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    La comunità come soggetto nella costruzione e nella realizzazione di un itinerario (cap. 3 di: Itinerari per l'educazione dei giovani alla fede)


    3. La comunità come soggetto nella costruzione e nella realizzazione di un itinerario

    Il secondo capitolo studia gli elementi generalmente valutati importanti per ogni programmazione educativa e pastorale, e suggerisce una loro concreta organizzazione.
    Al termine del capitolo il lettore:
    - conosce quali sono gli elementi di ogni buona programmazione e possiede una comprensione seria del loro contenuto specifico, per poter utilizzare correttamente formule come «obiettivo», «situazione», «metodo», «valutazione»;
    - è impegnato a cercare un'alternativa alle procedure deduttive e a quelle induttive, perché ne riconosce i limiti;
    - sa utilizzare, secondo un modello abbastanza ricorrente, le formule «ideario», «progetto», «programmazione»;
    - ha qualche idea più chiara (almeno dal punto di vista formale) circa la formula posta al centro del libro: itinerario.


    Il soggetto dei processi formativi è la comunità. Lo è di fatto; e lo deve diventare in progressiva consapevolezza e intensità. In questo suo impegnativo servizio, ogni comunità, quella educativa e quella pastorale, diventa «comunità educante».
    La mia ricerca sugli itinerari per l'educazione dei giovani alla fede muove da questa costatazione.
    L'orientamento aveva già ispirato molte delle pagine precedenti. Ora lo riprendo, in modo diretto ed esplicito.
    Preciso, prima di tutto, i termini della questione per liberare la formula «comunità» da quegli equivoci semantici che renderebbero difficile la nostra comunicazione. Sottolineo poi quanto sia urgente, in un tempo di pluralismo come è il nostro, costruire un progetto come spazio di convergenza operativa. Indico infine le condizioni necessarie per rendere una comunità capace di realizzare quello che facilmente le viene riconosciuto sul piano delle affermazioni di principio.

    1. QUALE COMUNITÀ

    La svolta concettuale introdotta nelle istituzioni educative è tutta giocata sul termine «comunità». La parola, però, come tante altre espressioni impegnative del nostro vocabolario quotidiano, non si è ancora liberata dal rischio di amplificazioni scorrette o di utilizzazioni strumentali.

    1.1. «Comunità» contro «società»?

    Nel linguaggio comune è facile contrapporre «comunità» a «società».
    Con il termine «società» sono spesso indicati gli aspetti più esteriori e contrattuali della convivenza umana e della gestione educativa. Sono così sottolineati soprattutto i fini istituzionali, generalmente di natura produttiva. «Comunità» invece esprime l'esigenza di assicurare relazioni interne e rapporti verso l'esterno a carattere realmente personalizzato.
    Il terzo capitolo analizza, attraverso strumenti interpretativi che provengono soprattutto dalla dinamica di gruppo, il soggetto della costruzione e della realizzazione degli itinerari: la comunità educativa.
    La lettura del capitolo fornisce al lettore:
    - un bagaglio fondamentale di informazioni per richiamare in termini precisi formule (comunità, società, corresponsabilità, unità e pluralità...) che, nel linguaggio comune, risuonano spesso in modo vago e generico;
    - suggerimenti operativi per assicurare, attraverso l'analisi dei fenomeni di gruppo e gli interventi adeguati, una progressiva maturazione della comunità e la convergenza dei suoi membri attorno ad un comune progetto.
    Studiando con questo approccio anche la vita della comunità pastorale, viene applicato «sul campo» quel modello di rapporto tra educazione e educazione alla fede, di cui si è trattato nel primo capitolo.
    In questa visione, l'enfasi sulla comunità è motivata sul rifiuto dell'alienazione, dell'anomia, dello sradicamento, dell'isolamento: di tutti quei limiti che sono facilmente attribuiti alle istituzioni massificate, caratterizzate da una razionalità formale di tipo tecnocratico e dalla prevalenza di preoccupazioni organizzative.
    La rigida alternativa tra dimensione comunitaria e dimensione societaria rende instabile e difficile l'equilibrio tra i bisogni funzionali e quelli espressivi, tra efficienza e soddisfazione, tra svolgimento di compiti e arricchimento personale.
    Nasce così una divisione del lavoro e delle attese. La programmazione si spacca tra i tempi in cui si produce cultura e formazione e quelli dedicati al «tempo libero».
    Nei tempi produttivi non c'è spazio per la corresponsabilità. Soggetto formativo è solo chi possiede le informazioni da trasmettere a chi ne è privo o chi ha il potere gestionale, come responsabile dell'istituzione. Nei tempi ludici, invece, si scatena la partecipazione, in una festa che ripaga dei tempi duri destinati al lavoro.
    La gratificazione senza efficienza sostiene e rende vivibile l'efficienza senza gratificazione.
    Nel momento del lavoro senza partecipazione, la comunità diventa solo una etichetta vuota, che copre una gestione educativa spersonalizzata, motivata sulla logica ferrea delle scadenze e dei ritmi produttivi. Quando prevale la gratificazione senza formazione, la comunità assicura solo una copertura, socialmente riconosciuta, al disimpegno professionale e alla consegna rassegnata allo spontaneismo inconcludente.

    1.2. Una nuova immagine di comunità: diversità e convergenza

    So di aver caricato un po' le tinte, forzando al limite le distinzioni. Ho tracciato un ritratto dai contorni duri per sottolineare impietosamente che questo tipo di comunità non è certamente il soggetto della costruzione e realizzazione dell'itinerario formativo.
    Soggetto è invece quella comunità che risulta costituita da un gruppo di persone, diverse per età, cultura, sensibilità, ruoli, in cui scorrono rapporti di profonda solidarietà, capaci di assicurare una vera convergenza dinamica verso obiettivi comuni e condivisi.
    Questa immagine di comunità assicura la presenza di due atteggiamenti egualmente importanti: l'accettazione e il consolidamento della diversità e la definizione di un punto di convergenza.
    Chi concentra nella sua figura la funzione educativa e coloro che invece sono destinatari di questa funzione, conservano le caratteristiche per cui sono di fatto diversi. La comunità sostiene questa diversità: la rispetta, l'incoraggia, la rilancia. Per assolvere a questo compito, agisce come il luogo in cui ciascuno si sente restituito a se stesso, per ritrovare nella verità di se stesso le ragioni e la saturazione di quel bisogno di sicurezza che spingerebbe ad uscire da sé per consegnarsi passivamente all'altro. Nella comunità e attraverso la comunità ogni membro diventa così partecipante attivo e critico della sua storia.
    Non è sufficiente certo il riconoscimento della diversità per assicurare la funzione formativa. Le persone sono chiamate a mettere la diversità al servizio dell'unità per convergere verso un obiettivo comune e promozionale per tutti.
    Questo elemento catalizzatore è dato dalla grande intenzione educativa: ciascuno si sente nella comunità perché vuole educare ed educarsi, offrendo e ricevendo.
    Nell'ambito dell'educazione alla fede questo soggetto, unico e globale, è la Chiesa locale. Essa assolve la sua missione in modalità differenti e specializzate. Per compierla, convergono i diversi carismi e ministeri. Sulla grande causa che essa persegue, tutti si misurano, per mettere le diversità al servizio del Regno, nel dialogo e nel confronto.

    2. UN PROGETTO CONDIVISO PER COLLABORARE

    Non è facile collaborare se alla radice non c'è un progetto comune: un insieme di orientamenti a carattere operativo, che determinano le modalità storiche e concrete di presenza e di intervento.

    2.1. Ciascuno ha il suo progetto

    La difficoltà di collaborazione non nasce dall'assenza assoluta di progetto. Nessuno infatti passa a caso dal silenzio alla parola, dal disinteresse alla responsabilità, dall'inerzia all'azione. Di solito, cambia situazione esistenziale solo chi ha un suo progetto sulla realtà e lo vuole realizzare.
    Certamente non sono necessari quadri di riferimento ad alto potenziale né tanto meno si richiede un profondo indice di consapevolezza. Un «perché» ci deve essere, però, se qualcuno esce dallo spazio protetto del suo mondo interiore e si decide a fare qualcosa di nuovo.
    Le difficoltà stanno altrove.
    È difficile dare per scontato che coloro che si mettono a collaborare, per realizzare qualcosa assieme, abbiano la stessa ragione per farlo. È difficile, per l'imprevedibile ricchezza di ogni persona. Ed è difficile og gi, in modo particolare, per il vasto pluralismo che investe l'esistenza personale e collettiva.
    Quando poi l'oggetto da realizzare assieme coinvolge l'esperienza religiosa ed ecclesiale, le difficoltà crescono, invece di diminuire. Da una parte, infatti, il pluralismo culturale attraversa oggi questa esperienza in termini assai marcati. Dall'altra, poi, l'esperienza religiosa è di natura sua sbilanciata verso la soggettività, perché solo nella confessione personale la stessa fede nell'unico Signore diventa proclamazione per gli altri.
    È difficile collaborare nella comunità, perché risulta arduo piegare la diversità al servizio dell'unità: ciascuno ha il suo progetto e questo non ha nulla da spartire con quello degli altri.

    2.2. Due soluzioni che non risolvono

    La difficoltà non è nuova, anche se si presenta oggi con toni più accentuati.
    Di soluzioni ne sono state sperimentate tante. Alcune funzionano; altre un po' meno.
    Tra quelle che non risolvono il problema ne ricordo due, di quotidiana costatazione: sopperire alla mancanza di condivisione progettuale con un intervento autoritario o potenziando solo la prospettiva relazionale.
    La prima soluzione cerca solo apparentemente una collaborazione. In fondo riconosce soltanto il bisogno di buoni esecutori. Quando si elaborano le scelte e si decidono le prospettive, il progetto di qualche persona funziona come normativo rispetto agli altri.
    La seconda soluzione, quella che ho chiamato di tipo relazionale, è più sottile e più attuale. Non è però meno insoddisfacente, almeno rispetto all'esigenza di collaborazione.
    Ogni progetto si caratterizza e si diversifica su precisi contenuti e sulla loro organizzazione. Quando la diversità ha una radice tanto profonda, la collaborazione è davvero molto difficile.
    Ci sono tempi e persone che amano lo scontro; cercano nella dialettica il punto di fuga verso la verità. In questa situazione risulta più frequente e più spontanea la contrapposizione dura sulle prospettive di fondo e sulle strategie spicciole.
    Altre persone e altre culture sublimano la differenza e cercano una convergenza solo nella relazione. Invece di misurarsi realisticamente sugli elementi che dividono, si cerca irenicamente una convergenza su quelli che unificano. Entra in gioco così prima di tutto l'affettività intersoggettiva, la comune passione per una causa, la coscienza dell'urgenza e della drammaticità delle sfide, la disponibilità a rinunciare presto al proprio punto di vista per un bene superiore.
    Così la collaborazione sembra assicurata eccellentemente. Le divergenze restano però nel sottofondo. Si scatenano facilmente atteggiamenti carichi di forte emotività: l'aggressività verso l'esterno minaccioso o la dipendenza esaltata nei confronti di qualche leader. Questi atteggiamenti fanno dimenticare la crisi che si soffre. Di fatto, però, ripiegano, sempre di più, persone e istituzioni verso l'interno della propria storia, deprimendo pericolsamente ogni capacità progettuale.
    Quando si fa qualcosa assieme, non c'è collaborazione attorno ad un progetto serio, ma solo interscambio affettivo.

    2.3. Dai singoli progetti verso un nuovo progetto

    L'unica via di uscita per superare le difficoltà e le false soluzioni è il confronto sui personali progetti e il lento faticoso cammino verso un progetto nuovo.
    Questo progetto nuovo, comune e condiviso, nasce, per forza di cose, dal confronto e dal superamento dei personali progetti. È frutto di essi, nel dono della diversità; ed è oltre ciascuno di essi.
    Quando nasce un progetto nuovo, tutti risultano davvero «vincitori»: esso è arricchito dai germi di vita che ciascuno ha saputo offrire. Per questo, la diversità risulta un dono prezioso per l'unità e la produzione della vita di tutti.

    2.4. Livelli diversi di collaborazione

    In questa prospettiva è possibile ipotizzare un modello di collaborazione che permetta il cammino dalla diversità verso l'unità.
    La collaborazione si esprime in modo diverso a seconda del momento operativo in cui si colloca. Ne possiamo distinguere tre: l'elaborazione, l'esecuzione e la verifica.

    2.4.1. Nel momento della elaborazione
    Spesso, i grandi orientamenti di fondo, soprattutto quelli su cui si costruisce l'«ideario», sono assicurati da responsabilità carismatiche. In una istituzione scolastica gestita da una Congregazione religiosa, nell'orientamento pastorale di una Chiesa locale o di un movimento ecclesiale, c'è per esempio una responsabilità non pattuibile circa l'ispirazione fondamentale della proposta.
    A questo livello si può parlare di corresponsabilità?
    I grandi orientamenti ideali hanno sempre bisogno di concretizzarsi, attraverso un confronto con il movimento della storia, delle culture e delle situazioni. Il riferimento alle situazioni trascina l'«assoluto» di cui alcuni sono testimoni, verso il «relativo» del qui-ora. Solo così l'ideario diventa progetto.
    Il progetto è sempre qualcosa da costruire in corresponsabilità: tutti coloro che fanno parte della istituzione educativa ne hanno una precisa titolarità (diritto e dovere, esigenze e competenze).
    Il processo si realizza attraverso modelli ermeneutici, come ho raccomandato nel capitolo precedente. Vanno previsti momenti e metodologie adeguate, per rispettare le differenti competenze e responsabilità: la corresponsabilità non è certo sinonimo di livellamento o di libertinaggio culturale.
    L'animazione può suggerire un modello operativo interessante, nel cuore di queste importanti preoccupazioni.

    2.4.2. Nel momento della esecuzione
    La corresponsabilità in fase elaborativa apre e fonda quella in fase esecutiva. Anche a questo livello, dove è certamente molto più ampia e diffusa, corresponsabilità non significa sicuramente livellamento di responsabilità.
    Il progetto si traduce in azione (in forza della programmazione) sulla misura delle differenti competenze e nel ritmo dei diversi interventi.
    Il progetto è unico; è stato costruito in uno sforzo comune e condiviso; su esso tutti si misurano. Tutti sono impegnati a costruirlo, anche se operano su frontiere molto differenti. I gesti che scaturiscono dallo stesso progetto comune e i programmi concreti che li ispirano, sono differenti: corrispondono a sensibilità e urgenze differenti.
    L'unità nel progetto e la differenziazione nelle programmazioni vengono accolte come espressione di ricchezza programmatica e di capacità di incidenza operativa.
    Nasce un modello di corresponsabilità e di collaborazione: pieno sul progetto, articolato e differenziato sulle modalità.
    Per dire le cose in modo concreto, pensiamo ad una comunità ecclesiale impegnata sul territorio, con un suo progetto preciso. La programmazione prevede gesti concreti diversi. Per rispondere alle differenti sensibilità e urgenze, possono andare dalla catechesi all'animazione sportiva. Lo stesso quadro di orientamenti operativi «ispira» il gesto di chi fa la catechesi e quello di colui che anima l'interesse sportivo. Su questa ispirazione comune la corresponsabilità è totale. Tutti sanno di perseguire, con identica passione, la medesima causa. Si sentono corresponsabili solidarmente dello stesso progetto Fanno cose diverse, proprio per servire meglio e più ampiamente la causa comune.

    2.4.3. Nel momento della verifica
    Nel momento della verifica la corresponsabilità si realizza soprattutto al livello del processo che va dal progetto (valori operativi comuni) agli interventi (modalità diversificate di realizzarli). Non si verificano le singole prassi ma la loro congruenza nei confronti del comune progetto.
    Essa è radicata sulla consapevolezza che i valori che fondano la prassi sono comuni e condivisi. Chi li sente come propri, guarda, con speranza preoccupata e operosa, coloro che li stanno realizzando sui diversi fronti. Non intende giudicare quello che viene fatto. Valuta però se quello che viene fatto si porta dentro lo «stile» del progetto e assicura la sua esecuzione.
    Per ritornare all'esempio ricordato poco sopra, chi fa catechesi non indaga su chi fa attività sportiva; né viceversa. Viene rispettata la competenza specifica degli addetti ai lavori. Verifica invece se e fino a che punto il modo di fare catechesi o di animare l'interesse sportivo assicura la realizzazione del comune progetto.

    3. CONDIZIONI OPERATIVE

    Ho delineato soprattutto un processo ottimale: la convergenza di persone, capaci di mettere la diversità al servizio del comune progetto.
    Tutti sanno però quanto sia difficile realizzare questa meta ideale. Ci sono resistenze da superare di natura personale e di natura strutturale. Le prime dipendono da variabili che investono la libertà e la responsabilità di ogni persona. Vanno superate attraverso il richiamo all'impegno e alla disponibilità.
    Le altre, invece, sono profondamente legate a quella situazione nuova, di natura psicosociale, che si scatena quando alcune persone decidono di mettersi assieme. In questo caso, l'appello alla buona volontà personale risulta generalmente insufficiente, perché l'origine delle disfunzioni è collocata ad altri livelli.
    Di queste seconde mi interesso qui: suggerisco alcune condizioni procedurali, per elaborare le resistenze sul piano strutturale.

    3.1. Verifica delle relazioni interpersonali e istituzionali

    Il cammino dalla diversità verso l'unità attorno al progetto viene assicurato dalla capacità di confronto e di dialogo. Lo strumento è quindi una relazione a carattere comunicativo. Non si raggiunge la convergenza sulla gratificazione offerta dalle relazioni interpersonali. Ma, grazie a queste relazioni, viene costruito un progetto capace di creare convergenza.
    In questo modello, la relazione comunicativa ha un peso decisivo. Sulla sua qualità vanno giocate tutte le risorse.
    Il modello non annulla la responsabilità personale né elimina un rapporto centrato sulla persona. Con simili limiti non sarebbe più un servizio educativo. Intende al contrario offrire un contesto che lo inveri e lo amplifichi, utilizzando pienamente la forza di sostegno offerta dalla struttura comunitaria.
    Per raggiungere un obiettivo così importante si richiedono interventi specifici. Ne suggerisco quattro. I metodi sono quelli tipici della dinamica di gruppo: strumenti e tecniche di analisi per una presa di coscienza progressiva dei contenuti e delle strutture comunicative che li fanno circolare.
    Una corretta immagine di sé. Prima di tutto è necessario aiutare ogni membro della comunità a definire una corretta immagine di sé. Questo comporta, da una parte, il confronto tra le percezioni che ciascuno possiede di sé e del mondo e la realtà concreta della propria vita e del contesto in cui si svolge; e, dall'altra, la sottomissione di questo confronto alla riflessione razionale. La comunità sostiene il processo attraverso lo stimolo prezioso delle interazioni, in clima di reciproca fiducia.
    Analisi dei fenomeni collettivi. Inoltre bisogna aiutare ogni membro della comunità a diventare consapevole protagonista dei processi in cui è inserito. Per ottenere questo vengono analizzati con progressiva corresponsabilizzazione i diversi fenomeni collettivi che costituiscono la propria comunità: le interazioni tra i membri, la dinamica decisionale, le strutture di comunicazione e di potere, il rapporto con i dissenzienti, l'integrazione dei nuovi, la pressione di conformità.
    Dinamiche di intergruppo. Vanno stimolate dinamiche di intergruppo. Chiamo «dinamiche di intergruppo» i rapporti che la comunità instaura con altre comunità. Sono scambi importanti perché arricchiscono il patrimonio culturale della comunità e lo aprono verso il nuovo. Non sono però facili, perché ogni gruppo sociale tende spontaneamente a rinchiudersi nel guscio protettivo della propria esperienza o ad utilizzarla come parametro di valutazione di ogni proposta. È compito dell'educatore aiutare la comunità a percepire l'importanza di questi scambi e a viverli secondo modalità promozionali.
    Partecipazione e decisioni. Infine bisogna operare perché le decisioni che punteggiano la vita di ogni comunità siano il frutto di una reale partecipazione di tutti i membri. Partecipazione significa effettivo contributo personale e non acquiescenza di comodo che dissocia le proprie responsabilità da quelle del gruppo. Tutto questo è possibile solo se ognuno può usufruire della stessa quantità di informazioni e se esiste una reale comunicazione tra tutti i membri, senza il disturbo di strutture autoritarie e censorie.

    3.2. Relazione comunicativa e cambio di atteggiamenti

    Sappiamo tutti che i processi educativi si svolgono attorno al nodo esistenziale degli atteggiamenti: al loro consolidamento, alla acquisizione di quelli di cui si è carenti, al cambio di quelli negativi. Sappiamo anche che uno dei tratti tipici degli atteggiamenti è la loro stabilità. Essi tendono cioè a perdurare: diventano strutture di personalità e risultano quindi difficilmente modificabili. Qui sta la loro forza educativa e il loro limite.
    In una comunità ad alto indice di coesione, la stabilità è sorretta dalle norme. Sono alla base dello sviluppo culturale e della forza propositiva, ma, nello stesso tempo, stanno all'origine della sua conservazione e involuzione.
    Lo strumento abituale per costruire atteggiamenti e sollecitare al loro cambio è la comunicazione di informazioni, proposte, modelli di vita.
    La dinamica di gruppo ci ricorda che l'efficacia del risultato è spesso proporzionata alle modalità con cui si realizza la comunicazione.
    Il grado di cambio di atteggiamenti provocato da nuove informazioni è l'esito di diversi elementi: i fattori situazionali (legati cioè alle caratteristiche della situazione in cui avviene l'informazione), la fonte (il modo cioè con cui il comunicante è percepito dal suo pubblico), il mezzo utilizzato per comunicare, la forma e il contenuto delle informazioni.
    Per stare al nostro tema consideriamo soprattutto il rapporto tra comunicazione e appartenenza alla comunità.
    La comunicazione produce cambio di atteggiamenti se la fonte è considerata della comunità, o perché appartiene di fatto alla comunità o perché è modello di identificazione e di riferimento da parte dei membri.
    Se le informazioni sono contro le norme della comunità, l'ascolto individuale è più efficace rispetto al cambio degli atteggiamenti, perché viene superato il filtro stabilito dalle norme e viene liberata almeno parzialmente la responsabilità personale dalla pressione di conformità.
    L'efficacia rispetto al cambio degli atteggiamenti, infine, è molto condizionata dal tipo di impegno con cui si conclude la comunicazione. Si dà più facilmente cambio degli atteggiamenti se la comunicazione sollecita tutti verso un impegno preciso, concreto, pubblico, facilmente verificabile. Inoltre, l'efficacia è legata al livello di collaborazione richiesto per l'esecuzione dell'impegno: un impegno privato produce meno influsso sugli atteggiamenti di un impegno a carattere collaborativo.


    Per approfondire l'argomento:

    Esperienza di comunità, esperienza di Chiesa. Corso di formazione religiosa permanente, Elle Di Ci, Leumann 1980.
    GODIN A., La vita di gruppo nella Chiesa, Pubblicazioni religiose, Trento 1971.
    GODIN A., Psicologia delle esperienze religiose. Il desiderio e la realtà, Queriniana, Brescia 1983.
    LIÉGÉ P. A., Lo stare assieme dei cristiani tra comunità e istituzioni, Queriniana, Brescia 1979.
    POLLO M., Il gruppo come luogo di comunicazione educativa, Elle Di Ci, Leumann 1988.
    SANTORO F., La comunità condizione della fede, Jaca Book, Milano 1977.


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