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    La trasmissione della fede

    Bruno Forte


    Arcivescovo di Chieti-Vasto

    Trasmettere la fede, specialmente alle nuove generazioni, appare oggi una sfida tutt’altro che facile: è come se la gioia e la bellezza, che il credente sperimenta nel suo sapersi amato da Dio, siano tradite da ogni parola che cerchi di esprimerle, specialmente se da parte dell’interlocutore cui ci si rivolge non c’è il desiderio o almeno la curiosità di conoscerle. L’indifferenza alle grandi domande, cui la fede aiuta a dare risposta, è una delle cause di questa difficoltà di trasmissione, accresciuta da un contesto culturale dove il fruibile e l’immediato appaiono più importanti di ciò che può essere raggiunto in tutta la sua ricchezza solo a prezzo di sacrificio e di perseveranza.
    L’effimero sembra primeggiare sull’intero orizzonte e l’eterno impallidire davanti all’attimo fuggente. Quando poi si aggiunge a tutto questo il peso doloroso rappresentato dallo scandalo degli abusi commessi da alcuni membri del clero, con la conseguente crisi di credibilità dell’istituzione ecclesiale che è andata montando, le sfide accennate sono ancora più rilevanti.
    Sarebbe, però, sbagliato avere una visione pessimistica delle possibilità di trasmettere ad altri, oggi, il dono dell’amore di Dio, conosciuto e sperimentato grazie alla fede in Gesù Cristo: se è vero che il nostro cuore è fatto per Colui che ci ha creati a Sua immagine e ci ha redenti nel Figlio, fatto carne per noi, si può ritenere con Sant’Agostino che il collaboratore dell’Altissimo sia proprio quel cuore inquieto che pulsa nella Sua creatura (cf. Confessioni 1, 1, 1). La difficoltà non sta allora tanto nei due poli presi in sé - l’origine divina e il destinatario umano del dono della fede -, quanto nell’individuare le modalità giuste per creare il rapporto fra chi crede e Colui in cui crede e nel chiarire le motivazioni di amore gratuito, che solo possono ispirare una feconda trasmissione della fede. Sollecitato da questo insieme di problemi e di attese, ho avuto più volte occasione di riflettervi in questi anni in cui la Chiesa è particolarmente impegnata sul grande tema della nuova evangelizzazione e l’educazione alla vita e alla fede delle nuove generazioni appare priorità ineludibile per tutti i credenti. È così che sono maturate le riflessioni qui di seguito proposte.
    Per presentarle scelgo un’icona biblica, quella del profeta Elia, testimone di Dio nel tempo dell’apparente sconfitta di Dio. Il suo nome esprime già il messaggio della sua opera: “Eli”, “mio Dio”, e “Ja”, evocazione dell’indicibile tetragramma del nome divino, formano la confessione “il mio Dio è Dio”! Elia vive alla presenza di Dio e per Lui, dimostrando in tutto ciò che è e fa che a Dio solo è dovuta fiducia e obbedienza. L’intera sua missione punta a far comprendere come la vera tentazione dell’uomo non sia l’ateismo, ma l’idolatria, e come l’unica cosa che veramente conti sull’orizzonte dell’Eterno sia la fede, vissuta e testimoniata agli altri nell’amore. È così che Elia appare sin dalla sua vocazione: “A lui fu rivolta questa parola del Signore: Vattene di qui, dirigiti verso oriente; nasconditi presso il torrente Cherit…” (1 Re 17,2ss). Si tratta di lasciare ogni certezza per andare verso Dio, oriente luminoso della vita, e vivere in un abbandono totale a Lui. Fedele a questa vocazione, nell’ora drammatica dello scontro con i falsi profeti, adoratori degli idoli e distributori di certezze effimere, Elia non teme di rischiare tutto per proclamare che solo Dio è Dio.
    In ciò che avviene sul monte Carmelo (cf. 1 Re 18) la posta in gioco è la purezza della fede nell’unico Dio vivente. È l’ora della fede provata.
    Certo, l’idolatria rassicura, perché l’idolo è manipolabile, mentre il Dio vivo è libero, imprevedibile, sovversivo, e proprio così vincitore di tutte le presunzioni umane. La vittoria sui falsi profeti non basta, però, a fermare la sete idolatrica del popolo e dei potenti che lo governano, accende anzi nuovo odio verso il Profeta. Comincia allora per Elia il pellegrinaggio nella notte della fede verso la teofania dell’Oreb, il monte santo (cf. 1 Re 19,1-18), metafora del pellegrinaggio della vita verso l’esperienza di Dio. Il punto di partenza è la debolezza del Profeta, scosso da domande profonde: il suo è il dolore di non riuscire a trasmettere la fede a un popolo che ha conosciuto Dio e l’ha abbandonato, nonostante i segni di misericordia e di potenza ricevuti. Elia è impaurito e stanco: la sua sofferenza nasce dal constatare quella che gli sembra la sconfitta di Dio nel cuore del Suo popolo. Il Profeta cerca il Signore nel deserto (in ebraico “midbar”), luogo per eccellenza della parola (in ebraico “dabar”). Ed è nel deserto che Elia apprende la grammatica della fede nel Dio che gli parla in segni umilissimi: un pane per nutrire le forze nel cammino, un orcio d’acqua per dissetarsi. È lì che il Profeta impara ad accettare i tempi di Dio, perseverando nel cammino fino a giungere al monte santo, dove incontrerà il Signore nell’ascolto della voce di un silenzio sottile.
    Il silenzio di Dio purifica la fede dalle troppe parole, invita alla resa, fa superare il dominio della ragione assoluta, per aprire il cuore all’ascolto, all’adorazione, alla fiduciosa testimonianza ad altri del dono ricevuto, perché anch’essi l’accolgano secondo i tempi e i momenti della libertà e della Grazia. Proprio così, l’incontro con Dio si rivela la vera sorgente della fede e della sua trasmissione, che non si ferma davanti alle resistenze o alle chiusure, ma offre a tutti, a tempo e fuori tempo, la bellezza del dono. Esplicitando l’esperienza della fede e della sua trasmissione (su cui cf. l’Enciclica di Papa Francesco Lumen Fidei, del 29 Giugno 2013), densamente significata dalla vicenda di Elia, occorre muovere dalle sorgenti della fede, e cioè da quell’esperienza, da cui nacque il movimento cristiano nella storia, che fu l’incontro col Risorto, vivente di vita nuova, reso attuale in ogni tempo dall’azione dello Spirito. Credere vuol dire affidarsi a Qualcuno, che si è offerto alla conoscenza e al cuore nella libertà di un incontro personale: non si crede in qualcosa, ma nel Dio vivente, di cui si è fatta esperienza viva e trasformante nel proprio vissuto.
    Nella concretezza della storia la fede è trasmessa, perciò, sempre nel vivo di relazioni interpersonali, da parte di testimoni che parlano non per semplice sentito dire, ma per la sovrabbondanza del cuore riempito dal dono divino: e questo avviene nella comunione della Chiesa, nel tessuto dei rapporti di amore in cui la persona cresce e si esprime nella verità più profonda del proprio essere. Certo, in questa prospettiva riccamente relazionale la comunicazione della fede implica un cammino, una vera e propria educazione a credere, finalizzata alla maturazione di una carità operosa, nella ricchezza di aspetti e processi necessari per divenire adulti nella fede, tali, cioè, da sentire il bisogno di offrire ad altri generosamente quanto si è gratuitamente ricevuto da Dio, nella comunione del Suo popolo pellegrino nel tempo. La fede ricevuta diventa così in un processo vitale fede professata, dono offerto con gratuità e gioia nel rispetto della libertà di coloro cui è proposto. Si situa qui il rapporto decisivo da stabilire per arrivare a credere e a comunicare la fede: quello con la Parola di Dio, che apre alla conoscenza della verità e illumina il cuore e la vita, facendo conoscere e amare quella verità che non è qualcosa, ma Qualcuno, venuto a noi come dono dall’alto, il Cristo di Dio. La fede professata è condensata nel Simbolo, l’antichissima formula, breve e grande, utile per dirsi e riconoscersi reciprocamente come discepoli del Figlio Gesù, verità che salva. La professione della fede culmina a sua volta nella fede celebrata, nell’azione liturgica che attualizza nel tempo l’intera opera divina della salvezza: decisivo è qui il rapporto fra i sacramenti e la trasmissione della fede, mentre non poca rilevanza hanno i luoghi dell’esperienza e della celebrazione della fede, a cominciare dal tempio.
    L’espressione e la comunicazione più intensa dell’incontro col Dio vivente si compie però attraverso la fede vissuta, con cui si diventa testimoni della fede, custodi e diffusori della vita nuova ricevuta dall’alto nei vari ambiti dell’esistenza, a cominciare dalla famiglia, dai vari protagonismi ecclesiali, fra cui quello fondamentale delle donne, madri, sorelle e amiche nella fede, degli uomini, ministri ordinati e laici credenti impegnati, dei giovani, aurora del mondo che verrà e spesso primi e decisivi testimoni della fede fra i loro compagni di strada. Vivere la fede è dono e sfida che riguarda tutti, in tutti i contesti e nelle diverse età della vita: ecco perché è giusto affermare che nella fede non si vive mai di rendita, ma di un impegno sempre nuovo nella consegna di sé al Dio vivente.
    In un contesto pluralista, qual è quello attuale, poi, non ci si può interrogare sulla trasmissione della fede senza riflettere sulla fede in dialogo, considerando in special modo il rapporto fra il credente e chi non crede: si tratta di una vera e propria coappartenenza, perché si può ritenere che il credente sia nel profondo un ateo che ogni giorno si sforza di consegnarsi a Dio, e il non credente spesso sia un credente che lotta col Dio nascosto e attraente che lo sfida. La via della bellezza, quale si esprime nelle arti figurative, nell’architettura, nella musica, nella poesia, nella letteratura, nel teatro, è un singolare strumento per trasmettere la fede, specialmente se alimenta relazioni dialogiche in cui l’annuncio della fede, vissuto attraverso le forme e i linguaggi più diversi, si coniuga all’ascolto sincero e rispettoso dell’altro. Rilevante, poi, è il richiamo alla fede in cammino, e cioè al carattere sempre itinerante dell’atto di credere, quale si esprime nella vita teologale e nella tensione sincera e credibile al suo compimento ultimo in Dio.
    Opportuna risulta anche un’attenzione a quello che potrebbe chiamarsi il sorriso della fede, e cioè alla consapevolezza del valore provvisorio di ogni conoscenza del Mistero nel tempo e a quell’ammiccare dell’Eterno, che ci invita nella Sua rivelazione al banchetto della vita e ci fa pregustare qualcosa della bellezza ultima della Sua gloria, venendoci incontro nell’economia sacramentale della Chiesa. Né va trascurato l’aspetto di agonia che spesso accompagna la fede, dovuto sia alla passione che essa comporta, sia al livello di dedizione e d’amore che essa esige, paragonabile a una lotta quale quella che affrontò Giacobbe al guado dello Yabbok secondo il racconto della Genesi (32,23-33). Lo esprime in maniera intensa un testo poetico con cui vorrei concludere queste riflessioni: si tratta dei versi di Elena Bono, intitolati Quando tu mi hai ferita? (da I galli notturni, Garzanti, Milano 1952, 77), ricchi di forza evocativa e simbolica e carichi di quella capacità performativa, che sempre ha la poesia: Quando tu mi hai ferita? / Forse ero ancora nel seno di mia madre / o forse solo nei tuoi pensieri. / Tu mi amasti da sempre. / Io non ho che un piccolo tempo da darti / ed un piccolo amore. / Ma mi perdo nel tuo, / questo mare che brucia / e di sé si alimenta. / Allorché mi feristi / io non sapevo / quanto il tuo amore facesse male. / Ed è questo che vuoi, / soltanto questo in cambio dell’infinito amore: / che io soffra l’amor tuo, / che me lo porti come piaga profonda / e non la curi.

    (Chieti, Incontro con Docenti delle Scuole, 26 Marzo 2019)


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