale sarà la sua prossima meta. L'importante per lui è viaggiare, non dove andare. Diversamente dal pellegrino, il turista non ha davanti a sé una meta. I luoghi non sono tappe di un itinerario: sono luoghi e null'altro, senza alcun legame con quelli che li hanno preceduti né con quelli che li seguiranno. Non sono occasioni di incontro, di amicizia, di legami affettivi... con la gente del posto si intrattengono solo contatti superficiali, in modo che non ci siano conseguenze o impedimenti al prossimo viaggio. Non ci si impegna responsabilmente. Si passa, sempre oltre. Ogni avvenimento, nella vita del turista, assomiglia a un episodio dei telefilm televisivi: ogni volta si riparte come se fosse un nuovo inizio. Gli episodi non delineano una linea, una storia, una biografia. Assomigliano a punti, sequenze autonome. La fine non è mai definitiva, non lascia mai conseguenze durature...

    Accanto al turista, in questo scenario mobile che Bauman, suggestivamente, definisce anche "liquido", emerge anche un'altra figura continuamente in movimento: il vagabondo. Il viaggio dei vagabondi non assomiglia però a quello del turista, imbarcato in una "crociera di piacere", e neppure a quello del pellegrino, incamminato verso una meta desiderata. Il vagabondo non viaggia, né propriamente è in cammino. Il vagabondo "erra". Non lo spinge il desiderio di santità, né il piacere dell'avventura. Lo costringe l'indigenza, la miseria, la povertà. Il turista sceglie di andare dove lo porta il cuore, abbandona senza pensarci (senza scrupoli) il luogo dove soggiorna per assecondare nuovi desideri. Il vagabondo lascia un posto quando sente crescere verso di lui l'intolleranza. Nel vocabolario del vagabondo non ci sono parole come libertà, autonomia o indipendenza: queste possono comparire solo nei sogni.

    A questo punto dobbiamo riconoscere che, come il pellegrino, anche quella del turista e del vagabondo sono metafore della vita:

    Le figure del turista e del vagabondo vanno ovviamente considerate metafore della vita postmoderna. A dispetto del senso originario di tali concetti, per rimanere nell'ambito di questo mondo da turista o da vagabondo non occorre attraversare uno spazio fisico, non occorre viaggiare lontano; si può addirittura non muoversi dal posto [...1 nel nostro mondo odierno siamo tutti viaggiatori-attraverso-la-vita: fisicamente o spiritualmente adesso o in un immancabile futuro, col cuore pieno di gioia o di tristezza, per desiderio o per obbligo; nessuno di noi può giurare che il luogo dove oggi si trova gli servirà per sempre, che terminerà la propria vita nella condizione odierna, per la quale ha lavorato e che si è guadagnata. In nessun luogo ci troviamo completamente a casa nostra, sicuri e sistemati per sempre. (5) 

    Quello che ora dobbiamo sottolineare - concludendo questa prima parte della riflessione - è questo: in ogni caso, turista o vagabondo, nessuno oggi riesce a stare fermo poiché il terreno sembra continuamente in movimento, come se ci fosse permanentemente un terremoto. Entrambi devono affrontare la medesima fatica: attrezzarsi a restare in piedi al prossimo scuotimento del terreno o, se si preferisce, industriarsi a navigare senza più alcuna stella polare anzi, senza più alcun cielo stellato sopra il capo e senza alcuna legge morale in sé, soli nel buio della notte... Da questo punto di vista il turista non naviga in acque migliori di quelle del vagabondo, anzi, quest'ultimo con la sua provvisorietà, incertezza, miseria... finisce col ricordargli la verità che lui stesso con i suoi viaggi, vorrebbe nascondere ai propri occhi: la mancanza di senso.

     

    II. FIGLIO E FRATELLO

     

    Questi pensieri potrebbero inquietare: se tutto è in movimento è possibile restare fedeli al vangelo? E se anche riuscissimo a restarvi fedeli, come annunciarlo a uomini e donne che non hanno né sentono la necessità di avere punti fissi? L'idea, la tesi, che vorrei sostenere è in realtà molto semplice: l'annuncio del vangelo, oggi, non può ri-partire se non da dove era partito e come era partito. E questo significa due cose.

    La prima: l'annuncio del vangelo inizia, oggi come allora, dalla fiducia in un Dio che non è solo Dio, ma è Padre e dalla traduzione di questa fiducia in relazioni autenticamente fraterne. O, se preferiamo, possiamo dire: anche oggi il vangelo si annuncia assimilando relazioni fraterne che, plasmando la vita nei suoi aspetti più ordinari e quotidiani, lascino brillare il legame con l'unico Padre, sfidando, subito, la desolante "liquidità" di una vita senza legami: quella cercata dal turista come quella vissuta dal vagabondo. La luce del vangelo splende nella cura fraterna e nella dedizione generosa come offerta di una grazia liberamente e generosamente offerta: quella di un Legame capace di custodire gli affetti più cari, sfidando l'erosione del tempo, la depressione della solitudine.

    Vorrei esprimere questi pensieri con un'immagine evangelica che ci permetta di comprendere cosa significa creare o coltivare relazioni fraterne. Vi propongo l'incontro tra Gesù e la donna samaritana. La scena è notissima. Gesù siede al pozzo di Giacobbe. È mezzogiorno. È solo e stanco. Giunge una donna samaritana. Gesù le chiede da bere e inizia un dialogo sull'acqua. La donna è sorpresa dalla richiesta di Gesù, un uomo e un giudeo: «Come mai tu che sei giudeo chiedi da bere a me che sono una donna samaritana?. Ma Gesù replica che, se lei sapesse con chi sta parlando sarebbe lei a chiedergli dell'acqua, quella che lui solo può dare, acqua viva che zampilla per la vita eterna. La donna non sembra comprendere le parole di Gesù, fin quando, sorprendendola, egli le chiede di andare a chiamare il marito. «Non ho marito». «Ne hai avuti cinque e quello che hai ora non è tuo marito». Perché Gesù le chiede del marito? Gesù fino a quel momento aveva parlato dell'acqua, ora le chiede del marito. L'acqua è qualcosa che disseta, dovrebbe dissetare. Ma l'acqua oddisfa un bisogno che si rinnova continuamente. E, infatti, la donna deve recarsi, suo malgrado, tutti i giorni al pozzo. E di questo si lamenta. La vita di questa donna è scandita tutti i giorni da questo gesto ripetitivo, un vuoto andirivieni che la lascia stanca e insoddisfatta, proprio come stanca e delusa l'hanno lasciata tutti i mariti che l'hanno avuta, sedotta e abbandonata. Questo gettarsi nelle braccia di questi uomini, proprio come il recarsi quotidiano al pozzo, ha forse spento in questa donna il desiderio di un affetto sincero, vero, pulito, trasparente. Desiderio di incontrare qualcuno che si prenda seriamente cura di lei, desiderio di amare e essere amata. Desiderio sepolto sotto l'apparente soddisfazione di un bisogno che si rinnova senza sosta, senza quiete. Quando Gesù le chiede del marito intende esattamente chiederle dei suoi affetti. Cosa ne hai fatto del tuo desiderio di vita? Di amare e essere amata? Cosa ne hai fatto della tua sete, quella di una vita eterna? Questo è il senso della domanda di Gesù, che non intende affatto rimproverarla (non c'è traccia di rimprovero) quanto piuttosto risvegliarle il desiderio di un legame, di un affetto, per poterle annunciare che realmente, oltre tutte le sue delusioni, c'è realmente qualcuno che le vuole bene. Non è sola!

    Mi chiedo, a questo punto, se l'uomo e la donna di oggi sono davvero così diversi da questa donna samaritana. Come lei, il turista e il vagabondo si spostano in continui andirivieni che, come l'acqua del pozzo, soddisfano tutt'al più un bisogno immediato, lasciando però intatto il desiderio che abita più profondamente nel cuore umano: quello di incontrare qualcuno che si prenda cura di noi e di cui noi possiamo prenderci cura, qualcuno cui donarci e che doni a noi il suo amore. È un desiderio che il turista e il vagabondo possono anche misconoscere, presi come sono dalla smania o dalla necessità di spostarsi continuamente. Non possono però soffocarlo o annullarlo: è impresso in noi come nostalgia del Padre. Del resto, lo stesso turista e vagabondo conoscono bene, nella loro solitudine, l'affacciarsi della nostalgia di un volto caro, quello della mamma o del papà, della nonna, di un amico, di un amante... che sono la testimonianza, forse tenue, della verità del nostro desiderio di un affetto. Proprio come riconosce quella donna, al termine del film Central do Brasil e, soprattutto, al termine del viaggio (!), quando, tornando a casa, con il capo appoggiato al finestrino dell'autobus, riconosce: «Ho nostalgia di mio padre. Ho nostalgia di tutto».

    Se la nostra umanità - "nostra" dico perché noi stessi non siamo poi così diversi da questa samaritana! - assomiglia a quella di questa donna, l'evangelizzazione o, meglio, l'annuncio del vangelo oggi non potrà avvenire se non ponendosi come Gesù di fronte a questa donna. Con la stessa delicatezza. Ma, soprattutto, creando con lei un legame fraterno nel quale potrà brillare la verità del Padre. Perché - dobbiamo riconoscere - è proprio questo legame fraterno che Gesù tesse nel dialogo con la donna, con il suo ascolto, il suo interessamento sincero... e, soprattutto, con la richiesta iniziale: "Dammi da bere". Chiedendole dell'acqua, infatti, Gesù agisce come se la invitasse a fargli un dono, a considerarlo amico e fratello. Ponendosi come mendicante, Gesù le permette di dare, le consente di essergli sorella! E in questa esperienza la donna scoprirà la verità del vangelo: la bellezza di una vita donata all'altro riconosciuto come fratello, figlio dell'unico Padre. Suggestiva quest'immagine del mendicante: l'evangelizzazione che passa attraverso legami fraterni non si realizza solamente dando, poiché anche nel dare può insidiarsi la tentazione di affermarsi (!), ma si realizza nell'imparare a ricevere, promuovendo gesti e parole che suscitino nell'altro un atteggiamento fraterno.

    Ma la tesi che vi ho proposto dicendovi che l'annuncio del vangelo, oggi, non può ri-partire se non da dove era partito e come era partito significa anche una seconda cosa. Se l'evangelizzazione, ripartendo da dove è partita, deve ripartire dalla coltivazione di legami fraterni, essa deve, però, anche smascherare l'inganno di una cultura (quella attuale) che sembra scoraggiare la possibilità di rapporti fraterni. È quello che qualcuno chiama l'inganno o l'astuzia delle «potenze mondane» (Sequeri). "Potenze mondane" sono quelle che assorbono le nostre energie migliori (quelle che spendiamo sul lavoro, ad esempio, dove occorre essere disponibili a tutte le richieste in termini di tempo e di disponibilità), chiedendoci ogni genere di sacrifici, squalificando ogni impiego del proprio tempo che non sia utilizzato in senso utilitaristico... proprio come denuncia lo scrittore M. Ende nella fiaba Momo (dove "uomini grigi" suggeriscono che il tempo speso per gesti d'affetto gratuito è tempo perso!). "Potenze mondane" sono quelle che ci impediscono di coltivare gratuitamente, secondo una logica che il mercato (economico) non conosce, i nostri legami più belli (quelli con l'amico, con il coniuge, con i figli...) proponendoci, tutt'al più, "surrogati" di affetto (incontri "liquidi", del tipo "mordi e fuggi", in modo da non creare legami). L'evangelizzazione che oggi annuncia il vangelo prendendosi cura fraternamente dell'altro è chiamata a smascherare anche ogni nuova forma di oppressione:

     

    Il gioco delle potenze, entro certi limiti, è occulto: si tratta di convincere i più che quei giochi siano "naturali", addirittura "necessari". Soprattutto perché le cose di cui non possiamo fare a meno sono sempre di più, e non bastano mai per tutti. Il gioco è smascherato se però qualcuno si mette a disposizione del Signore e dice: "Farò a meno anche di quello che si pretende normale e necessario, così molti potranno vedere, per contraccolpo, che le pretese delle potenze mondane sono false". Non si tratta di masochismo: si tratta di mettersi al limite del lecito L. .1 per scuotere le coscienze intorpidite dalla disinvoltura dei giochi sporchi che le potenze fanno. Il pregiudizio secondo il quale l'uomo, se vuol sopravvivere nel mondo, deve diventare avido e prevaricatore, è falso (6). 

    Ne saranno incaricati quelli che il Signore destina, perché non si tratta di qualcosa che ciascuno può decidere a cuor leggero. È necessario che il Signore stesso ci autorizzi, in deroga al comandamento della creazione, in vista della sua redenzione (7). 

    «In deroga al comandamento della creazione» in quanto scegliere la povertà o la verginità per il Regno significa "contraddire" in un certo senso la logica della creazione, quella che si manifesta nel fatto che ad Adamo e Eva Dio non chiede povertà ma dona un giardino colmo di delizie! E, ancora, quella che si manifesta nel fatto che all'uomo che si sente solo, Dio dona la donna...! Se l'annuncio del vangelo oggi ha bisogno di uomini e donne che danno tutta la loro vita per la vita dell'altro («in vista della sua - cioè dell'altro uomo - redenzione»»), non sarà comunque per scelta personale, per un titanico volersi mettere a disposizione, ma per la stessa parola "seguimi" che come gli apostoli, anch'essi sentono risuonare nella loro vita. E sarà una vocazione chiamata a 

    mettere al mondo una speranza che le potenze della terra e dell'aria non possono cancellare, né la morte ridurre al niente. Una giustizia del credere che possa onorare gli uomini che vi si sono dedicati, anche per noi. Una dignità del voler bene che sostenga - e ammonisca - l'umanità delle generazioni che ci succedono. Questa è oggi una difficoltà radicale: nominare cose che possono valere la bontà di una vita, e non soltanto la precarietà di un provvisorio esperimento del bene. Perché ciò che vale tutta la vita, sopravvive alla morte, si sottrae al tempo, rimane intatto a disposizione dei figli che verranno. (8) 

    Vorrei affiancare anche a queste riflessioni un'immagine biblica che ci possa aiutare a comprendere cosa significhi smascherare l'inganno delle potenze: l'incontro tra Gesù e i sue discepoli incamminati verso Emmaus. I due discepoli stanno parlando e discutendo tra di loro. Gesù si affianca, li accompagna ma non sanno riconoscerlo.

    È lui che, dopo averli ascoltati, prende la parola e li interroga, fingendo di non capire di cosa stiano parlando. «Cosa sono questi discorsi... .2». Si fermano col volto triste, si guardano negli occhi, lo guardano negli occhi, stupiti: «Possibile che ci sia qualcuno così distratto da non aver saputo tutto quello che è successo a Gerusalemme?'. E incominciano a raccontagli tutto di Gesù che fu profeta potente in parole e opere... Intuiamo dalle loro parole che sono tristi, delusi e forse, persino, risentiti quasi fossero stati ingannati. Avevano creduto a un sogno: quello che avevano visto dipingersi nei gesti e nelle parole di Gesù, quando i ciechi riacquistavano la vista, i lebbrosi venivano guariti, i morti resuscitavano... avevano creduto alla promessa di un mondo nuovo, quello del regno di Dio, di un'umanità nuova quella di una fraternità tra uomini figli dell'unico Padre. Ma ora questo sogno sembra infranto. Gesù, il profeta potente, è morto. Le potenze mondane sembrano aver vinto...

    Ancora una volta mi chiedo se in questi discepoli non si rispecchi la nostra umanità. Quella di uomini e donne, ragazzi e giovani che affacciandosi alla vita con grandi sogni, disponibili a credere in un mondo nuovo più vero e più giusto e in un'umanità nuova, fraterna... si ritrovano poi tristi e delusi, costretti a dubitare della verità, a riconoscere che la giustizia raramente si compie, mentre la cattiveria, il dispetto, la vendetta, la violenza... s'incontrano molto più frequentemente della disponibilità, della comprensione, dell'aiuto reciproco, dell'amicizia, della fraternità... Sono queste esperienze che infrangono i sogni, suscitando quella sensazione di incertezza e insicurezza, dalla quale il turista e il vagabondo cercano riparo spostandosi in continuazione, attenti a non restare invischiati in alcun legame che potrebbe rivelarsi un impaccio, proprio come questi due discepoli che si affrettano a lasciare Gerusalemme, voltando pagina nella loro vita, mettendo una pietra sopra tutto quello che è successo, pronti a intraprendere un nuovo viaggio. Ma a questi discepoli delusi e stanchi, tristi e disorientati Gesù si affianca, come un viandante straniero. Li ascolta e pazientemente rispiega il vangelo, quel vangelo che seppur conosciuto (la loro sintesi è "perfetta") non era mai stato compreso. Nel raccontare, Gesù suggerisce un'interpretazione differente e, lentamente, riaccende in loro la speranza. Fin quando giungono a Emmaus. È sera. Gesù finge di proseguire oltre. I due lo invitano. Sembra che, come con la donna samaritana, Gesù provochi la loro iniziativa: «Resta con noi, perché è sera». E lui accetta di fermarsi a cena. Durante la mensa prende il pane, lo benedice e lo spezza. Allora i loro occhi lo riconoscono ma lui scompare dalla loro vista...

    Ora, se l'umanità assomiglia a questi due discepoli, tentata di fuggire da un posto all'altro prima che possa sorgere un legame o che sia troppo tardi e si resti impigliati in una trama che ci impedirebbe di sfuggire... l'evangelizzazione non potrà avvenire se non ripetendo i passi di Gesù. Affiancandosi nel cammino, ascoltando i ragionamenti, suggerendo un'altra possibile interpretazione delle cose (della vita!), suscitando un'attesa e un invito e, soprattutto, compiendo gesti evangelici (il gesto del pane) che, scaldando il cuore, nella loro qualità fraterna lascino brillare il desiderio e la presenza di un Padre comune. Solo un incontro così dona la forza di ritornare sui propri passi e riannodare i legami precedentemente recisi: quelli con la comunità o con altre persone. Solo un incontro così suscita testimoni e la Chiesa come comunità fraterna, testimone dell'unico Padre.

     

    NOTE

    1. AUTORE ANONIMO, Racconti di un pellegrino russo, Rusconi, Milano 1973, 25-26.

    2. Cf P.-A. SIGAL, «Pellegrini, Pellegrinaggio», in Dizionario enciclopedico del medioevo, Città Nuova, Roma 1999, vol. III, 1434-1435.

    3. Z. BAUMAN, Il disagio postmoderno, Mondadori, Milano 2002, 97-98.

    4. Z. BAUMAN, Il disagio postmoderno, 98.

    5. Z. BAUMAN, Il disagio postmoderno, 103-104.

    6. P. SEQUERI, La qualità spirituale, Piemme, Milano 2001, 31.

    7. P. SEQUERI, La qualità spirituale, 33.

    8. P. SEQUERI, Sensibili allo Spirito, Glossa, Milano 2001, 27.

     

    NB.

    Questa riflessione è stata proposta ai giovani che hanno frequentato il secondo anno del cammino "Giovani e Missione" organizzato dal PIME di Milano. L'incontro si è svolto domenica 23 aprile 2006. Il testo mantiene lo stile discorsivo dell'esposizione. Conseguentemente anche i riferimenti bibliografici sono ridotti all'essenziale.

    (Scuola Cattolica 135/2007, pp. 173-184)

     


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