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    Le figure della comunicazione religiosa (cap. 5 di: L'esperienza religiosa)


    Zelindo Trenti, L'esperienza religiosa, Elledici 1999



    Riportare l'esperienza al tema della comunicazione appare oggi obbligato da fattori innumerevoli, che possono essere riferiti all'enorme sviluppo delle relazionalità, che la tecnologia consente.

    La stessa verità dell'esistenza appare straordinariamente complessa: avviluppata in una gamma di rapporti in un mondo attraversato da esplorazioni molteplici, fra loro relazionate. L'orma della trascendenza rischia di svanire in un intreccio vasto e intricato, che i mezzi di comunicazione relazionano, senza poter decifrare. E tuttavia proprio questa relazionalità, pressoché indecifrabile, affonda in radici lontane, appare fasciata di mistero, esposta al richiamo sottile e imperioso che le giunge dal versante della trascendenza.
    Resta la domanda circa quali forme possano rendere ancora credibile ed efficace la comunicazione dell'esperienza religiosa.
    La quale ha le sue «figure», per lo più familiari e parlanti; talora anche grandiose ed epiche così da costituire una delle radici più vive e feconde della stessa cultura.
    Vogliamo richiamare le figure classiche e offriamo un'analisi più attenta di una figura familiare e consueta: quella della narrazione.
    Naturalmente la comunicazione avviene sia sul versante della religione rivelata come su quello della religione naturale; per quanto i presupposti e le modalità di analisi e di ricerca si differenzino notevolmente. Qui facciamo riferimento alla comunicazione religiosa come tale, a prescindere che si verifichi nella .riflessione rivelata o in quella naturale.

    IL MITO

    Ha potuto interpretare l'esperienza religiosa specialmente arcaica per la sua forza interpretativa ed espressiva di realtà misteriose e irriducibili alla piena consapevolezza razionale.
    L'etimologia del termine riporta al greco mythos, già presente in Omero per indicare parola, discorso, macchinazione... Successivamente in periodo classico, usato per indicare racconti arcaici di eroi o di dei, è venuto man mano contrapponendosi al termine logos quale intuizione fantastica alternativa alla più lucida argomentazione razionale.
    Il mito ha costituito un riferimento importante anche per la ricerca filosofica, da Platone a Vico a Schelling. Recentemente è stato esplorato sotto punti di vista notevolmente differenti in base a presupposti reciprocamente assai lontani; molti filoni culturali ne hanno tentato l'interpretazione e la valorizzazione: dalla psicanalisi freudiana agli archetipi di jung il mito viene a costituire uno strumento per sondare dimensioni profonde e inavvertite dell'esistenza.
    La scuola fenomenologica ha analizzato con passione il mito; nei suoi massimi rappresentanti, da Otto (Otto, 1966) a Eliade, ha rilevato nel mito una manifestazione singolare del sacro: Eliade in particolare ne ha fatto uno dei riferimenti qualificati della ierofania (Eliade, 1972b), in grado di dare forma alla ricerca religiosa, rilevandone il significato archetipo universale. Non meno interessante l'approccio strutturalistico con Lévi-Strauss che ha scorto in ogni mito una matrice in grado di comporre rapporti latenti e tuttavia operanti in ogni racconto.
    E evidente che in queste diverse analisi affiora la funzione singolare del mito portata su una dimensione esistenziale, cui la razionalità ha difficile accesso e che tuttavia s'impone all'esperienza umana: in questo senso il mito assurge a linguaggio privilegiato per esprimere il mistero che attraversa l'esistenza ed è sotteso ad ogni ricerca religiosa.
    L'intuizione di Malinowski coglie nel segno dove avverte che il linguaggio religioso prende piede quando «lo sforzo di conoscere fallisce». Soprattutto sembra legittima l'osservazione di Cassirer: Al vero substrato del mito non è il pensiero ma il sentimento. Il mito e la religione primitiva non sono affatto incoerenti, non sono privi di un senso e di una ragione. Ma la loro coerenza deriva assai più dall'unità del sentire che non da principi logici» (Cassirer, 1971, 162). Il quadro interpretativo del mito nella sua funzione religiosa è comunque universalmente riconosciuta così la sua significatività e singolare forza espressiva. Operante soprattutto là dove la ragione fatica a farsi strada e a giungere a conclusioni rigorose; Platone a proposito è il primo ad accorgersene e ad valorizzare il mito per interpretare dimensioni esistenziali oscure o impenetrabili.
    Un'esemplificazione esemplare potrebbe essere addotta circa il tema dell'immortalità.
    La tradizione biblica offrirebbe una ricchezza singolare di riferimenti.
    Già ai primordi dell'umanità l'albero della vita, è piantato al centro del paradiso quale speranza aperta sulla condizione sia pure fortunata, ma non del tutto appagante; la stessa tentazione, giocata in definitiva sulla rassicurazione conclusiva del tentatore - non morirete! - dice come anche la rivelazione si sia avvalsa di un linguaggio immaginoso e fantastico per risvegliare ad una delle più esaltanti certezze dell'annuncio cristiano.
    Nella storia delle religioni uno dei racconti più suggestivi è venuto elaborandosi sull'aspirazione all'immortalità. Nell'epopea babilonese Gilgamesh è l'eroe che lucidamente imposta il problema. Mentre per giorni fa il lamento desolato sulla morte dell'amico:
    «Enkidu che io amo sopra ogni cosa,
    che ha condiviso con me ogni sorta di avventura,
    ha seguito il destino dell'umanità.
    Per sei giorni e sette notti io ho pianto su di lui,
    né ho permesso che fosse seppellito,
    fino a che un verme non è uscito fuori dalle sue narici.
    Io ho avuto paura della morte,
    ho cominciato a tremare e ho vagato nella steppa.
    La sorte del mio amico pesa su di me:
    per sentieri lontani ho vagato nella steppa.
    Come posso io essere silenzioso,
    come posso io essere calmo?
    L'amico mio, che amo, è diventato argilla;
    Enkidu, l'amico mio che amo, è diventato argilla.
    Ed io non sono come lui, non dovrò giacere pure io e non alzarmi mai più per sempre?».
    (Pettinato, 1993, 44. Per comodità di lettura diamo qui e nei brani successivi la traduzione che propone G. Pettinato nell'introduzione).
    Donde la sua ricerca della pianta dell'immortalità.
    La sua figura si erge grande e indomita: non c'è ostacolo, né rischio che lo possa fiaccare o fermare.
    La benevolenza di Utanapishtim, l'eroe del Diluvio, gli offre il suggerimento risolutivo e lo incoraggia all'ultima e più ardua impresa.
    La pianta dell'immortalità è finalmente raggiunta e carpita: Gilgamesh intraprende felice la via del ritorno. Ma il «serpente» gli sottrae e divora la pianta preziosa. L'immortalità si rivela un miraggio, che può esaltare l'uomo, anche il più grande, cui non è dato di entrarne in possesso.
    Utanapishtim, cui gli dei hanno consentito l'immortalità, che ha svelato a Gilgamesh il luogo segreto dove alligna la pianta dell'immortalità alla domanda principale di Gilgamesh sul perché della morte, risponde in termini categorici:
    «Perché ti sei agitato tanto? Che cosa hai ottenuto?
    Ti sei indebolito con tutti i tuoi affanni;
    hai soltanto riempito il tuo cuore di angoscia.
    Hai soltanto avvicinato il giorno lontano della verità.
    L'umanità è recisa come canne in un canneto.
    Sia il giovane nobile,
    come la giovane nobile sono preda della morte.
    Eppure nessuno vede la morte,
    nessuno vede la faccia della morte,
    nessuno sente la voce della morte.
    La morte malefica recide l'umanità.
    Noi possiamo costruire una casa,
    possiamo costruire un nido,
    i fratelli possono dividersi l'eredità,
    vi può essere guerra nel Paese,
    possono i fiumi ingrossarsi e portare inondazione:
    (il tutto assomiglia al) le libellule (che) sorvolano il fiume
    - il loro sguardo si rivolge al sole,
    e subito non c'è più nulla -.
    Il prigioniero e il morto come si assomigliano l'un l'altro!
    Nessuno può disegnare la sagoma della morte;
    l'«uomo primordiale» è un uomo prigioniero.
    Dopo avermi benedetto,
    gli Anunnaki, i grandi dèi, sedettero a congresso;
    Mammitum, colei che crea i destini,
    ha decretato assieme a loro il destino:
    essi hanno stabilito morte e vita;
    i giorni della morte essi non hanno contato
    a differenza di quelli della vita» (Pettinato, 1993, 45-46).

    IL RITO

    La struttura del rito

    La parola rito (dal latino ritus) risale alla radice indoeuropea *ar, di cui si ha una derivazione nel greco (ά)ριτμος, numero, e che rinvia alla radice sanscrita rtam, in riferimento a ciò che è misurato e ripetuto. Per questa ragione, oltre al numero, al metro, e alla danza, per estensione essa indica il carattere periodico di un processo o di un avvenimento (dalla stessa radice deriva ars, arte, che indica appunto la mimesi, la ripetizione del reale).
    Da questo significato proviene il senso forte della parola: designa una forma ordinatrice del mondo, fondata sul divino, ripetuta per rafforzare quell'ordine. Da questo significato originario dipendono gli altri sensi, più deboli, della parola, che indicano: un atto religioso compiuto secondo un preciso cerimoniale, il cerimoniale stesso nel suo carattere formale; quindi una consuetudine caratterizzata da uno schema di reiterazione e, in senso largo, ogni atto o complesso di atti la cui realizzazione dipende dalla applicazione di norme codificate, come nel caso della prassi giuridica.
    Dal punto di vista strutturale sono dimensioni costitutive del rito la convenzionalità, la ripetizione, l'efficacia reale. L'azione rituale, infatti, presenta sempre un sistema di norme codificato; è costituita da un tempo ciclico, che si reitera continuamente sempre identico ma sempre diverso; è caratterizzata dal fatto che la partecipazione trasforma profondamente chi vi prende parte restituendolo a se stesso, tuttavia diverso da come era prima.
    Questa struttura nei suoi elementi costitutivi denota la presenza di tutti quei tratti che abitualmente caratterizzano uno scambio comunicativo. C'è anzitutto una fonte del rito, il fondatore, colui che ne ha fissato il valore simbolico e destinato alla comunità la ripetizione (come Cristo in rapporto al sacrificio eucaristico). Tale ripetizione viene materialmente resa possibile da un emittente che, depositario del sacro (è abitualmente un individuo investito del carisma di rendere presente il sacro alla comunità), pone in essere una serie di passaggi rituali, assunti in un progetto istituzionale, codificato dall'uso, al fine di riattualizzare il gesto istitutivo posto originariamente dal fondatore. La codifica di tale messaggio consiste nel processo di simbolizzazione mediante il quale vengono resi visibili, udibili e tangibili credenze, idee e valori, sentimenti e disposizioni psicologiche: è grazie a tale processo che viene reso pubblico ciò che è privato, sociale ciò che è personale.
    La riattualizzazione simbolicamente connotata è il messaggio della comunicazione rituale: alla comunità viene consentito il ricupero di un'eredità originaria, da cui può trarre nuova vitalità. Proprio la comunità che partecipa al rito ne è il destinatario. Infine, il messaggio rituale non viene scambiato se non all'interno di un contesto spazio-temporale:
    lo spazio del limen, della soglia, propria di un luogo sacro, separato dallo spazio quotidiano;
    il tempo forte, di separazione, di sospensione del quotidiano, come nei riti di passaggio o nelle festività del calendario liturgico.

    Rito e comunicazione

    Se ora ci interroghiamo sugli effetti di una simile esperienza ci accorgiamo che, anzitutto, nell'attività simbolica propria della situazione rituale converge sì l'elemento creativo, specifico della natura e del comportamento umani, in cui si esprimono la singolarità e la irreperibilità delle manifestazioni individuali, ma soprattutto si rende manifesta una forte intenzione comunicativa nella volontà di assicurare la trasmissione, nel tempo e nello spazio, degli elementi più significativi di una cultura tra individuo e individuo, contribuendo alla coesione della struttura sociale. Alla radice di questa intenzione si trova l'esigenza della comunità di ripresentare vicende, miti e tradizioni per poterli conoscere (e far conoscere) a livello più profondo: rappresentare un complesso mitico o un'esperienza che appartiene al gruppo, non significa soltanto recuperarla alla coscienza, ma riattualizzarla, riviverla alla luce del presente, riscoprendone le potenzialità latenti.
    Chi compie un rito religioso con consapevolezza credente legge in quel rito l'iniziativa operante di Dio.
    Il rito è simbolo e perciò rievocazione. Ma il rito per il credente che lo compie o vi partecipa è anche ri-petizione di un gesto archetipo che Dio ha compiuto e che oggi si ripropone in tutta la forza e l'efficacia del gesto primordiale.
    Un accenno alla celebrazione eucaristica è dimostrativo.
    Gesù è l'evento del Cristianesimo. Il momento più alto della sua vita è preannunziato nella cena di addio, consumata in una piccola cerchia di amici - i fedelissimi, quelli che erano stati con Lui fin dall'inizio -. In quella sala, messa a disposizione da un gesto ospitale (Mt 26,18), Gesù interpreta e rivela il senso della sua vita e dell'offerta con cui si appresta a suggellarla. E invita a farne memoria.
    È una consegna. Quel rito eloquente e misterioso si scolpisce nella memoria del piccolo drappello. Lo porteranno dovunque: lo tramanderanno come il «testamento» del Signore. Per farne «memoria» i credenti di ogni lingua e di ogni tempo si ritrovano; proclamano la comunione con il Signore, ne attendono il ritorno, ne propongono il messaggio; vi trovano la ragione di unità, più grande e definitiva delle differenze che li distinguono.
    L'eucaristia, specialmente nella celebrazione domenicale, è il rito della comunione fra i cristiani: il simbolo più alto della partecipazione alla sorte e all'eredità del loro Signore, della sua presenza fra loro: perenne richiamo all'unità e alla disponibilità operosa.

    IL SIMBOLO

    La funzione del simbolo

    L'oggetto specifico della ricerca religiosa non ha per sé espressione diretta e proporzionata. Il linguaggio lo esprime in dimensione evocativa, allegorica, simbolica - cioè sempre indiretta e allusiva.
    Su questa traccia la religione avverte e segnala dimensioni alternative e irriducibili al linguaggio scientifico, come è stato sottolineato. In quanto poi la religione si porta non sul versante dell'interpretazione razionale, ma del rapporto esistenziale a tu per tu con Dio, è ulteriormente concentrata sulle condizioni del dialogo personale, come nostalgia, trepidazione nell'attesa; ma anche imprevedibilità e gratuità nella risposta.
    Se considerazioni come queste sono pertinenti per la religione come tale, lo sono in misura eminente nel cristianesimo, dove Dio s'è manifestato in forme paradossalmente sconcertanti.
    La religione cristiana di fatto, in quanto rivelata, è al suo nocciolo esperienza singolarissima di incontro in tanta parte sproporzionato e alternativo anche alla ricerca strettamente razionale. Esplora cioè un rapporto interpersonale con Dio, su cui spesso la ragione è tenuta in iscacco. Da questo punto di vista il linguaggio esistenziale, razionalmente legittimato nei suoi presupposti, risulta spesso sconcertante e imprevedibile nei suoi esiti.
    Resta singolare il fatto che la rivelazione, anche dove parla di Dio, del suo disegno sull'uomo, del Regno cui è destinato, lo faccia in parole familiari e semplici: la Bibbia è questa straordinaria dimora dove l'uomo - semplice o dotto - si trova a casa propria: è la patria, dove l'uomo si sente conosciuto e accolto.
    L'intera vicenda di Dio fra gli uomini è una storia per lo più semplice e disadorna. E però la vicenda che Dio vive. Questo significa che la cornice consueta e familiare nella quale egli opera e si esprime è sovraccarica di valore e di senso. L'evento va sconfinatamente al di là del fatto. E perciò il fatto va interpretato e lo sforzo dell'interprete cerca nel fatto la pienezza dell'opera e della presenza di Dio: il senso dell'evento. Che di per sé nessuna parola umana è in grado di esprimere adeguatamente; tutt'al più può tentare di evocare, di lasciar presagire...[32]
    E dato che evento, significato, disegno provvidente non sono mai del tutto e adeguatamente espressi dalle categorie umane, il linguaggio cerca il simbolo, l'allegoria, la parabola: ricorre ad elementi evocativi e allusivi.
    Cosicché tutta la lunga diatriba sulla «demitologizzazione» e la sua recente revisione si rivela esposta ad un radicale fraintendimento.[33] In quanto sposta il perno della ricerca dal riferimento fantastico - mito - all'evento storicamente documentabile - storia -, riporta le origini cristiane al loro asse. Ma in quanto intende stringere in termini precisi e razionalmente comprensibili l'evento che riguarda in particolare la vicenda di Gesù, trascura il dato fondamentale della fede rivelata, che scorge in Gesù la manifestazione umanamente piena di Dio. Proprio questa manifestazione di Dio nella vicenda di Gesù impegna il linguaggio in un'interpretazione che lo trascende; cui potrà dare solo parziale risonanza, ricorrendo agli strumenti allegorici e simbolici di cui dispone.
    In questo senso, lungi dal denunciare il simbolo, l'allegoria, il mito, l'evento Gesù li fonda e li esige (Ebeling, 1972). Il linguaggio religioso s'impoverisce vistosamente quando presume di ridursi alle categorie razionali. Il che non significa che la ricerca teologica e antropologica, anche come discipline peculiari in ambito rivelato, non debbano ricorrere a categorie razionalmente rigorose: purché non presumano di esaurirvi la risonanza dell'evento, né di esprimerlo adeguatamente. E quanto dire che sono in obbligo di riconoscere piste molteplici di accesso e di interpretazione della rivelazione; e dunque tenute a riconfrontarsi seriamente con il dato storico, con la celebrazione simbolica, con la proiezione mitica. Richiami che trovano del resto ampio consenso nell'esegesi dei testi dell'Antico e Nuovo Testamento.
    Nell'ambito della rivelazione resta inoltre specifico l'aspetto qualificante - storico -: tanto più evidente nei gesti e nell'intera vicenda di Gesù.
    Gesù moltiplica i pani per sfamare una moltitudine. Il discepolo constata con stupore il fatto, riflette sulla rivendicazione successiva di Gesù: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (Gv 6,35).
    Il pane che sfama la moltitudine è solo simbolo del dono di Dio che sazia l'anelito di vita definitiva. Nella tradizione religiosa consueta lo spezzare il pane è uno dei grandi simboli dell'aspirazione umana alla fraternità e alla comunione. Nella rivelazione la distribuzione del pane è segno di una realtà operante e presente per quanto non visibile, né decifrabile. Gesù è realmente fonte e ragione di vita per chi l'accoglie.
    Anche più profonda la distinzione se si guarda alla vicenda complessiva di Gesù. La sua morte e risurrezione rappresentano il nucleo della speranza cristiana e della testimonianza che i primi cristiani sono chiamati a darne.
    Ma per interpretare ed esprimere un fatto inaudito, per rendere comprensibile a sé e agli altri questa fondamentale certezza, gli evangelisti ricorrono a tutto un bagaglio di acquisizioni linguistiche che nella tradizione religiosa aveva rivestito l'ansia e la ricerca di immortalità. Fanno quindi largo uso di linguaggio simbolico e mitico. Si sforzano di adattare antichi miti o frammenti di miti per illustrare il fatto della risurrezione.
    Risulta quindi evidente l'uso del linguaggio allusivo, simbolico, mitico in ogni religione, compresa quella rivelata. Ma risulta anche evidente il diverso procedere del linguaggio sul versante della ricerca umana e della rivelazione di Dio.
    La ricerca religiosa è alimentata da una fondamentale istanza di trascendenza: il linguaggio sopravanza e sospinge in termini evocativi e allusivi l'esperienza.
    La rivelazione invece è anzitutto constatazione di un fatto storico preciso e documentabile. Cerca nella parola umana l'interpretazione e l'espressione sempre inadeguata di una realtà trascendente che si annuncia, opera e si manifesta nella storia; e che tuttavia non può essere «detta» che in linguaggio allusivo, simbolico, mitico. Il linguaggio può descrivere il fatto in forma piena e diretta; e però cerca forme indirette, parziali per esprimerne il senso, per decifrarvi l'evento, in sé indicibile.
    In particolare nello specifico rapporto a tu per tu che caratterizza la fede rivelata, l'incontro dell'uomo con Dio resta un'esperienza singolarissima in cui il linguaggio fa i conti con l'alterità di Dio e l'imprevedibilità del suo intervento: che per lo più il linguaggio non è in grado di decifrare.
    L'esperienza di fede - da Abramo al credente di ogni tempo - è sotto lo stimolo di un confronto a tu per tu con Dio. Come in ogni rapporto interpersonale l'uomo è esposto alla novità imprevedibile dell'altro. Nel caso di Dio l'altro è e resta avvolto di insondabile grandezza. Il linguaggio che tenta di interpretarne la presenza misteriosa e dialogante avverte l'angustia e la parzialità, qualunque accorgimento sappia mettere in atto per portarsi su quella traccia ed esprimere quella presenza.

    Simbolo e comunicazione

    Il linguaggio simbolico appare quindi obbligato in ambito religioso e rivelato. E tuttavia la religione non rappresenta che un'esperienza limite di un uso abituale anche nella consuetudine quotidiana e familiare.
    Recentemente l'analisi del simbolo ha percorso e va percorrendo piste molteplici con apporti assai significativi dai più diversi versanti, dalla filosofia alla teologia, dalla psicologia del profondo, alla psicanalisi. Qui, in coerenza con l'esposizione proposta, vengono richiamati alcuni aspetti che s'impongono in ambito fenomenologico ed ermeneutico.
    Le esperienze più semplici e profonde che si vivono ogni giorno si raccolgono in gesti carichi di significato allusivo. Una stretta di mano accompagna una promessa, ci si siede alla stessa mensa in segno di fraternità, un sorriso può esprimere la gioia dell'incontro anche quotidiano...
    Alcuni gesti, semplici in sé, hanno assunto un significato singolarmente impegnativo: entrano in una cornice pressoché rituale; celebrano momenti di pienezza dell'esistenza. La stretta di mano fra due giovani che suggella un reciproco «sì», il banchetto condiviso con gli amici, la festa che canta la gioia, rappresentano un rito carico di evocazione e di promessa. L'imposizione dell'anello sponsale ne porta il simbolo: piccola cosa in sé: evoca un'esperienza d'incontro e proietta un auspicio di solidarietà e comunione per sé definitive.
    Nell'esperienza, consueta o straordinaria, gesti, segni, simboli s'intrecciano per dare volto umano alle più diverse situazioni del vivere quotidiano.
    Nell'esperienza religiosa le cose non vanno diversamente. Tuttavia va tenuta presente la funzione della religione: è sullo sfondo religioso che si elabora la speranza, che prende volto la prospettiva ideale della persona e della collettività.
    Basterebbe prendere in considerazione alcune intuizioni religiose. L'Esodo, ad es., rappresenta una delle matrici dell'esperienza biblica. Come fatto storico è vicenda abbastanza consueta: descrive il progressivo e laborioso compaginarsi di nuclei dispersi della stessa stirpe in un popolo. Lo scontro vittorioso con una grande potenza politico-militare - l'Egitto - ne esalta la fierezza e ne definisce l'identità; che va man mano rinsaldandosi, impone compattezza e disciplina nella rude conquista di una terra che possa considerarsi la patria.
    La fede tenace di questo nucleo in espansione ha alimentato incessantemente la fiducia in un destino migliore; ha sorretto nei momenti non infrequenti dello scacco e della disfatta.
    Ma il ricordo, la rievocazione ricorrente, personale e collettiva, della propria storia, vissuta alla luce di un'antica promessa divina, ha ben presto trasfigurato fatti, sempre più remoti ed evanescenti, in una vicenda epico-religiosa singolarissima, che ha parlato con intensità unica ad intere generazioni di ebrei. L'esperienza dell'Esodo è stata innalzata a simbolo: si è iscritta nella vita e nella cultura di un popolo, ne ha alimentato la rivendicazione alla libertà; resta ancor oggi per chi ripercorre l'esperienza biblica un simbolo che parla con straordinaria forza evocativa.
    La fede religiosa ha contribuito in maniera determinante all'elaborazione di un simbolo, che, a sua volta, ha potuto tener viva per generazioni la stessa fede: ha consentito di attraversare momenti di sventura, di oppressione, di deportazione in massa senza perdere la speranza.
    E evidente che il simbolo - come ogni manifestazione del linguaggio - è una cosa viva che nasce in una certa situazione, la interpreta e la fa parlare. Naturalmente ha bisogno di alimentarsi continuamente in uno scambio significativo con l'esperienza concreta. Il simbolo è la raffigurazione unitaria di un cumulo di aspirazioni e di attese: può alimentare progetti e iniziative della persona, ma anche orientare la solidarietà e l'intrapresa di un popolo.
    Conserva la sua forza evocatrice fino a quando nel rapporto con l'esperienza permane uno scambio fecondo e autentico: il simbolo, nel caso richiamato, alimenta l'esperienza proiettandola sullo sfondo della speranza; ma contemporaneamente dà spessore concreto alla speranza, situandola in un preciso itinerario di libertà. L'intensità e l'efficacia con cui il simbolo opera sul doppio versante sono imprevedibili e possono risultare incomparabili: dipende dalla passione con cui il singolo e la comunità si lasciano interpellare; in quella proporzione lo rendono operante.
    La religione se n'è resa conto da sempre. Si è perciò preoccupata di conservare i propri simboli, di trasmetterli, di rimodellarli per restituirvi efficacia. Il rito è spesso portatore di grandi simboli. Tende a riproporli e a farli parlare alle successive generazioni: una funzione che gli rimane caratteristica anche nella religione cristiana.
    Un accenno ad un rito che la qualifica è dimostrativo.
    La pasqua è il momento centrale della liturgia cristiana.
    La proclamazione del Risorto è l'annuncio risolutivo per l'intera vicenda personale e comunitaria. La celebrazione che si svolge nel cuore della notte del Sabato Santo è carica di simbolismo.
    Il grande fuoco acceso sul sagrato del tempio rievoca lo splendore della risurrezione.
    Da quella fiamma una grande torcia - il cero pasquale - viene accesa e portata trionfalmente all'interno del tempio, immerso ancora nel buio.
    La fiamma e la sua luce viene partecipata a tutti i fedeli.
    Il tempio si illumina. Cristo ha fugato le tenebre della notte; ha debellato le potenze del male; ha vinto l'ultimo nemico: la morte.
    La sua presenza campeggia a lato dell'altare, iscritta nel grande simbolo del cero, su cui vengono incise lettere dell'alfabeto, interpreti della potenza misteriosa che riafferma la vita. Le parole del celebrante ne esprimono il senso:
    «Cristo ieri e oggi
    Principio e Fine, Alfa e Omega.
    A lui appartengono il tempo e i secoli.
    A lui la gloria e il potere
    per tutti i secoli in eterno».
    (Cf Liturgia della luce, nel Sabato Santo)
    La religione, dov'è autentica, cerca la parola, il segno capaci di interpretare ed esprimere la verità di una presenza misteriosa che attraversa e trascende l'esperienza: la «rivela» a profondità altrimenti inaccessibili.
    La rivelazione cerca la parola e il segno per dire lo spessore e la novità di un evento in cui Dio è all'opera; in cui esperienza personale e vicenda collettiva sono testimoni di una straordinaria manifestazione del suo disegno di salvezza.
    La parola come linguaggio umano si fa carico di un appello che trascende l'orizzonte temporale, presagito nel mito, rivisitato e ravvivato nel rito, evocato nel simbolo. Perciò alcuni simboli religiosi hanno parlato e parlano con linguaggio straordinariamente persuasivo: raccolgono voci interiori di appello, evocano eventi decisivi; la riflessione razionale o l'analisi storica potrà verificarne l'autenticità, non sarà tuttavia mai in grado di decifrarne compiutamente lo spessore e il significato.

    NARRAZIONE E COMUNICAZIONE

    È recente l'attenzione portata sulla narrazione, come via privilegiata alla comunicazione.
    Studi e ricerche vi si sono concentrate e hanno evidenziato specifici elementi espressivi della narrazione. Opportunamente la religione va privilegiando la narrazione soprattutto perché il suo linguaggio tende ad essere semplice e diretto; per lo più evocativo.
    Molte pagine religiose sottendono una suggestione singolare, in grado di trasfigurare la realtà anche quotidiana. Tanto che l'arte nelle sue più vibranti manifestazioni ha tentato di farsene interprete e di comunicarne la suggestione: la storia intera dell'arte italiana ne rappresenta una straordinaria documentazione.
    Resta la domanda: donde la forza della pagina religiosa, il suo segreto.
    Per lo più la vita vi viene rappresentata, nella gamma vasta e sconcertante delle sue provocazioni, che toccano gli aspetti più diversi: dal grottesco - come in alcune reazioni del profeta Giona - al drammatico come nella condizione privilegiata e tragica della regina Ester.
    I gesti possono essere semplici come nel caso dell'obolo della vedova (Mc 12,41-44), o magnanimi come nella riaffermazione di fedeltà fatta da un soldato, Ittai, a Davide, spodestato dal figlio e in fuga desolata lungo la valle del Cedron (2 Sam 15,18-22).
    Un incontro fortuito e una conversazione familiare sulla sete e sull'acqua che la estingue possono essere occasione di un richiamo perentorio ad una tradizione atavica e dischiuderne il significato profondo e nascosto.
    Al pozzo di Sichem una donna entra in dialogo sempre più personale e sincero con Gesù.
    Alle allusioni che Gesù va facendo reagisce con fiducia: «So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa».
    Le disse Gesù: «Sono io, che ti parlo» (Gv 4,25-26).
    La pagina religiosa sgorga dalla vita; le parla in forma immediata e spontanea, talora risolutiva.
    Ma non di rado il racconto si porta su temi esistenzialmente coinvolgenti: il dolore, l'immortalità, la sofferenza, l'amore, la morte...
    (Cf quanto già rilevato, parlando del mito, circa il tema dell'immortalità nella saga di Gilgamesh).
    Altra volta è la dignità dell'uomo; ammirata nel fulgore della porpora e celebrata dove la potenza si unisce alla saggezza. Salomone è il re grande e sapiente, vestito di maestà che la tradizione religiosa non ha cessato di evocare. Fino a farne una figura mitica, emblema della dignità dell'uomo.
    Al cui confronto i vari eroi dell'epopea nazionale cedono. Osserva acutamente il pensatore marxista: «... Il nome di Barbarossa ci è stato ripetuto quanto quello di Salomone, la cui immagine regale però, sebbene molto più lontana, è penetrata più tenacemente e profondamente nella fantasia, soprattutto in quella semplice» (Bloch, 1972, 50).
    La pagina religiosa parla con forza incomparabile dove porta il confronto su quella presenza misteriosa, che le religioni hanno chiamato con il nome di Dio.
    La domanda su chi sia, su come celebrarlo, attanaglia la ricerca religiosa fin dai primordi.
    Si può citare ad esempio l'inno a Indra della tradizione ve- dica (Acharuparambil, 1986, 63):
    «Colui che appena nato, come primo fornitore d'intelletto protesse, dio, gli dèi con la sua capacità, all'impeto del quale cielo e terra ebber paura per la grandezza del suo valore, questi è, o genti, Indra.
    Colui che la terra vacillante consolidò, che gli oscillanti monti fermò, che più vasta misurò l'atmosfera, che puntellò il cielo, questi è, o genti, Indra.
    Colui che, ucciso il serpe, fece scorrere i sette fiumi, che le vacche spinse fuori col levar di mezzo Vala, che tra due pietre generò il fuoco, (che è) il conquistatore nelle battaglie, questi è, o genti, Indra.
    Colui dal quale tutte queste (terrene) cose furono fatte mobili, che il color dasa rese soggetto e (rifugiato) in nascondiglio, che, come giocatore vincente la posta, prese le sostanze dal signore rivale, questi è, o genti, Indra»...
    È fantasiosa la molteplicità degli accostamenti per darvi nome e volto; che restano tuttavia misteriosi e sfuggenti.
    Un accostamento interessante resta sempre quello di S. Paolo all'Areopago:
    «Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dèi. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un'ara con l'iscrizione: al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio» (At 17,22-23).
    Il rapporto con Dio può distendersi piano e familiare lungo l'esistenza:
    Giobbe serviva Dio in pace.
    Abramo era un possidente facoltoso e magnanimo.
    Dio sembra accompagnare e secondare la loro felice condizione; anzi garantirla.
    Ma improvvisamente, senza una precisa ragione, il dramma può scuotere l'esistenza e piegarla sotto l'urto della prova.
    Abramo è riconosciuto come il padre della fede, proprio perché la sua fede è stata messa alla prova con tale veemenza da apparire disumana.
    (La pagina di Kierkegaard riportata più sopra a commento della «prova» che Dio gli chiede, è dimostrativa).
    Dio è comunque riportato al cuore dell'esperienza umana. La sconcerta e la verifica: per lo più la chiama ad una novità che può attingere altezze incomparabili; la relaziona ad una realtà sovrana, ultimo e sicuro approdo dell'uomo, qualunque sia la sua condizione, la sua vicenda, il suo destino.
    (Anche qui la pagina di Buber, più sopra riferita, è esemplare).

    IN SINTESI

    Così in questo essenziale excursus sulla narrazione abbiamo in rapidi cenni evocata la forza della pagina religiosa, su diversi versanti della condizione umana.
    E forse abbiamo raccolto sufficienti elementi per abbozzare la risposta alla domanda iniziale: donde la singolare potenza del discorso religioso, che da sempre alimenta la fantasia dell'artista, polarizza la riflessione del pensatore, rinfranca la fiducia dell'uomo.
    La vita è percepita nella sua verità, talora esposta a provocazioni sconcertanti: viene verificata nel suo significato e nel suo approdo. Sempre riportata al confronto con l'unico in grado di misurarla e di salvarla: perciò di conferirvi tutto il valore, di cui nei momenti lucidi e pensosi, l'uomo porta il presagio.

    RICAPITOLAZIONE A MODO DI PARABOLA

    La signoria dell'uomo sulla creazione

    Si può evidenziare il valore della narrazione analizzando ad esempio la descrizione dell'uomo che propone il c. 2 della Genesi; la straordinaria efficacia con cui esprime la signoria dell'uomo sulla natura.
    Fico della Mirandola l'ha riespresso in una narrazione suggestiva, a perno del suo discorso sulla «Dignità dell'uomo», che rappresenta il manifesto dell'umanesimo.
    Qui lo proponiamo nel testo originale, col suo sapore arcaico e tuttavia efficace.
    «Già il Sommo Padre, Dio creatore, aveva foggiato secondo le leggi di un'arcana sapienza questa dimora del mondo quale ci appare, tempio augustissimo della divinità. Aveva abbellito con le intelligenze la zona iperurania, aveva avvivato di anime eterne gli eterei globi, aveva popolato di una turba di animali d'ogni specie le parti vili e turpi del mondo inferiore. Senonché, recato il lavoro a compimento, l'artefice desiderava che ci fosse qualcuno capace di afferrare la ragione di un'opera sì grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la vastità. Perciò, compiuto ormai il tutto, come attestano Mosè e Timeo, pensò da ultimo a produrre l'uomo. Ma degli archetipi non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova creatura, né dei tesori uno ve n'era da largire in retaggio al nuovo figlio, né dei posti di tutto il mondo uno rimaneva in cui sedesse codesto contemplatore dell'universo. Tutti erano ormai pieni, tutti erano stati distribuiti nei sommi, nei medi, negli infimi gradi. Ma non sarebbe stato degno della paterna potestà venir meno, quasi impotente, nell'ultima fattura; non della sua sapienza rimanere incerto in un'opera necessaria per mancanza di consiglio; non del suo benefico amore, che colui che era destinato a lodare negli altri la divina liberalità fosse costretto a biasimarla in se stesso.
    Stabilì finalmente l'ottimo artefice che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l'uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: "Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell'aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu, non costretto da nessuna barriera, la determinerai secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine.
    O suprema liberalità di Dio Padre, o suprema e mirabile felicità dell'uomo a cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole! I bruti nel nascere seco recano - come dice Lucilio - dall'utero materno tutto quello che avranno. Gli spiriti superni dall'inizio o da poco dopo furono ciò che saranno nei secoli dei secoli. Nell'uomo nascente il Padre ripose semi d'ogni specie e germi d'ogni vita. Quelli che ciascuno avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. Se saranno vegetali sarà pianta; se sensibili, sarà bruto; se razionali, diventerà animale celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. Ma se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine del Padre colui che fu posto sopra tutte le cose starà sopra tutte le cose"» (Pico della Mirandola, 1987, 5-7).
    Una narrazione carica di suggestione, ma anche giustamente pensata come celebrazione della dignità dell'uomo.
    Può opportunamente essere posta a conclusione di questo percorso sull'esperienza religiosa: qui viene ribadito con geniale sagacia e semplicità il significato del rapporto costitutivo con Dio; e viene chiaramente indicato l'orizzonte che la religione spalanca sull'uomo e il compito a cui lo chiama.
    Resta così autorevolmente confermata la funzione che lungo l'intero saggio viene attribuita alla religione, chiamata a definire la statura vera dell'uomo, così come Dio l'ha disegnata e come l'aspirazione di ogni uomo pensoso la presagisce.


    NOTE

    [32] L'analisi condotta da J. Ladrière sull'esperienza di fede e il linguaggio che la caratterizza merita attenta considerazione. Cf Ladrière, 1984; soprattutto: vol. 2° Le langage de la foi.
    [33] Si veda in particolare Pannenberg, 1973 e 1983. La revisione è oggi soprattutto portata da ricerche teologiche e bibliche di notevole interesse: significativi ed esemplari gli studi di E. Fuchs e G. Ebeling.


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