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    I tradimenti

    della Chiesa

    Chi la accusa? Chi la difende?

    Leo Di Simone


    Sotto la tempesta delle critiche

    È facile parlare dei tradimenti della Chiesa in un'epoca di scristianizzazione come la nostra, quando tutti i riflettori mediatici le sono puntati contro per mettere in luce ogni ruga che altera la sua fisionomia, ogni piaga, per usare la metafora rosminiana, che fa sanguinare il suo corpo. Quella di Rosmini fu un'analisi puntigliosa dei mali che affliggevano la Chiesa del suo tempo impedendole di essere vero lievito nel mondo; oggi può essere considerata una sorta di spartiacque tra critiche più antiche, che il filosofo seppe cogliere e interpretare, e critiche successive alla sua che sono scaturite, fino al presente, dai nuovi apporti delle scienze più moderne quali l'antropologia, la sociologia, l'ermeneutica di cui la teologia più recente si è avvalsa. Si tratta di un coro di critiche interne alla Chiesa stessa che tratteggia, in un crescendo continuo, tutta la sua storia; critiche che non sempre hanno sortito il loro effetto e che, anzi, hanno provocato lacerazioni profonde del suo tessuto, lacerazioni non ancora ricomposte che mostrano al mondo una Chiesa divisa in spezzoni confessionali che nessun movimento ecumenico è ancora stato capace di ricomporre in unità. Questo sembra davvero il "macro" tradimento della Chiesa: la mancata risposta alla radicale proposta di unità del suo fondatore! La piaga più macroscopica che rende oggi la Chiesa incredibile quando parla di unità del genere umano senza considerare la sua situazione disgregata.
    È anche vero che la divisione interna alla Chiesa favorisce inevitabilmente gli attacchi accusatori, specie quelli esterni che certamente non scaturiscono dall'amore per Gesù Cristo e per il regno da lui annunciato: tale amore ha sempre segnato l'inizio di ogni rinnovamento ecclesiale, almeno nelle intenzioni. La storia della santità, nella Chiesa, mostra come tale amore abbia molte volte vinto ottusità ataviche e superato ostacoli altrimenti insormontabili. La Chiesa è una realtà mai completamente compiuta e semper reformanda; e anche se quest'ultima è affermazione di un certo valore dogmatico, non sempre se ne seguono le implicazioni. È vero, inoltre, che proprio una situazione di crisi può rappresentare un buon punto di partenza per necessari rilanci. Nel pieno dell'entusiasmo post conciliare e della "rivoluzione sessantottesca" Walter Kasper scriveva: «Si fa un gran parlare dappertutto d'una crisi della Chiesa e della teologia. Sembra che non esista più nulla di solido e di sicuro. Su tutto si discute; tutto è messo in questione. Che sia così nessuno può negarlo. Eppure proprio la radicalità della crisi è quanto di più promettente ci offra la nostra situazione. Ci costringe a porre gli interrogativi di fondo» (W. Kasper-J. Moltmann Gesù sí Chiesa no? Queriniana, Brescia 1974, p. 9).
    Gli faceva eco, in sincronia, Jiirgen Moltmann che, dalla sua prospettiva di teologo evangelico, constatava come «oggi la Chiesa viene criticata da tutte le parti. La critica alla Chiesa sembra costituire uno stabile pregiudizio dell'uomo contemporaneo ed essere tipica d'una società in rapido mutamento sociale. Per molti l'interesse per il cristianesimo si è ridotto ad una critica negativa della Chiesa» (ivi, p. 49). Per questo esortava la Chiesa a non continuare a guardare più solo a se stessa, per salvaguardare la sua entità deplorando lamentosamente coloro che le voltano le spalle, sprofondando così nella sua angoscia; la invitava a considerare le «critiche esterne», e non tanto come fonte di ispirazione per l'azione della sua riforma, quanto per valutarne l'inconsistenza alla luce della più radicale critica che è completamente «interna» alla Chiesa e che è Gesù Cristo stesso. «Egli è la critica della sua non verità, poiché è l'origine della sua verità» (ivi, p. 52). Eppure, neanche questa verità lapalissiana sembra utile a diradare le nebbie che offuscano il fenomeno Chiesa facendolo apparire ambivalente. Una ambivalenza che si poggia tutta su un equivoco di fondo, mai completamente risolto, non tanto nella considerazione teologica quanto nell'inconscio collettivo degli stessi cristiani.

    Fede cristiana e fede religiosa

    oi siamo figli di una cultura cristiana che ha identificato per troppo tempo il regno di Dio annunciato da Gesù Cristo, con la Chiesa. Ne sono nate non poche presunzioni spirituali: tragiche cecità storiche che hanno impedito di capire la fermentazione del regno di Dio che avveniva in tutte le culture in cui il Vangelo veniva annunciato; di capire che la Chiesa è un segno e uno strumento di ciò che la sorpassa, del regno di Dio. Se la prospettiva ecclesiocentrica non viene copernicanamente ribaltata, si continuerà a dar seguito a tutti i consequenziali integrismi che consistono nella ostinata delimitazione dei confini del Regno, in coincidenza con quelli di una Chiesa fedele al suo passato, a un modo storico e culturale con cui s'è vissuta la fede e a cui si dà il nome di tradizione. Senza l'emersione alla coscienza ecclesiale che nella tradizione si cela la realtà stessa del tradimento. Tradimento e tradizione hanno la stessa origine etimologica, vengono dallo stesso ceppo semantico, esprimono varianti di uno stesso segno: Tradere, verbo latino che sta per "consegnare". Ora, se da un punto di vista culturale è possibile affermare che ogni processo evolutivo, necessario e ineluttabile, si compie all'interno della dinamica tradizione-tradimento, attraverso l'abbandono dell'ultima "consegna" ereditata dalla storia, che viene tradita in nome della successiva, per cui senza tradizione non c'è cambiamento e senza tradimento non c'è modernità, dal punto di vista della tradizione cristiana l'affermazione non regge. Non è la continuità di una forma culturale che la Chiesa deve garantire e tutelare, ma l'integrità di Gesù Cristo nell'unico ed esclusivo modo col quale è stato "consegnato" alla storia.
    Gesù Cristo è stato "consegnato" da Giuda perché da lui ritenuto "traditore" di una tradizione re-ligiosa che sarebbe dovuta culminare con l'instaurazione di un regno terreno. Giuda è stato vittima dell'altro increscioso equivoco, ancora non del tutto dissipato, che tende a equiparare una qualsivoglia fede religiosa con la fede cristiana. La fede religiosa che contempla sempre il dominio di una determinata classe, razza, cultura, organizzata con un apparato di potere retto con strumenti temporali e che cerca nella divinità la legittimazione del suo operato. Fede religiosa come processo autonomo delle risorse umane interiori ed esteriori per cui l'uomo rende la divinità conforme al proprio modello. La fede cristiana non ha nulla a che vedere con la fede genericamente religiosa, con i miti che quest'ultima si inventa per inverare la sua situazione inautentica, la sua carenza antropologica e metafisica. La fede cristiana non parte da un impegno interiore, da una ricerca della volontà, dalla fantasia, dalla filosofia, dall'etica; è risposta a un appello, anzi è l'effetto dell'appello di Dio giunto all'umanità nella persona di Gesù di Nazaret, il suo Cristo che è stato "consegnato" alla storia nell'evento scandaloso della Croce. Nell'unico modo in cui poteva essere consegnato. Non alla maniera dei giudei o dei greci; ma scandalo per entrambi nel suo essere il Crocifisso.
    Se scandalo c'è nel mondo è quello della Croce di Cristo. Se tradimento c'è nella Chiesa, nel senso del travisamento di Giuda, tradimento per antonomasia, è quello della trasformazione della Croce di Cristo in atto "religioso" e non in impegno che impedisca le stragi di vittime innocenti, in politica di incarnazione della volontà di Dio per l'edificazione del suo Regno. Considerato che la religione, secondo la celebre espressione di Daniélou, «non salva», appaiono frustranti e disgreganti tutti i tentativi di conservare accanitamente una tradizione che è soltanto espressione di manifestazione religiosa della Chiesa; di una Chiesa rimasta troppo a lungo costantiniana, paga della sua autorità amministrativa, del suo sistema gerarchico, del suo ritualismo esteriorizzato e ancora invischiato ín modelli medievali e barocchi, del suo omogeneo sistema dottrinale controllato da una comoda teologia manualistica capace di piegare anche la Bibbia alle esigenze del dogma e la liturgia agli schemi concettuali della teologia. Una Chiesa edificatasi troppo presto e per troppo tempo quale struttura monolitica nel pur legittimo concetto di Chiesa universale. Quella monolitica sembra ancora essere la sua unica dimensione, tanto che quell'altra delineata in Lumen Gentium 26 «senza una vera e propria necessità contestuale», come ebbe ad affermare Karl Rahner, una sorta di appercezione pneumatica, sembra quasi surreale: Chiesa come concreta comunità locale eucaristica; Chiesa di Cristo veramente presente in legittime comunità locali di fedeli aderenti ai loro pastori (cfr. K. Rahner, Il Concilio dimenticato, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013, pp. 21-22). «In queste comunità, sebbene spesso piccole, povere e disperse, è presente Cristo, per virtù del quale si raccoglie la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica» (LG 26). Si tratta delle chiese delle quali non sí denunciano scandali, né si accendono riflettori sul sangue versato dai suoi cristiani perseguitati ed emarginati. Per una sorta dí nemesi inversa. Per il solo fatto che è mediaticamente più proficuo attaccare la Chiesa in quanto istituzione pubblica, con le sue connivenze col denaro e con il potere, stigmatizzando la sua appartenenza a un vecchio sistema sociale che, a ben guardare, è lo stesso di quello praticato dai suoi accusatori. Gli scandali che di recente hanno portato sulla ribalta mediatica la Chiesa istituzionale, non ultimo quello ripugnante della pedofilia, non sono che gli scandali di questo mondo, dell'attuale "sistema mondo" globalizzato per facilitare i compiti di un sistema di controllo organizzato da un'unica regia.

    Una Chiesa borghese?

    Ora il discorso si fa davvero scandaloso e anacronistico. Vi si trova davvero il sasso d'inciampo che può mettere al tappeto tutta la cultura planetaria messa a nudo da una luce imprevista che appartiene alla Chiesa anche se la Chiesa l'ha tenuta nascosta sotto il moggio. Radice del suo più consistente tradimento. Tutti i tradimenti della Chiesa, quelli che le vengono rinfacciati "dal di fuori", hanno origine nell'unico aberrante tradimento di cui essa stessa non ha piena consapevolezza, vittima com'è, per dirla con Moltmann, di una «cattività babilonese in cui lo stato sociale dominante tiene la Chiesa medesima» (cit., p. 51); o ancor di più e in maniera ancora più grave, per dirla con René Girard (Vedo Satana cadere come la folgore, Adelphi, Milano 2001), a causa della «rivelazione non ancora pienamente compresa» (ivi, p. 69). La regia unica di cui sopra, la regia occulta delle accuse alla Chiesa coi riflettori puntati sui suoi tradimenti, ha d'altra parte sollecitato a lungo la Chiesa stessa ad accompagnarsi ai progressi della società. Una Chiesa progressista, una Chiesa al passo con i più diversi movimenti di liberazione, una Chiesa moderna, aperta al mondo, tecnologizzata persino, a rimorchio della cultura globalizzata e narcotizzata dal rammollimento borghese. Molti tra gli accusatori concedono alla Chiesa le attenuanti generiche in quanto associazione significativa su scala mondiale, per meriti di assistenza umanitaria, di educazione, di vicinanza aí sofferenti, di solidarietà con le vittime dell'ingiustizia, dell'odio, della guerra. Rafforzando con ciò l'autostima della Chiesa-service, assistenzialista, e contribuendo alla sua integrazione nella cultura borghese che si serve della religione unicamente per raggiungere i suoi scopi. Il pericolo, stando alla denuncia di Johann Baptist Metz (Al di là della religione borghese, Queriniana, Brescia 1990), sta nel fatto che tale presunto «rinnovamento della Chiesa venga cercato non sulla base del Vangelo, ma su quella della religione borghese, che poi, a dei "ritardatari" come siamo noi cattolici, potrà apparire anche molto "progressista" e addirittura "liberante"» (p. 99). Una Chiesa che si assume oneri di supplenza, che espleta ruoli spettanti alla società civile non fa che rendere «invisibili i dolorosi contrasti che si determinano tra poveri e ricchi, tra felici e infelici, tra coloro che hanno conseguito il successo e quelli che soccombono [...]. Alla fin fine non dichiariamo invisibile la grazia proprio perché rimangano invisibili soprattutto i nostri peccati? E non è proprio questa invisibilità dí Dio e della sua grazia a rovinarci, come già temeva Bonhoeffer nel 1932?» (p. 68).
    Tutto questo sotto l'abile regia dell'accusatore della Chiesa che è anche l'accusatore di Cristo e che per Girard ha un nome soltanto, un nome principale tra i tanti dietro i quali nasconde la sua identità: Satana. Non è una affermazione teologica quella che Girard proferisce nel suo studio su citato. È affermazione dichiaratamente antropologica, conclusione di una indagine che mette in luce il sostrato antropologico della rivelazione giudaico-cristiana, assecondando l'intuizione di Simone Weil che i Vangeli, prima di essere una teoria su Dio, sono una teoria sull'uomo (cfr. cit., p. 237). Seguendo le sottili analisi di Girard sulle religioni arcaiche, sui loro miti, sulla loro violenza sacrificale, sulla valenza palliativamente pacificante del "capro espiatorio", lo si vede giungere alla conclusione che non solo la rivelazione biblica è asimmetrica rispetto a tali concezioni, nonostante le apparenti somiglianze col sistema mitico e sacrificale, ma che essa, nella sua essenza "rivelativa", è uno smascheramento antropologico dell'astuzia sacrificale che mette a morte innocenti facendoli passare per colpevoli. Nei miti arcaici sono gli accusatori ritenuti "innocenti" a individuare la vittima considerata "colpevole" e a ucciderla "giustamente". Pro bono pacis, per la pacificazione momentanea della società, per la mitigazione dell'istinto collettivo di violenza omicida. Tale costante antropologica, secondo Girard, corrisponde al parametro evangelico «Satana scaccia Satana» (Mt 12,26): Satana che si affanna a porre in atto il suo ontologico stato di divisione provocando una serie di guasti illimitata dove ogni "rimedio" è sempre peggiore del male.

    Lo scandalo dei poveri

    Zygmunt Bauman, nella sua più recente opera titolata Danni collaterali, diseguaglianze sociali nell'età globale (Laterza, Bari 2013), mette in luce come le situazioni disastrose che comportano un elevato numero di vittime, e di cui veniamo a conoscenza sempre «a disastro avvenuto», sono il risultato di cinici calcoli in cui il disastro è un «rischio che vale la pena correre» (p. XI). Così anche le disuguaglianze sociali non vengono considerate come rischi per il benessere collettivo in ordine alla salute fisica e mentale delle popolazioni, la qualità della loro vita, la solidarietà dei rapporti; ciò che viene preso in considerazione è il tasso di «minaccia all'ordine pubblico». La povertà viene pensata come un «problema da combattere con gli stessi mezzi cui si ricorre per far fronte alla delinquenza e alla criminalità» (p. X), mentre sull'altare dell'importanza degli obiettivi militari in gioco vengono sacrificati i soldati cui poi si tributano solenni funerali dí Stato. Tutti i morti nel canale di Sicilia in questi ultimi tempi sono le vittime di situazioni di ingiustizia diabolicamente tenute in vita per rifocillare un sistema economico globale sempre più avido e disumano. Sono false come il demonio le ipocrite espressioni di cordoglio degli accoliti del potere che sanno bene come quelle vittime siano il "prezzo calcolato" utile all'aumento dei loro profitti. Vittime innocenti considerate parte di un calcolo economico. Le povere vittime non possono scampare alla loro morte comunque annunciata. Nell'attuale dittatoriale struttura di potere globale gli accoliti di Satana «mirano a lasciare i loro attuali o futuri subordinati senza alcuna scelta se non quella di accettare con docilità la routine che i loro attuali o futuri superiori hanno stabilito o intendono imporre loro» (Z. Baumann, p. 43). Ci vogliono altre prove, sul semplice piano antropologico, per mostrare, come fa Girard, che «Satana esiste innanzi tutto in quanto soggetto delle strutture della violenza mimetica»? (cit., p. 249) ossia di quella violenza quale nefasta fonte di emulazione malvagia tesa alla distruzione dell'umanità? Per la Chiesa è sufficiente pregare, e pregare soltanto, per le anime delle vittime?
    Chi difenderà i poveri e gli oppressi dai soprusi satanici? Tardiva e paganeggiante l'indicazione testamentaria di Heidegger: «Solo un dio ci può salvare»! Dopo la collaborazione col demonio nazista e il traccheggio cervellotico per l'estinzione definitiva di ogni influenza cristiana sul mondo, appare una affermazione "boccheggiante". Eppure, le sue divagazioni vengono ancora fatte passare, dalla solita "regia unica", come insuperabile sondaggio dell'essere; mentre le vittime, come ai suoi tempi, continuano a morire. C'è bisogno di un buon avvocato, un pardcletos che metta in luce la verità.

    Il Paraclito, difensore dei poveri

    Paraclito è il nome che Giovanni, nel suo Vangelo, attribuisce allo Spirito santo: l'avvocato che difende gli innocenti dalla false accuse di Satana. I Vangeli non sono che i documenti redatti dal Paraclito per mostrare l'infamità delle accuse che sono state riversate in unica soluzione su Gesù di Nazaret: tutti i «peccati del mondo». Lui se li è addossati inchiodandoli alla sua stessa croce. Per dirla con Paolo, Cristo ha cancellato il «documento accusatorio» e «lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce». Solo così «ha spogliato della loro forza i Principati e le Potestà. Li ha esibiti in pubblico, trascinandoli nel suo corteo trionfale» (Co/ 2,14-15). Il corteo trionfale di Cristo si snoda dalla croce, momento della sua "esaltazione". Tutti guardano a lui "trafitto" e vedono in piena luce la perfidia di Satana. La croce fa trionfare la verità perché, nei resoconti evangelici redatti dal Paraclito, «la falsità delle accuse è rivelata, l'impostura di Satana è screditata per sempre a causa della Crocifissione. Tutte le vittime del medesimo tipo sono così riabilitate» (R. Girard, cit., p. 182). Una Chiesa che sta sotto la croce di Cristo è una «comunità che non si adatta più alle leggi né alle potestà di questo mondo, bensì diffonde, nella resistenza alle une e alle altre, la libertà di Cristo. Una comunità che si fa inquietante presenza ai potenti che lottano per il dominio del mondo» (J. Moltmann, cit., p. 75).
    È chiaro così che tutti i tradimenti possibili della Chiesa stanno in ordine con l'occultamento, più o meno palese, più o meno cosciente, dell'eminenza dell'evento rivelativo della croce di Cristo. Tutte le volte che la Chiesa si è resa connivente con l'ordine stabilito dai Principati e dalle Potestà di questo mondo, di un mondo perennemente "sacrificale" e "sacrale", con ciò stesso ha offuscato la lumi-nosità della croce e il suo trionfo che è il frutto della rinuncia totale alla violenza. La Chiesa sa che i suoi venti secoli di storia sono stati alternanza ininterrotta di "tradizione" e "tradimenti". Dev'essere sempre consapevole della propria colpa e avveduta nell'evitare i tranelli sottili del tentatore antico, bugiardo, divisore e omicida. Al centro della sua fede sta il Crocifisso. «La sua croce separa la fede dalla superstizione e dalla miscredenza, dalle altre religioni e dalle ideologie del mondo moderno» (J. Moltmann, cit., p. 76). Il Risorto è riconosciuto tale perché porta e mostra le sue cinque piaghe di Crocifisso. Le piaghe luminose che il Paraclito esibisce ancora al mondo quale prova del diritto di Dio e di inaugurazione del suo Regno. 


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