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    Charles Taylor:

    le pressioni

    della modernità

    Michael Paul Gallagher

     taylor

    Nel 1960, quando era specializzando a Oxford, Charles Taylor pubblicò un articolo intitolato Clericalismo, che criticava il ruolo marginale dei laici nella Chiesa cattolica. Ciò rivelava, a suo parere, una Chiesa sulle difensive, isolata dalla cultura moderna e lenta nell'apprezzare il nuovo umanesimo degli ultimi secoli. Una simile autoghettizzazione non andava d'accordo, però, con l'Incarnazione, perché la fede cristiana ci invita ad avvicinarci a Dio attraverso la nostra umanità e la mutevole avventura della storia.

    Quell'articolo giovanile arrivò due anni prima dell'apertura del Concilio Vaticano II. Nei decenni seguenti, mentre il lavoro di questo filosofò canadese acquistava notorietà, i suoi libri toccarono spesso temi religiosi, che peraltro non giocarono mai un ruolo centrale. Il cattolicesimo è diventato una presenza più esplicita nei suoi scritti pressappoco nell'ultimo decenni() (a partire da Una modernità cattolica? del 1999). Nel 2008, per esempio, egli ha scritto una breve riflessione sulle barriere tra il mondo dell'università e quello della religione, criticando quella forma di ortodossia accademica nel cui nome filosofi, sociologi e storici trovano normale ignorare la dimensione spirituale della vita. Simili intellettuali, a suo parere, hanno dimenticato non solo le risposte alle grandi questioni dell'esistenza, ma perfino le domande.

     

    Oltre la prosperità umana

    Benché sia un filosofo della politica e della morale più che tm pensatore specificamente religioso, Taylor ci offre un punto di vista che non ci è dato di trovare in pensatori più teologici. In particolare, le sue ricerche sulla storia della cultura possono aiutarci a capire gli effetti del mutare dei contesti stilla fede. Il contesto condiziona la coscienza, come amano dire i marxisti, e la coscienza `moderna' dell'individuo è un tenia costante degli scritti di Charles Tavlor, che ha esaminato in modo approfondito l'influenza di questa emergente immagine di sé sui nostri Orizzonti religiosi (o stilla loro mancanza). Soprattutto negli scritti recenti, egli ha cercato di comprendere la nostra situazione spirituale in un'epoca dominata dal secolarismo, invitando a smetterla con i piagnistei statistici e sociologici sulla perdita della fede e a porsi domande più profonde.

    Commenti sulla natura e l'importanza della fede sono apparsi con frequenza crescente nel lavoro del Taylor, spesso con la sottolineatura che il credere religioso è più ricco della sua normale percezione culturale. Per esempio egli respinge la tesi che «lo scopo principale della religione sia soddisfare il bisogno umano di senso» (SA, p. 718), sospettando che essa sia influenzata dal diffuso individualismo che misura tutto in termini di appagamento personale. La religione è invece da lui presentata come una sorgente di conversione tramite la grazia, in cui «l'aspirazione a una trasformazione» porta gli esseri umani «oltre l'ordinaria prosperità umana» (SA, p. 430). Una descrizione della religione puramente sociale o funzionale, egli affermava, sarebbe come Amleto senza il Principe.

    Ciò che egli considera specifico) della fede cristiana è colto da questa frase: «Dio prende l'iniziativa di penetrare, vulnerabilissimo, nel cuore stesso della resistenza, di andare tra gli uomini, offrendo la possibilità di partecipare alla vita divina» (SA, p. 654). Contro punti di vista più agnostici O psicologici, Taylor sottolinea che la rivelazione cristiana rafforza le persone tramite la partecipazione all'amore divino. In un eloquente passo di Una modernità cattolica?, egli si chiede come una visione così alta dell'amore possa diventare reale oggi, e scrive: «Il nostro essere fatti a immagine di Dio significa anche il nostro stare tra gli altri in quel flusso d'amore, che è [in ultima analisi] la Trinità. Ora, là una grande differenza se si ritiene o meno che questo genere di amore sia una possibilità concreta per noi umani. A mio avviso lo è, ma solo nella misura in cui ci apriamo a Dio» (CM, p. 35). Sembra una notevole affermazione di impegno alla fede, ancora più notevole in quanto proviene da un filosofo di fama mondiale.

    Dalla sua prospettiva di studioso di storia della cultura, Charles Taylor sottolinea che la fede «è sopravvissuta [...] evolvendosi» (VRT, p. 104) ed è convinto che Dio stia gradualmente «educando l'umanità» trasformandola «dall'interno» (SA, p. 668). Perfino in una fase di disordine culturale è possibile correggere immagini di Di() che erano «troppo semplici, troppo antropocentriche, troppo indulgenti» (VRT, p. 57). Per Taylor «siamo solo all'inizio di una nuova era della ricerca religiosa di cui nessuno può prevedere le conseguenze» (SA, p. 535), ma in cui la fede sarà meno «collettiva [e] più cristocentrica» (SA, p. 541). Una simile fede avrà anche bisogno di «un nuovo linguaggio poetico» (SA, p. 757). In questo egli riecheggia il risalto dato all'immaginazione da parte di autori tosi diversi come Newman, Balthasar e Sölle. Per Taylor la speranza sta oggi nell'alimentare la fede attraverso momenti di «epifania» simili all'esperienza dell'arte come chiamata da oltre il sé, perché in questo modo possiamo scoprire «fonti di moralità esterne al soggetto [...] che risuonano dentro di lui» (SS, p. 510).

     

    La complicata storia della moderni

    Il primo capitolo del suo ponderoso libro Società secolare, pubblicato nel 2007, comincia con questa domanda: «Perché era virtualmente impossibile nella nostra società occidentale non credere in Dio, ad esempio, nel 1500, mentre nel 2000 a molti di noi questa appare come una scelta non solo facile, ma quasi inevitabile?». La stia risposta rimanda a una moderna percezione di sé meno basata sulle tradizioni di appartenenza, più imperniata sui diritti individuali e convinta che una visione 'disimpegnata' di sé coincida con il semplice buon senso. Ma «la natura umana è qualcosa che «non può essere concepito come esistente nel singolo» (CM, p. 113). In questo spirito Taylor difende l'importanza delle radici comuni e dell'«arricchimento vicendevole» in contrapposizione con l'«autosufficienza solitaria» (CM, pp. 114, 116). Egli condivide l'ideale 'moderno' dell'autenticità personale, ma diffida delle sue attuazioni più disumanizzanti, come, in particolare, la tendenza a voltare le spalle a ogni fonte di significato più ampia del sé individuale. E tra queste c'è la possibilità della fede religiosa.

    Taylor è spesso impaziente verso le descrizioni superficiali del secolarismo moderno. Per lui siamo di fronte a un fenomeno ben più complesso. Le teorie «culturali» della modernità, come le definisce, sono meramente sociologiche, nel senso che considerano la secolarizzazione un risultato in qualche modo automatico dell'urbanizzazione o un effetto inevitabile della razionalità scientifica. Simili teorie presentano la modernità come una specie di rullo compressore che appiattisce e cancella in modo automatico tradizioni, culture autoctone e fede religiosa. L'errore dell'impostazione «aculturale» consiste nel vedere tutto attraverso la lente della storia occidentale e nell'interpretare il declino della religione solo in termini di perdita della fede, spiegata a sua volta con il fatto che la scienza e il nuovo individualismo rendono non credibili le rivendicazioni di verità del cristianesimo.

    Taylor cerca di spostare più in profondità il dibattito, passando dal mondo delle idee a quello, più nascosto, delle immagini di sé, e non perde occasione di sostenere che la crisi della fede nella modernità occidentale si situa, più che al livello della verità e dell'epistemologia, a quello dell'etica e dell'immaginazione. Per lui la secolarizzazione riguarda la comprensione morale di noi stessi, e in particolare il nostro «immaginario sociale». Con questa espressione intende i modi in cui immaginiamo la nostra vita prima ancora che la teoria si faccia avanti con le sue analisi e spiegazioni, e rinvia a quella «comprensione in larga misura non strutturata e non articolata della nostra situazione nel suo complesso» (MSI, p. 25) che fa, per così dire, da musica di sottofondo ai presupposti della nostra vita.

    Con toni che ricordano Newman (che, sorprendentemente, non menziona mai), Taylor difende questo modo, meno intellettuale e in un certo senso pre-logico, di accostarsi al significato: le persone comuni danno senso alle loro vite per mezzo non di concetti espliciti, ma di narrazioni, immagini e pratiche condivise dalla comunità. Mentre il modello «aculturale» trascura quest'area della sensibilità morale, l'interpretazione «culturale» collega la crisi della fede ai cambiamenti dell'immaginazione simbolica. C'è qui qualcosa di più del puro e semplice prodotto dei fattori sociali esterni e delle nuove teorie del sapere, e sarebbe una forma di arroganza occidentale sostenere che il nostro tipo di secolarizzazione debba per forza ripetersi nelle altre culture, ogni volta che diventano 'moderne' nel senso tecnico- scientifico della parola.

     

    Tempo, vita ordinaria, interiorità

    Charles Taylor interpreta il dispiegarsi della modernità come una rivoluzione della sensibilità culturale, e non semplicemente come un insieme sociologicamente prevedibile di cambiamenti esteriori, arrivando a sostenere che, sebbene certe forme di fede siano entrate in crisi, il nocciolo della fede cristiana trascende le sue mutevoli realizzazioni culturali. Così egli cerca di portare i dibattiti stilla secolarizzazione su un terreno più implicito e soggettivo, vedendo nella modernità qualcosa di più di un prodotto dei soliti sospettati — il razionalismo nato tra Cartesio e l'illuminismo, o i rivolgimenti politico-sociali come i moti rivoluzionari e l'urbanizzazione. Tra le forze creatrici di una cultura radicalmente diversa egli cita l'economia di mercato, lo sviluppo di una stampa in mano all'iniziativa privata, la nascita della democrazia moderna basata sulla sovranità popolare, ma in realtà è più interessato (e interessante per noi) all'effetto di queste situazioni sull'immaginario sociale, ovvero a come le persone si sentono) e come interpretano intuitivamente la propria vita. Taylor si rammarica che si parli spesso della «modernità come di una società tradizionale meno qualcosa», come nient'altro che la liberazione dagli (o la perdita degli) orizzonti religiosi precedenti (CM, p. 107). Sostiene invece che «la teoria moderna dell'ordine morale» non avrebbe mai potuto diventare dominante «nella nostra cultura senza questa trasformazione profonda del nostro immaginario» (SA, p. 175).

    Alla base di tale trasformazione egli vede una diversa percezione umana del tempo, per cui il tempo perde la sua dimensione verticale, relativa alla vita in quanto collegata all'eterno o trascendente, e diventa in gran parte orizzontale. Questa sensazione di un tempo non religioso ha permesso alla gente, per la prima volta nella storia, di «immaginare la società orizzontalmente, priva di legami» (MSI, p. 157) e di vedersi «esclusivamente in un tempo secolare» (SA, p. 714). Un secondo sviluppo ha a che vedere con «l'affermazione della vita ordinaria» (SA, p. 370) in quanto moralmente apprezzabile in se stessa. Questo sviluppo è legato sia all'importanza data dal protestantesimo al lavoro e alla vita familiare, sia alla sua teologia complessivamente non sacramentale. Un terzo sviluppo consiste nella ceno-anta dell'individuo e di «nuove forme di interiorità» (CM, p. 107). Purtroppo, l'importanza inizialmente positiva data alla soggettività si è in seguito ridotta a un'«etica dell'autorealizzazione tramite le relazioni» (MSI, p. 103), e in tempi più recenti questo sé separato ha finito con l'essere caratterizzato soprattutto dall'autoespressione terapeutica, dal consumismo e dalla tendenza a considerare il male morale come nient'altro che patologia. In proposito Taylor è esplicito: una soggettività ridotta a questo può «davvero finire col degradare» la dignità umana (SA, p. 618).

     

    Un nuovo senso di Dio

    A partire dalle sue preoccupazioni sul tempo, sull'esistenza ordinaria, sulla soggettività, Taylor concentra la sua attenzione sull'identità umana. La modernità ha comportato la fine di un inondo di stabili identità religiose, caratterizzato dal «radicamento sociale» e da una visione del mondo di tipo gerarchico, e l'inizio di una nuova fase storica in cui gli individui sono considerati responsabili del modo in cui immaginano o scelgono il loro senso di sé. Il 'secolarismo' entra in scena quando la motivazione all'azione non sente più il bisogno di guardare oltre il qui e ora, in cerca di un fondamento del proprio impegno.

    Di questa modernità Taylor non si fa mai ingenuo banditore. Riconosce che essa è «spesso interpretata stilla base delle sue manifestazioni meno nobili e più banalizzanti» (SS, p. 511). Molte sue realizzazioni, gli sembra, hanno una parte oscura, dove si riducono a versioni degradate degli obiettivi iniziali. Forme alte e forme basse di libertà sono entrate in conflitto; la nuova razionalità può ridursi a semplice funzionalità e a utilitarismo; un individualismo gretto può dimenticare le grandi questioni del senso della vita e rinchiudere la libertà entro confini egoistici, dove «modalità di autorealizzazione più accentuatamente egocentriche tradiscono l'ideale dell'autenticità» (LA, p. 105). Nei decenni più recenti questo tradimento ha assunto l'aspetto di un «relativismo soft» in cui ognuno «fa un po' quello che gli pare» (SA, p. 484). Tali versioni degradate delle speranze della modernità si affermano ogni volta che ci dimentichiamo sia delle nostre responsabilità verso gli altri sia del nostro innato desiderio di entrare, in qualche modo, in contatto col divino.

    A partire da questo retroterra, Taylor valuta l'effetto del cambiamento culturale sulla fede. Nel corso degli anni ha costantemente ribadito che la modernità secolare non necessariamente significa «assenza della religione», ma semmai che «la religione occupa un posto differente» nell'esperienza e nell'immaginazione delle persone (MSI, p. 194). Più precisamente, la modernità ha «eliminato un certo tipo di presenza divina» percepita come sovrana in un'eternità verticale e trascendente. Questo, d'altra parte, rende possibile una «forma alternativa di presenza divina», più personale o spirituale, meno istituzionale, meno esclusivamente trascendente o escatologica (MSI, pp. 186-187). Per usare le parole di Taylor, «nella vita personale la dissoluzione del mondo incantato può essere compensata da [...] un forte senso del coinvolgimento cli Dio nella nostra vita» (MSI, p. 193). Nasce così un diverso linguaggio della fede, che impegna la nostra intera umanità ecl è molto più di una convinzione intellettuale.

    Nel quadro di questo tentativo di individuare nuove espressioni culturali della fede, Taylor si chiede se dovremmo dare la precedenza all'individuo o alla comunità. Lo preoccupa l'eccessivo isolamento del singolo prodotto dalla modernità e vede la necessità di rivalutare rapporti e responsabilità come indispensabili a un'immagine di noi stessi autenticamente umana. Eppure è convinzione diffusa che la società sia una somma di individui: «non siamo tutti individui?». Una simile idea può portarci ad abbandonare i «modelli della complementarità» e della comune appartenenza che hanno caratterizzato gran parte della storia umana (MSI, p. 18). Taylor invece ritiene che un'antropologia relazionale o comunitaria sia la base indispensabile del senso umano di identità. Le forme isolate di identità sono fragili e perfino autoingannevoli: «Essere un individuo non equivale a essere un Robinson Crusoe; significa piuttosto essere collocato in un certo modo tra gli altri uomini», (MSI, p. 65).

     

    La spiritualità oggi

    La riflessione più approfondita di Charles Taylor sul suo essere cattolico e su temi cristiani in genere si trova in Una modernità cattolica?, la sua lezione del 1999 all'Università di Dayton. Qui egli si propone come un novello Matteo Ricci, il missionario gesuita che alla fine del XVI secolo seppe entrare con tatto e intelligenza nella società e nella cultura cinesi. Come Ricci, Taylor si mostra incline a valorizzare il terreno comune e a evitare lo scontro culturale. Nello stesso tempo egli prende le distanze sia dall'«umanesimo esclusivo» e chiuso ereditato dall'età moderna, che a suo parere tende a dimenticare il bisogno umano di una più profonda pienezza di vita, sia dal «progetto della cristianità» e da ogni altra proposta in cui la fede ambisca a governare la cultura o a fondere in qualche modo religione e società.

    I cristiani dovrebbero ringraziare Voltaire e i suoi seguaci dell'esperienza umiliante ma liberatoria di veder smantellata la cristianità, e di avere così l'occasione «di vivere il Vangelo in una maniera più pura» (CM, p. 18). Dovrebbero anche riconoscere che alcuni valori basati sul Vangelo, come i diritti umani, si sono affermati in una misura senza precedenti proprio nella società secolarizzata. Tuttavia, Taylor non esita ad aggiungere che «la negazione della trascendenza può mettere in pericolo le conquiste più preziose della modernità» (CM, p. 30). Senza un'idea di Dio, potranno sopravvivere a lungo i valori nati nel contesto della tradizione ebraico-cristiana? E riuscirà il primato della vita ordinaria a non trasformarsi in un angusto recinto colmo di preoccupazioni egoistiche? Contro un individualismo isolato o disimpegnato, egli consiglia l'adozione di una prospettiva relazionale: «Considerare la pienezza dell'esistenza come qualcosa che accade tra le persone anziché nel singolo» (CM, p. 113). La migliore forma di identità è quella che germoglia non su un solitario vagabondare nell'esistenza, ma sul riconoscimento nella relazione. In realtà, in mancanza di una cornice, di una tradizione di appartenenza, c'è il rischio di precipitare «in una vita spiritualmente senza senso» (SS, p. 18).

    La modernità ha aiutato i credenti a uscire da concezioni di fede puritane, piene di timore ed eccessivamente ultraterrene, e a riconoscere «il potenziale degli esseri umani per la bontà» (CM, p. 32). Il passaggio da una spiritualità più ascetica a una spiritualità che vede nel Vangelo anche la promessa di una pienezza in questa vita e in effetti uno dei contrassegni della cultura religiosa di oggi. Tuttavia anche qui è in agguato un pericolo: è in grado, questa sensibilità, di affrontare i lati più oscuri dell'esistenza? Taylor considera l'umanesimo secolarizzato non abbastanza raffinato su questo punto, e lascia intendere che alcuni tipi di spiritualità rientrano anch'essi nell'ingenuità del «sentirsi bene». Un'autentica pienezza di vita «reputa la vita eterna e prende la morte con serenità» (CM, p. 110). In questo testo, come spesso nel suo lavoro, l'originalità di Taylor consiste nel modificare i termini del dibattito su modernità, religione e cultura. Quella che egli chiama «la storia principale» può essere compresa meglio come un cambiamento di sensibilità più che di idee: «Nella modernità occidentale gli ostacoli alla fede sono innanzitutto di tipo morale e spirituale», non semplicemente una questione di verità o di credibilità intellettuale (CM, p. 25). E proprio a questo livello dei presupposti non espliciti ma vissuti che Taylor è preoccupato del danno a lungo termine che subirebbe l'umanità qualora vivesse una vita priva della dimensione religiosa.

     

    Un amore diverso

    La lezione del 1999 termina con una riflessione sul discernimento culturale alla luce del «flusso d'amore» che scende da Dio in quanto Trinità, in citi l'autore ci sollecita a un salutare «sconcerto» di fronte alla complessità del vivere oggi la fede cristiana. Bisogna infatti evitare entrambi gli eccessi del accettare tutto o respingere tutto, come fanno quelli che egli chiama i «banditori» e i «fustigatori» della nostra cultura. «Come nel caso di Ricci, in questa epoca e in questa società il messaggio evangelico deve rispondere sia a ciò che in esse già riflette la vita di Dio, che alle porte che sono state chiuse in faccia ad essa» (CM, p. 37). In un dibattito dedicato a quella lezione, Taylor ha definito meglio le sue posizioni. Ha parlato della sofferenza di studenti credenti che frequentano università che mettono a tacere la loro dimensione spirituale o impongono una specie di conformismo ateo. «Non credere non ha solo condizionato le risposte, ha modellato anche le domande» (CM, p. 119). Nel campo della filosofia morale, che gli è proprio, egli teme che ci sia ormai posto solo per una teoria neutrale su ciò che dovremmo fare, senza possibilità di riflettere su come fornire motivazioni pratiche per la bontà. Né c'è consapevolezza del perenne conflitto tra i nostri «desideri caritatevoli e quelli egoistici» (CM, p. 121). Nel momento in cui «lì fuori c'è tanta ostilità», gli accademici cristiani dovrebbero cercare di «cambiare il programma rendendolo più aperto» e sbloccando «i corridoi sbarrati o dimenticati dell'edificio dell'etica» (CM, p. 123). A suo parere il livello di animosità dei dibattiti culturali attuali blocca la «crescita spirituale» e fa perfino «resistenza a Dio)». E conclude con una pungente intuizione su come comunicare la fede oggi: «Un cambiamento di tono può essere il preludio necessario al cambiamento di contenuto» (CM, pp. 124-125).

     

    Verso una lede che trasforma

    Negli anni che hanno preceduto la pubblicazione, nel 2007, di L'età secolare, Charles Taylor ha cominciato ad affrontare i temi religiosi più spesso e in modo più esplicito, non necessariamente in base a letture teologiche, bensì riflettendo su scrittori come Hopkins, Flannery O'Connor e Bede Griffiths. L'ultimo capitolo di quel volume esprimile una critica al livello superficiale dell'incredulità culturale e dell'incapacità della Chiesa ad affrontare le esigenze religiose dell'uomo di oggi. Offre inoltre una sintesi profetica delle sue speranze riguardo alla sopravvivenza della fede. Ispirato dalla lettura di Ivan Illich, Taylor scrive con passione sulla necessità di espressioni più incarnate della fede. Sottoposta a una sottile erosione da parte della cultura predominante, la fede rischia di perdere la sua capacità trasformativa. Perfino nella teologia i modelli concettuali possono essere paralizzati dal presupposto che per essere obiettivi dobbiamo considerare la verità «come qualcosa di affatto indipendente da noi». Questa è una pericolosa «escarnazione» della ragione, che mette da parte l'impegno e l'affettività quali valide vie verso la conoscenza (SA, p. 746).

    A meno che i cristiani abbiano il coraggio di «ristabilire un'idea del possibile significato dell'Incarnazione» (SA, p. 753), perfino la potenza dell'Eucarestia può essere soffocata dalla convenzione. Taylor è convinto che la fede autentica abbia a che vedere con la nostra graduale conversione per opera dell'amore di Dio, che porta a un nuovo modo di amare con Dio. E chiaro che questa prospettiva va oltre ogni tentativo di esaminare la religione in chiave sociologica. Qui la sorpresa del Vangelo è in rapporto con l'azione trasformatrice di Dio nelle nostre vite: se facciamo coincidere la fede con i valori della cultura dominante, ci sfuggirà questa «trasformazione che la fede cristiana ci offre» (SA, p. 737) - essere partecipi di Dio, sorgente della nostra differenza. Questa immagine specificamente basata sulla fede ci riscatta dalla solitudine della modernità in cui «tutto il senso dipende da noi» e dove «non incontriamo nessuna eco» fuori dal mondo dell'immanenza (SA, p. 376).

    Che un importante filosofo contemporaneo abbia potuto arrivare a simili affermazioni sulla fede è davvero notevole. Egli ci dice che non si può rendere giustizia alla pienezza della fede né essendo fedeli alla razionalità predominante né abbracciando ingenuamente gli ideali della cultura, e che le nostre fonti di bontà e di amore hanno bisogno di essere più grandi di noi. Pur ammirando e difendendo il senso moderno del sé, Taylor diffida di una personalità priva di ancoraggi che vive isolata dagli altri, dalle tradizioni di senso e, alla fine, dalla possibilità della fede quale origine più credibile della nostra trasformazione verso l'amore. Quando quest'ultimo orizzonte diventa reale, la vita si trasforma nell'avventura di «scegliere noi stessi alla luce dell'infinito» (SS, p. 449).

     

    RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ALLE OPERE DI CHARLES TAYLOR

    CM = A Calholic Modernitsi?, ed. J. Heft, Oxford 1999 [trad. it. Una modernità cattolica?, «Annali di Studi Religiosi», 2000, 1, pp. 405427].

    EA = The Ethics of Authenticity, Cambridge (MA) 1991 [trad. it. Il disagio della modernità, Roma - Bari 1994].

    MSI = Modem Social Imaginaries, Durham (NC) 2004 [trad. it. Gli immaginati sociali moderni, Roma 2005].

    SA = A Secular Age, Cambridge (MA) 2007 [trad. it. L'età .secolare, Milano 2009].

    SS = Sources of the Self: The Making of Modem. Identity, Cambridge (MA) 1989 [trad. it. Radici dell'Io. La costruzione dell'identità moderna, Milano 1993].

    VRT= Varieties of Religion Today, Cambridge ( MA) 2002 [ trad. it. La modernità della religione, Roma 2004].

     

    (Da MAPPE DELLA FEDE, Vita & Pensiero 2011 – pp.139-151)


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