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    Verso l'uomo invocante (cap. 5 di: Itinerari per l'educazione dei giovani alla fede)


    5. Verso l'uomo invocante

    Il capitolo quinto propone la prima area di un itinerario globale di educazione alla fede: la progressiva maturazione umana dei giovani per renderli aperti e attenti all'incontro con Gesù.
    Il progetto corre su tre punti di riferimento:
    - l'accoglienza gioiosa della propria vita,
    - la ricostruzione dell'identità personale attorno all'esperienza della finitudine,
    - lo slancio vitale verso una ragione e un fondamento posto «oltre» la vita stessa: l'invocazione.
    Questi sono i movimenti progressivi proposti:
    - da un «sì alla vita» soffocato e disturbato ad un sì riconquistato e motivato,
    - dalla riconquista della soggettività (espressa nel «sì alla vita») alla scoperta della responsabilità e della solidarietà,
    - dalla consapevolezza riflessa dei limiti che attraversano ogni soggettività alla esperienza della finitudine,
    - dall'esperienza della finitudine all'invocazione.


    Accanto a giovani che vivono in disponibile ricerca o che ormai sperimentano la gioia di cercare ancora, perché già afferrati dall'amore di Dio, vivono moltissimi giovani disincantati e disillusi, anche per l'aria di crisi che si respira.
    Troppi giovani hanno ormai addormentato i problemi che la vita inesorabilmente lancia e si ingolfano nel disimpegno o si ubriacano di cose possedute o desiderate. Altri hanno trovato soluzioni alternative, nella droga, nel rischio calcolato e ricercato, nella violenza; e per questi il discorso sul senso sembra ormai chiuso.
    A tutti questi giovani si può parlare in modo convincente del Signore della vita solo dentro una riscoperta e sofferta passione per la vita, capace di riconsegnarli verso il regno di una ritrovata esperienza e ricerca di senso.
    Per fare questo, è urgente attivare itinerari di ricostruzione dell'identità personale, che restituiscano l'uomo a se stesso, lo aiutino a riscoprire la dimensione interpellante dell'esistenza e lo rendano aperto e disponibile verso esperienze nuove.
    Il capitolo propone uno di questi itinerari: un cammino, a movimenti successivi, per abilitare ogni giovane all' «invocazione». Riportato a quel livello pieno di maturità umana in cui il giovane diventa un uomo che sa invocare, egli è davvero restituito alla gioia di vivere, alla capacità di sperare, alla libertà di sentirsi protagonista della propria quotidiana avventura. E così, in questa esperienza vissuta e sognata, può, nella verità, aprirsi all'incontro con il Signore: Dio è indispensabile per la vita di ogni uomo, proprio quando l'uomo è diventato signore della sua vita.

    1. RICOSTRUIRE L'IDENTITÀ DALL'ESPERIENZA DELLA FINITUDINE

    Una costatazione corre facile nelle preoccupazioni attuali degli educatori e degli operatori di pastorale giovanile: molti giovani di oggi vivono frammentati e dispersi; la loro identità risulta debole e incerta.
    L'inquietudine è giusta e doverosa. Quello dell'identità è certamente il problema centrale della maturazione umana e cristiana, come hanno mostrato le riflessioni, fatte nel capitolo precedente, sul rapporto tra qualità della vita quotidiana e vita nella fede.
    In un tempo, come è il nostro, in cui il pluralismo investe profondamente questa dimensione dell'esistenza personale e collettiva, il cammino di crescita nella fede si intreccia con le tensioni culturali che attraversano oggi la stabilizzazione dell'identità e con la qualità dei valori che la definiscono.
    Il problema dell'identità è in primo piano in questo itinerario anche per la meta globale verso cui è orientato. L'invocazione è infatti una di quelle esperienze privilegiate che operano da tessuto connettivo della personalità. Si colloca quindi sul livello dell'identità: ne esige una stabilizzazione minima e verifica i valori attorno a cui viene costruita.

    1.1. La definizione dell'identità in una situazione di complessità

    Tradizionalmente la definizione dell'identità era compito affidato e risolto prevalentemente dalle istituzioni, responsabili della socializzazione e della educazione. I valori su cui costruirla erano assunti per identificazione spontanea. Restava un innegabile lavoro di riappropriazione soggettiva; ma era ridotto ad un riaggiustamento progressivo di quanto veniva proposto.
    Oggi la costruzione e la stabilizzazione dell'identità risente delle profonde mutazioni di contesto.
    Si realizza infatti in un ambiente, caratterizzato da una forte complessità culturale e strutturale e segnato da un intenso pluralismo ideologico. Manca la possibilità di governare il processo attraverso agenzie di riferimento e di controllo. La persona resta sola nella definizione della propria identità e si trova a doversi progressivamente adattare alle norme di agenzie diverse e dissonanti.
    Reagisce alla complessità, rinchiudendosi nel grembo governabile della propria soggettività o, al massimo, di una intersoggettività a corto respiro.
    Non possiamo inoltre dimenticare che una porzione notevole delle giovani generazioni giunge alla maturità senza avere mai avuto una vera esperienza professionale, a causa dei cambi culturali (nuovo modo di pensare al rapporto lavoro e realizzazione di sé) e strutturali (disoccupazione crescente), che hanno investito la correlazione lavoro/identità.
    L'esito di questi dati lo costatiamo ogni giorno, stando con gli adolescenti e i giovani: sta sorgendo, a livello pratico e con una insistita giustificazione anche teorica, un modo nuovo di comprendere e vivere l'identità. Al modello tradizionale, definito come «forte», si contrappone una identità «debole». Il soggetto ha perso la forza e la violenza di una identità conficcata su fondamenti sicuri. Non parla con parole dure e solenni; si esprime invece in termini relativi, problematici, di ricerca.
    L'identità «debole» risulta così più ricca di interrogativi che di punti esclamativi. Chi la vive, non la percepisce come una situazione patologica, che si soffre in attesa di uscirne. Gli serve e gli basta, senza troppi problemi. Non è un'identità in crisi; ma l'identità per un tempo di crisi.

    1.2. L'esperienza della finitudine

    È urgente sperimentare alternative serie. È in gioco la maturità personale e, di conseguenza, la qualità della maturità cristiana.
    L'esperienza, progressivamente conquistata, della finitudine come verità di se stessi, può suggerire un'alternativa.
    Non è facile descrivere la natura e lo spessore culturale di questa esperienza. Come tutte le dimensioni importanti dell'esistenza non supporta le teorizzazioni troppo raffinate.

    1.2.1. Cosa è l'esperienza della finitudine
    L'uomo che vuole possedere la propria vita è posto di fronte ad una alternativa radicale. Può farsi volontà di se stesso, impennandosi in una volontà di potenza, di autoaffermazione, in una pretesa di autosufficienza. Oppure può scoprire che la ragione decisiva della propria esistenza e il fondamento della propria felicità è in un oltre da invocare e da accogliere.
    Questa è l'esperienza che si apre ogni giorno sulla nostra appassionata ricerca di senso: il grido presuntuoso della conquista o le mani alzate nell'invocazione e nell'accoglienza.
    Gesù ci ha raccontato, in una storia concreta, questo modo differente di essere uomini
    «Una volta c'erano due uomini- uno era fariseo e l'altro era esattore delle tasse. Un giorno salirono al tempio per pregare.
    Il fariseo se ne stava in piedi e pregava così tra sé: "O Dio, ti ringrazio perché io non sono come gli altri uomini: ladri, imbroglioni, adulteri. Io sono diverso anche da quell'esattore delle tasse. Io digiuno due volte alla settimana e offro al tempio la decima parte di quello che guadagno" .
    L'agente delle tasse invece si fermò indietro e non voleva neppure alzare lo sguardo al cielo. Anzi si batteva il petto dicendo: "O Dio, abbi pietà di me: sono un povero peccatore!".
    Vi assicuro che l'esattore delle tasse tornò a casa perdonato; l'altro invece no. Perché chi si esalta sarà abbassato; chi invece si abbassa sarà innalzato» (Lc 18, 9-14).
    Il fariseo e l'esattore delle tasse esprimono due esperienze molto diverse in cui realizzare il possesso della vita.
    Il fariseo batte la strada dell'impegno, duro e presuntuoso. Vuole poter guardare Dio negli occhi, quasi alla pari. E gioca la sua esistenza in questo sforzo disperato. È convinto finalmente di esserci riuscito. La sua preghiera è un inno alla potenza della sua buona volontà. Prega per dire a sé e a Dio che non ha ormai più nessun bisogno di pregare. Grida con arroganza la sua autosufficienza.
    L'esattore delle tasse, invece, si trova a fare i conti ancora con il limite che segna la sua vita.
    Come molti di noi, sa di procedere tra entusiasmi e incertezze, in un progetto sognato e mai realizzato. Si scopre capace di perseguire una qualità diversa di vita, anche se costata di restare ancora prigioniero di molti tradimenti.
    Questo condizionamento attraversa inesorabilmente ogni esistenza. Esso è come il limite costitutivo dell'uomo, l'esito invalicabile della vita stessa. L'esattore delle tasse vive, in modo riflesso e consapevole, l'esperienza della sua finitudine.
    Dal profondo della sua verità, sofferta e scoperta, alza al Signore il grido della sua vita. Riconosce di poterlo pregare non perché ha raggiunto la perfezione, ma perché ne ha un desiderio sconfinato.
    Il suo sogno è tanto coraggioso che lo inchioda impietosamente alla sua debolezza e al suo tradimento. Si consegna così a Dio, certo di poter vivere in lui, se diventa capace di confessarlo il Signore della sua vita.
    Verso il suo Dio alza le braccia, per lasciarsi afferrare da lui.
    Riconsegna così a Dio la quotidiana ricerca di fondamento e lo riscopre come la ragione decisiva della propria vita in un profondo atteggiamento di creaturalità.

    1.2.2. Finitudine e vita quotidiana
    La storia del fariseo e dell'esattore delle tasse è la storia della nostra vita quotidiana. Gesù l'ha raccontata per offrirci un progetto di identificazione concreto, sollecitandoci a decidere da che parte vogliamo stare. Avvertiamo di procedere a entusiasmi e a incertezze, in un progetto sognato e mai realizzato. Ci scopriamo capaci di perseguire una qualità diversa di vita, anche quando ci costatiamo prigionieri dei nostri tradimenti. Sentiamo di doverci giocare quotidianamente tra vita e morte, perché appassionati di vita. Questa costatazione, fatta esperienza, è la verità dell'uomo: l'esperienza della povertà, dell'inquietudine, della fragilità, del procedere incerto a tradimenti e a ritorni, in una parola, l'esperienza della finitudine.
    Dall'esperienza della finitudine possiamo cercare di uscire attraverso la saccente presunzione di chi pensa di farcela da solo, aumentando eventualmente la dose dell'impegno e l'esercizio raffinato della sua sapienza. Di finitudine possiamo anche soccombere: quando diventa motivo di disperazione o quando spinge ad ubriacarsi di disimpegno e di frastuono.
    Possiamo però sprofondarci nell'invocazione, in compagnia dell'esattore delle tasse della parabola evangelica.
    Chi sa vivere così l'esperienza della finitudine, come verità di se stesso, sofferta e scoperta, e alza al Signore il grido della sua vita, ritrova la gioia di vivere e la libertà di sperare. Riconosce di poter invocare il suo Signore non perché ha raggiunto la perfezione, ma perché ne ha un desiderio sconfinato. Solo lui è il fondamento, la ragione decisiva della propria vita.
    Convive, nella pace e nella gioia, con la propria finitudine, perché si sente nell'abbraccio accogliente di Dio.
    E così, nell'invocazione che sale dal profondo della sua quotidiana esperienza, accoglie il mistero della propria vita: dice «sì alla vita».

    1.2.3. Finitudine e identità
    L'esperienza della finitudine è antropologicamente matura, perché libera l'uomo dall'arroganza della presunzione; e lo libera dal disimpegno accomodante e rassegnato.
    Ed è nella verità dell'esperienza cristiana.
    Attorno a questa esperienza è possibile ricostruire la propria identità, in modo nuovo rispetto ai modelli correnti.
    Nell'esperienza della finitudine ritroviamo infatti un modello interessante di stabilizzazione di personalità e valori molto positivi su cui fondarlo.

    1.2.3.1. La finitudine come alternativa
    Molti educatori vivono nella nostalgia dei modelli forti e stabili del tempo della loro giovinezza. L'uomo tutto d'un pezzo, che non ha dubbi né incertezze, ed è disposto ad ogni sacrificio pur di restare coerente con le decisioni prese, rappresenta ancora il punto di riferimento delle loro proposte, il sogno mai spento per le loro fatiche. Vivono il loro servizio inquieti e sconfortati, perché costatano quante difficoltà pratiche e resistenze teoriche ostacolino il raggiungimento del loro progetto.
    Sull'altra frontiera sono arroccati i difensori dell'identità «debole», pronti a sostenere che una decisione è matura se il soggetto la esprime come significativa per sé, nel frammento esistenziale in cui si pone.
    La finitudine suggerisce un'alternativa corretta e praticabile.
    Ricostruire l'identità personale dall'esperienza della finitudine, accettata come limite invalicabile della propria umanità e spalancata verso l'invocazione, connota infatti un'esistenza stabilizzata: forte e debole nello stesso gesto. La ricerca di ragioni per vivere e per sperare «fuori di sé», nel coraggio di consegnarsi ad un fondamento, sperato e sperimentato, rende stabile la struttura di personalità del giovane. Gli offre un principio solido e sicuro. Riorganizza l'esistenza attorno a significati e a valori, capaci di funzionare come principio di riferimento e di valutazione per tutte le scelte della vita quotidiana.
    Tutto questo, però, non è legato ad una coerenza interiore e a quel confronto tra valori e decisioni, che può ridurre l'avventura dell'esistenza alle logiche fredde di un elaboratore di informazioni. È invece giocato nel rischio dell'invocazione e nel continuo sbilanciamento verso il futuro, posseduto solo nella speranza e nel sogno.
    L'identità, fondata sulla finitudine aperta all'invocazione, è debole, della debolezza costitutiva dell'uomo; ed è forte, dell'accoglienza alla vita.
    La vita è infatti un evento capace di assicurare l'esperienza di un fondamento oggettivo proprio nella sua espressione pienamente soggettiva. Il gesto, fragile e rischioso, della sua accoglienza è una decisione debole e forte nello stesso tempo, giocata nell'avventura personale della quotidiana esistenza e tutta orientata verso un progetto già dato, che supera, giudica e orienta gli incerti passi della vita quotidiana.

    1.2.3.2. La vita come valore di fondamento
    La ragione e la radice che dà stabilità all'identità personale è dunque un quadro di valori. Non si tratta però di valori astratti e un po' formali. Il valore che raccoglie a grappolo tutti i significati, è l'accoglienza della vita, vissuta e sperimentata come un dono e un impegno.
    Chi pronuncia il proprio «sì alla vita», dal profondo dell'esperienza della finitudine, celebra il dono e assume responsabilmente l'impegno. Costata il nodo tragico dell'incoerenza e della frammentazione esistenziale; e ne cerca una via di uscita, lontana dall'arroganza di chi vuol essere «tutto d'un pezzo», magari con le sole sue forze. Voler vivere è consegnarsi infatti con piena disponibilità ad un mistero che ci sovrasta, accettando una ragione e una logica che ci sfugge.
    Nel «sì alla vita» riconosciamo questa ragione dentro la vita stessa proprio mentre confessiamo che questa stessa ragione è la radice e il fondamento trascendente di ogni desiderio di senso e di consistenza. Accolta e vissuta nell'invocazione, la vita viene sperimentata come abbozzo di un progetto che si perfeziona mentre si attua.

    1.2.3.3. Un primo iniziale decentramento
    Insisto sulla prospettiva che sto delineando e ne sottolineo con passione la maturità anche per un'altra ragione.
    L'anticipo, con rapide battute, in questo contesto. La riprenderò in modo esplicito più avanti, studiando le altre aree del mio itinerario di educazione dei giovani alla fede.
    Per trovare un rimedio alla crisi d'identità, innegabile anche nelle interpretazioni piu benevole, qualche volta prevale la preoccupazione verso l'interno, come se alla crisi si trovassero soluzioni solo riportando le persone allo spazio, vuoto e silente, della propria interiorità. Il divano dello psicanalista è il simbolo più espressivo di questo modello. Alle tensioni e agli squilibri si cerca di reagire, isolando la persona dal suo contesto di vita, valutato sempre con un occhio di malcelata sfiducia. E si intensifica l'apparato della formazione, come rimedio estremo rispetto all'onda montante.
    Quando l'operazione sortisce l'effetto sperato, l'identità rinasce forte e sicura, percorsa da vene reattive e polemiche.
    Non voglio negare la passione educativa dei difensori di questo modello, e neppure ne escludo a priori la praticabilità e l'urgenza, in questo nostro tempo.
    Sono convinto però che sia più facile e più corretto cercare il risultato positivo, spalancando la persona verso la realtà e lasciandosi provocare dal grido della vita che da essa sorge. L'identità può essere ricostruita, con stabilità e significatività, se la persona si decentra sul compito e assume, con progressiva gradualità, servizi e responsabilità.
    L'esperienza della finitudine emerge con più insistenza proprio quando la persona si misura con il dovere di rispondere ad altri della propria vita. Sulla spinta di una solidarietà che diventa responsabilità, la finitudine può così stabilizzare l'identità personale.

    2. MOVIMENTI PROGRESSIVI VERSO IL «SÌ ALLA VITA»

    Ho indicato una meta, preoccupato più di fondarne la correttezza rispetto all'educazione alla fede, che di precisare i contenuti e i movimenti in cui il processo va realizzato. Non posso certo chiudere così la mia proposta. Essa va concretizzata e trascritta sul ritmo progressivo di un cammino di maturazione. Proprio questo è il compito di un itinerario.
    Ho collegato la ricostruzione della personale identità alla capacità di accogliere la vita come dono e come impegno. Per questo l'itinerario, orientato a restituire ad ogni uomo responsabilità e possesso della sua vita nell'esperienza di invocazione, è punteggiato di movimenti destinati ad esprimere un «sì alla vita» in progressiva maturazione.

    2.1. Da un sì alla vita soffocato e distorto ad un sì riconquistato e motivato

    Il primo movimento indica una precisa scelta di campo. Si radica nell'ambito dell'educazione e si sporge, immediatamente, in quello dell'educazione alla fede: la comprensione teologica del mistero dell'uomo nel mistero di Dio pervade, come una scommessa, il terreno della progettazione personale.
    La scelta è questa: possiamo annunciare il Signore della vita solo a chi ha ripreso in mano, con gioia e responsabilità, la propria vita.
    Il primo passo verso la maturità umana e cristiana è perciò il «sì alla vita». Si tratta di una decisione da consegnare ad un fondamento, offerto per dono, che sostiene la nostra quotidiana ricerca di fondamento: da affermare, contro ogni espressione di rinuncia o di disperazione, e da riconquistare, contro ogni esperienza di presunzione e di alienazione. Per questa consapevolezza educativa, il primo movimento oscilla tra la restituzione ad ogni persona del diritto a godere della propria vita, e la sollecitazione ad esprimere un'accoglienza della vita, nel suo esigente spessore.

    2.1.1. Restituire a tutti i giovani il «sì alla vita»
    Può pronunciare un sì pieno alla propria vita solo chi possiede la propria soggettività.
    La riconquista della propria soggettività è un'impresa esigente ed impegnante. Non coincide certamente con quell'amore alla vita che è un fatto spontaneo e naturale, quasi biologico, espressione di un esercizio sfrenato della libertà e collocazione di sé al centro di tutto e di tutti. Pos‑sesso della propria soggettività è invece riappropriazione riflessa, libera e responsabile, degli atteggiamenti del soggetto e delle intenzioni che generano bisogni e desideri. È, insomma, espressione soggettiva della signoria dell'uomo sull'esistente, attraverso l'esperienza e il rispetto di un evento, come è la vita, che misura e giudica ogni pretesa.
    Purtroppo molti giovani esprimono la propria soggettività in un modo assai distorto. La stanno tradendo, mentre sembrano esaltarla, facendo eco alla cultura consumista e permissiva che respiriamo.
    Essi vivono pronunciando dei sì alla propria vita in modo soffocato e disturbato, immersi nel disimpegno, nell'esperienza di nonsenso, nella rassegnazione, nell'autosufficienza. Ricercano esperienze cariche del greve sapore della morte. Sono troppo facilmente disposti a consegnare ad altri la gestione della propria vita.

    2.1.2. Un modo maturo di dire «sì alla vita»
    Educatori ed educatori della fede sono impegnati ad aiutare questi giovani a pronunciare un «sì alla vita» in modo maturo ed equilibrato.
    Non è certo facile decidere con delle affermazioni teoriche, quando il «sì alla vita» è espresso in termini autentici. Ciascuno ha una sua figura, disegnata nel santuario intimissimo della propria personalità. Né può essere espresso una volta per sempre, quasi fosse una decisione, capace di trascinarsi a rimorchio quelle che punteggiano il ritmo quotidiano dell'esistenza.
    D'altra parte non basta certamente assicurare la significatività, personale o collettiva, delle espressioni. In un itinerario verso la maturità umana e cristiana, la vita, con le sue esigenze indilazionabili, fa da riferimento normativo.
    In questa trama complessa di soggettività riconquistata e di oggettività esigente, preferisco descrivere l'obiettivo del movimento, attraverso la proposta di alcuni atteggiamenti. Esprimono bene la riconquista della propria soggettività verso quella esperienza di finitudine che rappresenta, nel mio progetto, il punto di riferimento decisivo del «sì alla vita».
    Spesso la vita e la sua accoglienza sono vissuti come merce di scambio. Diventano cose pattuitili, in vista di conquiste valutate piu impegnative. Qualche volta l'operazione scatta sulla bandiera di valori solenni. Altre volte viene richiesta, quasi come condizione di maturità cristiana. Non poche volte il protagonista stesso si rende disponibile a queste rinunce, per non perdere cose a cui tiene molto. È importante, invece, sperimentare e vivere la propria soggettività come un evento inalienabile.
    Per questo non ci si accontenta di delegare ad altri, cose o persone, la fatica irrinunciabile di misurarsi con le ragioni e i problemi dell'esistenza. Ci si abilita ad una progressiva e pervasiva capacità critica.
    Il «sì alla vita» non è mai il salto nel buio, nell'avventura folle e suicida di chi preferisce ignorare problemi e difficoltà, per sperare di non doverli affrontare. In gioco c'è il senso della vita e l'esperienza di un suo fondamento. Non possiamo cercare ragioni, evincenti con l'evidenza delle formule matematiche: quella del senso è sempre una scommessa, dove i conti non tornano, anche se tutti gli elementi sono stati ripetutamente controllati.
    Nel «sì alla vita» ogni persona si ritrova sola. Misurata con la sua esistenza, la costata capace di fondarne il senso. Il proprio vissuto quotidiano viene sperimentato come il luogo in cui cercare, manifestare e, almeno inizialmente, produrre un senso, capace di risultare il fondamento dei significati che riempiono ogni nostra giornata.
    Infine, come esigenza di un maturo «sì alla propria» vita e come iniziale espressione dell'accoglienza del suo limite, va affermato il desiderio e la capacità di «sfondare il proprio vissuto», aprendosi verso esperienze e attese, collocate «oltre» rispetto a quello che si possiede e si manipola.

    2.2. Dalla soggettività alla scoperta della responsabilità che nasce dalla solidarietà

    Chi ha ripreso in mano, in modo maturo, la propria soggettività, si guarda d'attorno con uno sguardo nuovo. Scopre che l'avventura della vita è giocata in tanti, in un'inflorescenza affascinante di soggettività. E costata quante difficoltà e resistenze rendono difficile per molte persone l'esercizio pieno della propria soggettività.
    La prima costatazione spalanca la riconquista della soggettività verso la coscienza della solidarietà: la compagnia con gli altri diventa gioia di stare assieme e desiderio di condividere. La seconda converte la solidarietà in responsabilità.
    Commento rapidamente queste due dimensioni del secondo movimento.

    2.2.1. La solidarietà
    La solidarietà non è espressione spontanea. Richiede l'apertura verso lo spessore duro dei fatti e la percezione, progressiva e faticosa, del loro significato. Allarga verso una risonanza collettiva e strutturale l'esperienza spontanea dell'essere in tanti e la ricerca immediata dello stare assieme con coloro che ci stanno.
    La consapevolezza della solidarietà sollecita ad una decisione di vita: gli altri sono ospiti graditi della mia esistenza o intrusi pericolosi, da controllare e da ridurre in riserve?
    La direzione verso cui maturare è chiara e impegnativa: l'abilitazione a considerare gli altri come «ospiti graditi» della propria esistenza. Con questo atteggiamento si supera quello stile di esistenza, diffuso e pervasivo, che mette in rapporto con gli altri in termini di competitività e di aggressione: l'altro è sempre un nemico da combattere o da cui difendersi o una preda da conquistare.
    Non basta però la scelta di vivere in compagnia. La maturazione umana e cristiana richiede anche la disponibilità ad accogliere nella propria vita le domande e le inquietudini che gli altri ci lanciano. Con questi atteggiamenti ci impegniamo a far risuonare nella nostra esistenza la voce sommessa della coscienza morale e ci abilitiamo ad ascoltare il grido dell'altro e quello che sale dalla realtà (pace, ecologia, rispetto della natura...) come impegnativo «imperativo etico».

    2.2.2. La responsabilità
    L'esperienza della solidarietà porta così alla responsabilità: la percezione della necessità di dover rispondere agli altri anche di quello che si considera giustamente come proprio spinge a precisi e concreti impegni di promozione personale e collettiva e di trasformazione sociale, per permettere a ciascuno e a tutti la riappropriazione piena della personale soggettività.
    Ci vuol poco a costatare come la logica di questo movimento sia davvero reattiva rispetto a quella dominante. Per noi la solidarietà è a tutto campo e non può essere predefinita sui limiti del gusto personale. E diventa subito responsabilità: condivisione per la reciproca liberazione.
    Con questi atteggiamenti riconosciamo pienamente le dure e affascinanti logiche della «responsabilità»: nessuno può consumare quello che gli appartiene, finché qualcuno soffre la mancanza di ciò di cui ha diritto per vivere. L'atteggiamento non copre solo l'area dei beni economici; attraversa, come è evidente, anche quelli ludici, relazionali, religiosi e culturali.

    2.3. Dalla riconquista della soggettività all'esperienza della finitudine

    Questo movimento rappresenta il punto centrale dell'itinerario, come ho già ricordato nelle pagine che precedono.
    Nel modello antropologico in cui mi riconosco, l'uomo tocca la soglia della sua maturità, quando si riappropria, in modo consapevole e riflesso, dell'esperienza del limite che investe la sua esistenza.
    Certamente esistono molti «limite» nella vita di ogni uomo. Spesso dipendono da cause note e controllabili, anche se non facilmente superabili. Altri, come il dolore, la sofferenza e la morte stessa, dipendono dalla struttura fisica della nostra esistenza. Contro i primi impariamo a ribellarci, eliminandone le radici, dentro e fuori di noi. Con i secondi ci abilitiamo a convivere, per amore di verità.
    C'è però una situazione di limite, che tutti ci pervade e attraversa inesorabilmente la nostra esistenza. Ci inchioda sulla soglia invalicabile della nostra verità. Per questo, rappresenta il momento più alto della riconquista riflessa della quotidiana esistenza, l'esperienza di trovarci giocati tra morte e vita, tra impegno e incertezza, tra entusiasmo e tradimento, in un progetto sognato e mai pienamente realizzato.
    Questa è l'esperienza esistenziale che chiamo «esperienza della finitudine».
    Ne ho parlato a lungo nelle pagine precedenti, per descrivere la meta globale di quest'area del mio itinerario.
    Per conquistare, in modo riflesso e consapevole, l'esperienza della finitudine, dobbiamo imparare a misurarci con i diversi «condizionamenti» in cui siamo immersi quotidianamente. L'impresa non è facile in un tempo in cui troppe persone decidono quali sono i nostri limiti e quali sono i rimedi efficaci per superarli. Ci fanno entrare in crisi violente su ragioni, futili e assurde. E ci nascondono quelle provocazioni che invece dovrebbero inquietare l'esistenza.
    Non basta però la percezione dei condizionamenti.
    Se ne richiede una consapevolezza critica ed equilibrata, decifrando i differenti livelli di responsabilità, tra «natura delle cose», malvagità dell'uomo, malvagità delle strutture. In quest'ambito impariamo a chiamare le cose con il loro nome e non ci lasciamo sedurre dei mille tentativi in cui siamo avvolti.
    Muovendoci in modo maturo nella trama intricata di questi condizionamenti, incontriamo, d'esperienza personale, un limite che inesorabilmente attraversa la nostra esistenza, al centro della libertà nei momenti positivi e in quelli negativi: una tensione verso una verità sognata e mai posseduta, un procedere ad entusiasmi e a incertezze, il mistero della morte che attraversa ogni anelito di vita.
    Questo limite minaccia il «sì alla vita». Riconquistato in modo consapevole e maturo, ci restituisce alla verità dell'esistenza, alla sua grandezza e alla sua povertà.
    Siamo finalmente all'esperienza della finitudine.
    Su questo confine, l'uomo si ritrova «diverso» dalle cose e dagli altri esseri viventi. Entra nel mondo affascinante e misterioso di una vita irripetibile.

    2.4. Dall'esperienza della finitudine alla invocazione

    Il confronto con l'esperienza della finitudine può aprire ad esiti diversi: la disperazione, la rassegnazione, l'autosufficienza, il disimpegno.
    Contro questi modelli affermo invece che l'espressione piu matura dell'esperienza della finitudine è la proiezione verso l'ulteriore da sé, in una intensa domanda di senso, che si protende oltre il confine angusto della propria storia, verso un'esperienza di senso accolta come dono insperato.
    La finitudine viene rivissuta come riconsegna globale di sé all'attesa, alla ricerca, sofferta e tranquilla, alla speranza di incontrare, fuori di sé, le ragioni che permettano di convivere con il proprio limite, in una gioia trepida e attenta. Questa è l'invocazione: un gesto di vita, che cerca ragioni di vita, perché chi lo pone si sente immerso nella morte.
    Attorno all'invocazione impariamo a raccogliere e a riorganizzare tutte le altre esperienze quotidiane. Essa è un po' come l'esperienza del senso. funziona da tessuto connettivo della personale esistenza; non è una delle tante esperienze, ma quella che tutte le riporta verso unità e convergenza.
    Come la domanda sul senso, l'invocazione non è una domanda a carattere intellettuale, che cerca risposte capaci di saturare un giusto desiderio di conoscenze; essa coinvolge direttamente l'esistenza: colui che pone la domanda diventa egli stesso il problema da risolvere.
    L'invocazione è esperienza umana; tutta concentrata dalla parte della domanda, esprime il livello positivo più alto di riconquista della propria umanità, l'esito a cui dovrebbe condurre ogni processo di educazione. Nello stesso tempo, però, l'invocazione è già esperienza di trascendenza. L'uomo invocante si mostra disposto a consegnare le ragioni più profonde della sua fame di vita e di felicità a qualcuno fuori di sé, che ancora non ha incontrato tematicamente, ma che implicitamente riconosce capace di sostenere questa sua domanda.

    Per approfondire l'argomento:

    GIUSSANI L., Il senso religioso, Jaka Book, Milano 1977.
    LÉGAUT M., L'uomo alla ricerca della sua umanità, Cittadella, Assisi 1972.
    POLLO M., Quale uomo. La ricerca di modelli, Piemme, Casale M.to 1985.
    POLLO M., L'animazione culturale dei giovani, Elle Di Ci, Leumann 1987.
    VILLATA G., Itinerario verso Dio nella vita quotidiana, Piemme, Casale M.to 1986.


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