Cultura del pluralismo
e fede cristiana
Carnelo Mezzasalma
Se ci fosse dato di definire, in una sintetica espressione, qual è la cultura che domina segretamente il nostro vivere contemporaneo, si potrebbe dire che essa si fonda su due cardini: il pluralismo e il mondo dell'affettività individualistica. Come risponde la fede cristiana all'uno e all'altro?
Albert Camus: capire «l'aria del tempo»
Il grande scrittore francese Albert Camus (19131960), premio Nobel per la letteratura (1957), definiva l'autentico uomo di cultura come «colui che resiste all'aria del tempo». Nella sua intensa attività di giornalista, infatti, a servizio della giustizia e della verità della condizione umana, egli giunse a scrivere: «Tutto ciò che di fatto degrada la cultura accorcia le strade che portano alla servitù. Una società che tollera di essere distratta da una stampa senza onore e da un pugno di cinici saltimbanchi, fregiati del nome di artisti, corre verso la schiavitù malgrado le proteste degli stessi individui che contribuiscono al suo degrado» (cfr. J. Daníel, Resistere all'"aria del tempo" (con Camus), pref. di C. Magris, Mesogea, Messina 2009). In altre parole, ingannare, falsificare, manipolare, deformare una verità comune a una collettività: è contro pratiche di questo tipo che Camus afferma la necessità di porsi in condizione di vigilanza senza quartiere. Certo, Camus è ormai lontano da noi quasi mille miglia e appellarsi a lui significa soltanto nutrire una grande nostalgia per quel genere di scrittori, come l'autore di Lo straniero e di La peste, che per Jean Daniel si riconoscono «quando amano e quando creano. Quando riescono a discernere fulmineamente qualcosa che assomiglia al Bene, al Vero e al Bello. Quando sono abbastanza felici di avere il desiderio di proteggere gli istanti di felicità degli altri» (pp. 154-155).
Citare l'esperienza di Albert Camus non è qui per noi un vezzo per appoggiarsi a un nome illustre e riconosciuto per sostenere una tesi o un'altra, bensì il bisogno di capire qual è l'aria del nostro tempo nella quale siamo tutti immersi quasi senza accorgercene, e che ha comunque delle ripercussioni assai profonde sul nostro modo di vivere e di pensare. Quell'aria del tempo che molti intellettuali contemporanei veicolano, nei loro scritti e nelle loro analisi, senza alcun desiderio di esercitare quel pensiero "critico" che pure ci si aspetterebbe da loro. Camus fu un giornalista che lottò anche contro il proprio tempo e che era, in definitiva, il tempo del colonialismo, dei totalitarismi e del terrore. È stato Camus, in effetti, che, letto negli anni della giovinezza, ci ha insegnato a lottare contro «l'aria del tempo» allorché quest'aria diventa ambigua e irrespirabile al punto da uccidere silenziosamente l'anima. Non ignoravamo di sicuro quanto fossero complessi i rapporti di Camus con la religione e con Dio, eppure la lettura dei suoi romanzi e dei suoi saggi non ci ha allontanato minimamente dal problema di Dio e soprattutto dal Vangelo. Cattolico per via del padre bretone e della madre spagnola, Camus apparteneva a una generazione di proletari allevati nell'odio verso la Chiesa. Tutti i suoi maestri, da bambino e da ragazzo, sono stati anticlericali. Il suo romanzo postumo (pubblicato nel 1994) dal titolo Il primo uomo contiene una lettera, straordinariamente commovente, del suo insegnante grazie al quale lo scrittore poté continuare i suoi studi e a cui rimase fedele tutta la vita. Quell'insegnante, quando era ormai molto vecchio, si era battuto perché venisse introdotto nelle scuole l'insegnamento della religione.
Fedele al suo maestro, Camus si guardava bene dall'esprimere alcuna specie di ostilità verso la religione. Malgrado la sua diffidenza verso i preti, per esempio, e la gerarchia cattolica francese, vedeva nella lotta anticlericale una sorta di volgarità, se non di bassezza. Così, apprezzò molto la compagnia di alcuni gesuiti e domenicani, mentre sottolineava spesso come fosse preferibile avere intorno dei religiosi, «non si sa mai, non si può mai sapere». Laico, agnostico, forse ateo, quest'uomo non ha mai voluto pronunciare un "no" radicale ai religiosi e tantomeno alla fede cristiana perché era sensibilissimo a ciò che conduce un'anima a consacrarsi a quel Dio in Cristo, anche se per lui era inesistente. Non a caso adorava i Dialoghi delle carmelitane di Georges Bernanos e non si può neppure dimenticare che, dopo il 1945, Camus si dedicò all'edizione delle Opere complete di Simone Weil. Sarebbe bastato solo questo, affermava spesso lo scrittore polacco Ceslaw Milosz, a meritargli il premio Nobel.
Dunque, leggere Camus per un giovane credente non costituiva affatto un pericolo per la fede, e anzi egli si mostrava come un'ottima guida non solo per capire «l'aria del tempo», ma per resistere contro «i censori che hanno sempre collocato la propria poltrona nel senso della Storia» (J. Daniel, pp. 156157). Ed è in questo spirito e in questa prospettiva che ora tenteremo di leggere anche l'aria del nostrotempo per vedere quanto siamo contemporanei anche dal punto di vista della fede.
Siamo veri cristiani contemporanei?
a cosa vuol dire, in definitiva, quest'aria del tempo su cui tanto insistiamo? Ogni epoca della storia, e la nostra storia non fa ovviamente eccezione, è sottomessa a quella sua cultura non dichiarata che viene chiamata l'ideologia dominante. Gli uomini, infatti, sono più attenti alla loro sopravvivenza che alla loro coscienza, e ciò determina il loro essere sottomessi, in maniera appunto tacita, alla mentalità del loro tempo. Credono di essere liberi e di decidere il loro personale destino, mentre in realtà tirano avanti respirando quell'ideologia che non è mai esplicita ma che sta, per così dire, sopra di loro. È l'ambiente in cui vivono e agiscono. Ma è, soprattutto, l'ambiente costituito dagli amici di cui si ha stima, dei maestri che si adorano, perfino dei modelli interiori. I più pericolosi perché inafferrabili. Un ambiente, dunque, che s'impone a tutti noi senza alcun bisogno di giustificazione.
Che la nostra aria del tempo sia ormai il postmoderno è un dato di fatto di cui pochissimi, purtroppo, sanno misurare le conseguenze e gli effetti concreti nel nostro modo di vivere e di pensare. Anche sul piano della fede vissuta. Ci troviamo in un contesto, in effetti, e anzi in una fase storica del tutto inedita, nuova sotto ogni aspetto, e di fronte alla quale nessuno possiede una mappa sicura per attraversarla con sufficiente sicurezza di non annegare da un momento all'altro. È un contesto poliedrico e che presenta anche prospettive diverse e contrastanti, ma nel quale emerge particolarmente la precarietà di ogni rapporto umano, la rottura con l'immediato passato, un'angoscia e un' inquietudine che non trovano requie e tuttavia l'uomo crede di sapere cosa vuole e cosa cerca. Almeno al momento. Non meraviglia, allora, che tale precarietà riguardi anche il rapporto uomo-Dio. Un'epoca, quella della nostra postmodernità, che spegne sempre di più non solo qualsiasi ideale proteso verso il futuro, ma anche la stessa passione del domandare su e con Dio. Qualcuno l'ha definita, giustamente, l'epoca delle "passioni tristi". Ed è vero perché niente appare degno, all'uomo contemporaneo, di essere amato al di sopra del proprio egoistico e triste desiderio di volersi imporre, per così dire, al mondo intero. Anche se non è del tutto cosciente di questo desiderio indotto. Semplicemente segue la corrente generale, l'aria del tempo, che si chiama anche globalizzazione.
Sono in molti oggi a spazientirsi allorché sentono parlare di postmoderno. A loro sembra soltanto una parola come un'altra, buona al massimo per qualche discorso o conferenza di alto profilo, ma che non significa niente sul piano della nostra vita concreta. Non si rendono conto di quanto incidano in noi le opportunità e al contempo i guasti dell'aria del tempo. Di fatto, non capiscono appieno il loro tempo e, quindi, neppure se stessi. Le conseguenze di questo atteggiamento sono enormi anche per la fede cristiana che si trova risucchiata o verso un mitico passato o verso l'accomodamento passivo al tempo presente, credendo d'inseguire così il futuro. In realtà, chi vive le esigenze irrinunciabili del Vangelo, e cioè la sequela di Gesù morto e risorto, non ha altra scelta che fare come Lui: capire il proprio tempo, capire gli uomini che vi vivono dentro, cercare di portarli verso Dio. È l'atteggiamento che raccomandava, a suo tempo, Romano Guardini: il nostro tempo è dato da Dio a ciascuno di noi come terreno sul quale dobbiamo stare e che ci viene proposto come compito, anche crocifisso, che dobbiamo eseguire per amore di Dio. Lo affermava anche il filosofo cristiano Luigi Pareyson: «Il cristiano si trova oggi al centro dei compiti imposti dalla cultura odierna; ha di fronte a sé l'assunto di fondare una nuova cultura cristiana e di dar vita a un nuovo modo di ritrovare il cristianesimo».
Il che vuol dire, in sostanza, porsi con serietà e onestà un grande interrogativo: quale cristianesimo è possibile nel mondo postmoderno? La fede che cerco di vivere fino a che punto è fede autentica e non proiezione immaginaria dei miei desideri umani, troppo umani? Come vivo il Vangelo nell'ora presente? È un fatto semplicemente privato oppure è un compito ecclesiale, cioè missionario? Il cardinal Carlo Maria Martini ha sottolineato come alcuni cristiani vivano ancorati al Concilio di Trento o al Vaticano I, mentre altri hanno assimilato bene il Vaticano II ed altri ancora sono proiettati in avanti. Ciò esprime bene il fatto che «non siamo tutti veri contemporanei; e questo ha sempre rappresentato un vero fardello per la Chiesa e richiede moltissima pazienza e discernimento». La postmodernità, che lo vogliamo o no, esige da noi questa pazienza del comprendere e la grazia del discernimento, se desideriamo ancora avere a cuore la causa di Dio, ma anche dell'uomo "contemporaneo". Mai l'una senza l'altro.
Postmoderno e pluralismo
Il postmoderno veicola, per prima cosa, la mentalità del pluralismo ed è una delle sue grandi aporie sulla quale ben pochi riflettono a fondo. Ormai viviamo, quotidianamente, all'interno di una pluralità di visioni del mondo che sono l'espressione di una varietà di religioni, di immagini e soprattutto di "stili di vita". In tale universo, multiforme e variegato in mille sfumature, ciascuno – che sia un amico, un conoscente o un familiare – ha il diritto di parola e può restare accanto ad altre possibili verità, senza che nessuna di esse possa mai avanzare la pretesa di verità o, peggio, di superiorità. Il pluralismo, insomma, è l'unico modo di dare senso alla propria e alla vita altrui, ma è soprattutto il modo stesso di pensare di noi contemporanei. Non ci sono più differenze dí generazioni: ín un paese così povero di vera cultura e poco attratto dalla conoscenza o dalla ricerca, come l'Italia, ragazzi, giovani e adulti sono tutti devoti solerti del pluralismo. Sembra un coro unanime di scetticismo profondo dal momento che nulla è vero – il relativismo di vita denunciato da Benedetto XVI – o, per reazione, di una fondamentalismo senza nessuna base razionale che dice «la verità è la mia, quella che sento». Da qui, sul piano esistenziale, la sensazione di caos che domina a tutto campo qualsiasi comunicazione tra amici, conoscenti e familiari. Questo caos è frutto dalla tendenza diffusa a mescolare stili e valori eterogenei, pensieri mobili in continua evoluzione, contaminazione di linguaggi e modelli culturali. Se vogliamo, allora, vivere in pace con gli altri e non avere conflitti e discussioni, è meglio battere in ritirata o, per meglio dire, adattarsi all'aria del tempo. Ma poi giunge, inevitabile prima o poí, l'esigenza di affermare se stessi, la propria unicità o individualità e quindi, consciamente o inconsciamente, facciamo scoppiare il conflitto, il risentimento, la discussione che avevamo evitato con tanta cura. Saltano così i rapporti interpersonali, i fidanzamenti e quanto altro mai. La devozione verso il pluralismo si è trasformata in boomerang contro noi stessi e contro gli altri. La nostra stessa esistenza, infatti, cerca una sua "verità", e non tollera troppo a lungo l'atteggiamento dimissionario verso di essa. Talvolta non esitiamo a voltare le spalle, emotivamente, e senza possibilità di replica, a chi – amico o partner – ci ha costretti per molto tempo a una tattica guardinga e, tutto sommato, anche un po' umiliante.
Cosa c'è, dopo tutto, al fondo di questa cultura del pluralismo? È in questa domanda che pare concentrarsi quel mutamento di grandi proporzioni a cui assistiamo da non molti anni e che per amore di chiarezza abbiamo chiamato il postmoderno. Tale mutamento riguarda íl passaggio dall'unità della forma di pensiero – attivo dall'Ottocento al Novecento – alla molteplicità delle opinioni, al rifiuto di ogni pensiero totalizzante perché interpretato come minacciosa ideologia. È il distacco dalla società che ha tentato di spiegare il mondo e l'uomo attraverso la metafisica, ossia verso un fondamento trascendente, alla società postmetafisica: siamo diventati dubbiosidi tutto, perfino di noi stessi, e non ci fidiamo di chi vuole affermare una verità con forza e determinazione. Qui risiede il motivo per cui il cristianesimo non viene più accolto facilmente dalla gente comune poiché pretende di presentarsi come la vera fede e la vera religione. Dopo tutto, gli attacchi del nuovo ateismo vogliono veicolare quel relativismo di tutte le verità a favore di qualsiasi opinione.
Naturalmente, bisogna pure ammettere che il pluralismo non è fenomeno totalmente negativo e ciò spiega anche perché, nelle nostre società contemporanee, ci sono conquiste che non possono essere più messe in discussione: una crescita umana e sociale attraverso la valorizzazione delle differenze, il rispetto per l'altro, una certa crescita dello spirito democratico, la presa di coscienza critica rispetto a tutti i sistemi totalitari o, comunque, a qualsiasi forma di coercizione della libertà e di offesa della dignità di ogni essere umano. Tuttavia, è altrettanto innegabile il rischio sottile del pluralismo: là dove esso si trasforma in un'apatica ed esclusiva accettazione della vita quotidiana e in una rinuncia a pensare e a scegliere il meglio per sé e per gli altri, allora non è solo la tradizione cristiana a essere minacciata, ma è lo stesso genere umano a essere fortemente in pericolo. L'egoismo dei singoli prende il sopravvento su tutto e non esiste più nessun progetto comune che sappia valorizzare anche i talenti e le risorse di ognuno in vista di un progetto possibile. Quanto una tale visione minacci la fede cristiana, fin dalle sue fondamenta, appare evidente anche a uno sguardo superficiale. Eppure, proprio la fede cristiana potrebbe diventare un baluardo per la difesa della dignità di ogni uomo, nonché della stessa ragione umana che, per dirlo nel linguaggio dei filosofi, è ormai una ragione "debole", cioè scettica e al fondo minacciata dal nichilismo. Di fatto, il caos che sembra instaurare il pluralismo, con la pluralità di stili e di visioni della vita, porta a un'altra conseguenza che ci conduce direttamente al nostro quotidiano e al suo disordine emotivo.
Il cristianesimo e gli affetti
Se la vita postmoderna è ormai inserita in un mondo sempre più frettoloso e computerizzato, quasi gettata in mille possibilità diverse, ecco il ritorno del vissuto affettivo ín primissimo piano. Questo vissuto affettivo, si direbbe, è il simbo-
lo di una sorta di congedo da quell'eccessiva mentalità razionalistica, tipica dell'età moderna, e che è rimasta attiva fino agli anni Ottanta del Novecento con le ideologie che vi si sono succedute. Anche sul piano della fede, fino a quel momento, si è insistito sugli aspetti razionali della credibilità della fede, quasi ad imporla dall'alto e senza tener conto degli affetti, dei desideri, delle speranze e dei sentimenti dell'individuo. La sensibilità postmoderna, infatti – quella sensibilità che ci domina tutti –, rifiuta nel modo più categorico qualsiasi verità o pensiero che vuole affermarsi indipendentemente da ciò che noi crediamo, pensiamo e amiamo. Forse in questo rifiuto c'è un grido d'allarme dell'uomo contemporaneo che vuole ritagliarsi un piccolo spazio personale per sottrarsi alla pressione esercitata dai mezzi tecnici e dallo stress del nostro mondo. «Dinanzi ai tanti – ha scritto Francesco Cosentino in un suo bel libro che tenta di scandagliare queste provocazioni del mondo postmoderno al cristianesimo – che hanno cercato di spegnere questa loro esigenza profonda, ne restano molti altri che non riescono a nutrire questa dimensione affettiva attraverso la fede cristiana e nelle chiese cattoliche» (F. Cosentino, Immaginare Dio, Cittadella Editrice, Assisi 2010, p. 135). A queste persone, assetate dal bisogno di esprimere se stesse, le chiese appaiono luoghi freddi e oscuri e con gente attenta solo a dire cosa è giusto e cosa è sbagliato.
In questo contesto, appare abbastanza chiaro il motivo per cui si è venuta a creare una quasi totale disaffezione nei confronti dell'annuncio cristiano. E ciò pone una vera e propria sfida alla fede: tener conto della dimensione affettiva dell'uomo che oggi gioca un ruolo enorme nella sua ricerca di identità e di felicità che il mondo intorno, anonimo e omologato, tenta in tutti i modi di occultare e di schiacciare. Scrive ancora Francesco Cosentino: «L'uomo crede vero ciò che appare sotto la forma dell'amore perché l'amore rappresenta lo stesso essere dell'uomo e in esso ci si può dunque riconoscere; nell'amore, dunque, l'uomo non si sente minacciato e può scoprire una possibile strada per la propria felicità» (cit., p. 138). Occorre aggiungere che la fede nel Dio cristiano non è mai data semplicemente all'interno di questo movimento affettivo perché esige comunque una scelta e una decisione che fanno appello alla libertà.
Ora, è proprio all'interno del mondo affettivo della sensibilità postmoderna che si pongono i problemi più gravi. Intanto, il mondo affettivo dell'uomo non riconosce mai i limiti della vita e neppure
delle situazioni in cui si trova a vivere. Crede tutto possibile poiché fa del suo io il centro della vita e dell'universo. Questo sentirsi al centro di tutto, e non tener conto troppo delle relazioni e delle mediazioni, lo consegna all'agguato del narcisismo e delle sue patologie. E se la libertà dell'individuo è una grande cosa, è altrettanto vero che non è mai completamente autosufficiente. Con troppa facilità crediamo di essere il nostro vero io e che le nostre scelte siano davvero quelle che vorremmo fare, mentre in realtà siamo determinati da impulsi psicologici che derivano dall'idea disordinata della nostra importanza. Certe nostre scelte sono determinate dal nostro falso io. È un discorso lungo e complesso, ma che ci riporta al centro delle analisi sociologiche di Zygmunt Bauman e nelle quali il mondo emotivo postmoderno è, di fatto, un tipico prodotto di quella fluidità esistenziale che, tutto sommato, non ha nessuna direzione e nessun progetto. In altre parole, il mondo affettivo, lasciato a se stesso, non sembra riconoscere più il valore dell'interiorità dove avvengono sì le crisi ma anche le prese di coscienza ferme e durature.
In ogni caso, la cultura del pluralismo e l'emergere prepotente del mondo degli affetti pongono la fede cristiana di fronte a delle scelte nuove che tengano conto del senso e della portata delle provocazioni del postmoderno. Emerge il bisogno di una fede cristiana che sappia provocare, scuotere, rompere la sordità del torpore e che riaccenda quei filtri critici che gli stili di vita contemporanei e la cultura dei mass media continuano a spegnere. Una fede cristiana – fede di una comunità che è la Chiesa – capace di far germogliare una crisi feconda da cui possano nuovamente sorgere delle domande, e prima di tutto la domanda su Dio. Non è cosa facile né a breve termine. Occorrono la pazienza e il sano discernimento di veri e autentici discepoli di Cristo, che si dedichino. anima e corpo, all'educazione della fede in un mondo caotico e disordinato sotto ogni aspetto e per di più stanco e scettico di ogni speranza. In ogni caso, sarebbe veramente un grande bene, e una vera offerta a Dio, se riflettessimo attentamente su un recente studio di Severino Dianich, pubblicato su «Il Regno» (n. 1089, 15 novembre 2010) e con il titolo Chiesa, che fare? Il Vangelo nella società occidentale scristianizzata: uno studio davvero prezioso e lungimirante che cerca di provocare tutti noi a un cambiamento di mentalità che sia fondato sull'umiltà che la nostra situazione esige e sull'accoglienza profonda dei "lontani" o di coloro che sono attualmente in fuga dalla vita della Chiesa.
E forse, oggi, quel Gesù sulla via di Emmaus potrebbe trovarsi, paradossalmente, con discepoli postmoderni che Egli deve guarire dalla mancanza di recettività interiore, guarire dalla loro immaginazione, per liberare una nuova immagine di Dio che sia davvero parte della loro vita, non razionalizzandola, ma vivendola costi quel che costi, anche contro l'aria del tempo: «il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Mt 24,35).
(Feeria, 38 - Dicembre 2010, pp. 3-8)