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    Educazione e pastorale (cap. 1 di: Itinerari per l'educazione dei giovani alla fede)



    Il nipote di Rabbi Baruch, il ragazzo Jehiel, giocava un giorno a nascondino con un altro ragazzo.

    Egli si nascose ben bene e attese che il compagno lo cercasse. Dopo aver atteso a lungo, uscì dal nascondiglio; ma l'altro non si vedeva.
    Jehiel si accorse allora che quello non l'aveva mai cercato. Questo lo fece piangere.
    Piangendo, corse alla stanza del nonno e si lamentò del cattivo compagno di gioco.
    Gli occhi di Rabbi Baruch si empirono allora di lacrime ed egli disse: Così dice anche Dio: «Io mi nascondo, ma nessuno mi vuole cercare».
    (M. BUBER, I racconti di Chassidim, Milano 1985, 140).

    PARTE PRIMA: ITINERARI PERCHÉ

    Oggi tutti parlano di progetti, di modelli curriculari, di obiettivi e di valutazione. Fino a pochi anni fa, invece, questi termini e i problemi relativi erano veramente lontani dalle attenzioni della maggior parte degli operatori di pastorale. Ogni responsabile, infatti, andava avanti senza preoccuparsi troppo di fare programmazioni; quando le faceva, si affidava soprattutto alla intuizione e alla pratica spicciola.
    Questo modo di fare, considerato nel suo contesto, non meraviglia troppo. Anche nell'ambito strettamente educativo e didattico le preoccupazioni di ordine tecnico erano generalmente assenti.
    In campo pastorale inoltre la fiducia nella presenza operosa dello Spirito di Gesù e la coscienza che la salvezza si costruisce nella storia attraverso dinamismi che sfuggono alle nostre logiche, hanno spesso frenato l'introduzione di innovazioni metodologiche.
    Poi le cose sono cambiate, in un turbinio impetuoso di prospettive. Qualcuno ne è rimasto un po' sconcertato, e ripensa con nostalgia ai bei tempi in cui i problemi sembravano tutti più semplici.
    In molti operatori di pastorale giovanile, invece, i contributi delle scienze dell'educazione, relativi ai modelli di programmazione educativa, sono caduti in un terreno assai disponibile. Predisposti all'accoglienza dal profondo rinnovamento teologico operato dal Concilio, essi hanno vissuto la stagione della «svolta antropologica» nella pastorale, in una sofferta ricerca di corrette e aggiornate metodologie.
    Persino il vocabolario pastorale è cambiato: si è arricchito di una terminologia presa a prestito dalle scienze dell'educazione, della didattica, della comunicazione.
    In questo clima di profonde trasformazioni culturali si incomincia a parlare di progetti e di itinerari anche per l'educazione alla fede.
    Il mio libro ricorda il significato e il limite funzionale di un discorso sull'itinerario. Assume e interpreta con atteggiamento critico l'attenzione delle comunità ecclesiali verso il tema della progettazione pastorale. Si propone di trascinare tutto questo verso ipotesi operative. Nella prima parte riprendo i problemi e le prospettive più generali. Rimando alla seconda parte le proposte concrete.
    Il primo capitolo studia il rapporto tra «educazione» e «educazione alla fede», suggerendo soprattutto quale dialogo instaurare tra le diverse discipline nell'esercizio concreto della programmazione pastorale.
    Il secondo capitolo precisa i termini coinvolti nella ricerca: obiettivo, metodo, valutazione, progetti, programmazioni e itinerari.
    Il terzo capitolo, infine, considera il soggetto di tutta l'operazione: la comunità. Sottolinea le condizioni per abilitare persone e istituzioni a fare progetti e itinerari secondo modelli corretti.

    1. Educazione e pastorale

    Il primo capitolo affronta una di quelle problematiche impegnative che stanno alla base di ogni programmazione pastorale: il rapporto tra educazione e pastorale.
    La sua lettura fornisce la capacità di:
    - riconoscere cosa distingue un atto educativo da un atto pastorale, per poter programmare con competenza interventi specifici nei due ambiti e in reciproco dialogo;
    - decidere, al di là delle frasi fatte e delle battute ad effetto, se e come si può parlare veramente di «educazione» alla fede;
    - stabilire, attraverso un modello concreto, quali sono le condizioni per operare «in uno sguardo di fede» nell'analisi della realtà e nella progettazione.
    Il capitolo propone un modo preciso di vedere le cose, fondato sul criterio dell'Incarnazione. Non è l'unico, nel vasto e complesso panorama dell'attuale riflessione e prassi pastorale. Proposte differenti sono offerte indirettamente anche nel capitolo quarto.


    L'attenzione esplicita ai temi della progettazione e ai processi relativi è recente nell'ambito della prassi pastorale e, nonostante un innegabile crescente consenso, non è davvero generalizzata tra gli operatori. Molte resistenze sono legate ad una preoccupazione giusta e doverosa: la pastorale non può essere rinchiusa dentro gli schemi delle scienze dell'educazione, perché ha obiettivi, strumentazioni e scadenze del tutto originali e può contare, in modo specialissimo, sulla presenza animatrice dello Spirito di Gesù.
    Tutti si rendono conto, dai più critici ai più entusiasti, che non si può risolvere il problema realizzando una specie di divisione del lavoro, quasi ci fosse un ambito affidato alla competenza dell'educatore ed uno riconsegnato alla potenza della grazia di Dio.
    La questione è invece di rapporto: tra due presenze la cui accoglienza è corretta e significativa, solo se risulta piena e globale.
    Di qui la domanda di fondo: negli impegni relativi all'educazione della fede è possibile fare spazio all'educazione e alle sue logiche?
    Nel capitolo mi confronto con questo interrogativo pregiudiziale. Non parlo ancora direttamente di progetti e di itinerari; ma giustifico la possibilità di parlarne in una ricerca sulla pastorale giovanile.
    Mostro infatti, prima di tutto, ragioni e orientamenti di quella prospettiva teologico-pastorale che assume in pieno l'attenzione all'educazione anche nell'ambito dell'educazione alla fede. Indico poi quali condizioni procedurali vanno assicurate per rispettare la qualità pastorale dei programmi e degli interventi.
    Nel loro insieme le riflessioni aiutano a costruire un preciso modello di pastorale giovanile. Nell'attuale panorama ecclesiale esso si caratterizza proprio per l'accoglienza, impegnata e consapevole, dei processi educativi e, concretamente, dei metodi di programmazione.
    Il lettore, reso frettoloso dalla provocazione delle mille cose da fare, che cerca solo suggerimenti pratici e affida ad altri la loro giustificazione teorica, può tranquillamente rimandare la lettura di questo primo capitolo.
    Se lo ritroverà, tradotto in concreto, lungo le pagine degli itinerari. Riletto poi a fine percorso, può restituire consapevolezza riflessa a chi ha apprezzato le soluzioni avanzate.
    Io però preferisco procedere a passi lenti sul terreno della ricerca teologico-pastorale: è troppo importante il problema per accontentarsi di una soluzione non motivata.

    1. IL DIFFICILE RAPPORTO TRA EDUCAZIONE E EDUCAZIONE ALLA FEDE

    Incominciamo dal problema. Chiariti i termini, è più facile trovare prospettive di soluzione.
    L'educazione ha come preoccupazione globale la maturazione della persona nella società, attraverso la proposta di valori, il confronto con modelli e scelte di vita, la gestione equilibrata degli interessi personali e dei rapporti intersoggettivi. Raggiunge il suo scopo quando contribuisce alla edificazione di una personalità capace di attuare, nel vivo della storia personale e collettiva, un'esistenza cosciente, libera e responsabile.
    L'educazione alla fede invece ha come oggetto la proposta, esplicita e tematica, dell'evangelo del Signore, per sollecitare alla sua accoglienza, come unico e fondamentale evento di salvezza. Assolve questo compito utilizzando una struttura comunicativa tutta speciale: la testimonianza della fede vissuta e confessata. Essa è l'unico strumento linguistico adatto per esprimere il mistero di Dio. Infatti, evoca un evento che nessuna parola umana può mai totalmente obiettivare e manifesta attraverso il coinvolgimento personale la veridicità delle espressioni utilizzate.
    Come si vede, educazione e educazione alla fede non sono la stessa realtà né possono certamente essere ridotte l'una all'altra. Le differenze sono sostanziali perché riguardano la natura del processo: la meta, gli strumenti, i modelli comunicativi.
    Sono innegabili però anche i punti di contatto e le interferenze. Alcune sono evidenti: spesso, per esempio, lo stesso soggetto fa educazione e educazione alla fede nei confronti di un medesimo referente.
    Di qui i problemi di rapporto sul versante pratico e su quello teorico.

    1.1. Superamento dell'uso strumentale delle scienze

    Nel passato, anche recente, le comunità ecclesiali e gli operatori pastorali avevano trovato una soluzione radicale alle difficoltà. Veniva costruita una specie di gerarchia logica delle discipline. Alcune stavano al vertice, con diritti valoriali indiscussi; altre svolgevano solo una funzione ancillare. Questo modo di fare non era tipico della sola teologia. Altre scienze lo pretendevano per sé, con la stessa sicurezza. In questo modo, il confronto tra teologia e scienze dell'educazione procedeva secondo modelli funzionali.
    In ambito pastorale, alla teologia (valutata come l'espressione conclusiva della fede) competeva la definizione dei valori, degli obiettivi, degli orientamenti. Alle scienze dell'uomo si chiedeva solo un contributo esecutivo: «come» assicurare meglio il raggiungimento degli scopi predeterminati, «perché» le cose non procedevano come avrebbero dovuto, «quali strumenti» potevano essere elaborati per assicurare meglio il processo.
    Una variante era rappresentata da quel tipo di confronto in cui la pastorale si reputava autorizzata a selezionare tra discipline e dati solo quelli che interessavano i suoi problemi, lasciando ad altri l'utilizzazione complessiva, oppure chiedeva agli esperti un contributo e poi li collocava tranquillamente fuori campo per farsi le sue interpretazioni e per tirare le sue conclusioni.
    Se l'esperto di discipline umane avanzava qualche perplessità procedurale o contestava la pretesa valoriale, non è mai stato difficile trovare sostituti per chi non vuole stare al gioco. Come un mecenate rinascimentale, la teologia dettava le regole dell'arte e si sceglieva gli artisti pronti ad eseguire.
    In tutti questi casi, la collaborazione viene davvero bloccata sul nascere.
    Il Concilio ha introdotto una svolta procedurale, restituendo all'uomo dignità e autonomia nel suo procedere pensoso. «Tutte le realtà che costituiscono l'ordine temporale, cioè i beni della vita e della famiglia, la cultura e l'economia, le arti e le professioni, le istituzioni della comunità politica, le relazioni internazionali e così via, come pure il loro evolversi e progredire, non soltanto sono mezzi con cui l'uomo può raggiungere il suo fine ultimo, ma hanno un valore proprio, riposto in esse da Dio, sia considerate in se stesse, sia considerate come parti di tutto l'ordine temporale» (AA 7).
    Il Concilio riconosce così, a partire da una riflessione sulla fede ecclesiale, la relativa autonomia di ogni scienza. Chiude, in termini perentori, con l'abitudine diffusa di utilizzare, in teologia e in pastorale, le scienze dell'uomo secondo modelli strumentali.

    1.2. Le difficoltà sul piano operativo

    Le affermazioni del Concilio hanno chiarito il problema sul piano procedurale. I rapidi cenni con cui ho descritto il rapporto tra le diverse discipline impegnate nei progetti pastorali, sembrano il racconto di cose d'altri tempi. Le difficoltà restano però su quello operativo.
    La pastorale giovanile si interroga sul tipo d'uomo verso cui finalizzare il suo servizio e in questo si scontra con l'antropologia che offre una rassegna di progetti d'uomo, elaborati nell'ambito culturale di sua competenza. La pastorale non li assume quando li prevede utili o li rifiuta quando sente il dovere di contestarli. Progetti e modelli pervadono già lo spazio operativo della pastorale; essa agisce in una situazione e con persone già segnate e orientate dalla cultura dominante.
    Inoltre, anche nell'esercizio tipico delle sue funzioni (quando cioè celebra i sacramenti, offre l'esperienza di una comunione che è un dono prima di essere conquista e propone la testimonianza autorevole di coloro che hanno il ministero di servire la carità nell'unità), la pastorale sceglie e utilizza metodi, modelli e strumentazioni non direttamente deriva- bili dalla fede, ma di natura chiaramente tecnica e profana. Questi strumenti non sono però neutrali rispetto ai contenuti teologici che intendono veicolare. Si instaura così come un reciproco condizionamento: il contenuto giudica e misura lo strumento, proprio mentre Io strumento lo storicizza e relativizza.
    Veramente la distinzione tra atto pastorale e atto educativo non è mai totale né la sovrapposizione può risultare mai completa.
    Non basta riconoscere l'autonomia relativa delle diverse discipline e neppure è sufficiente ricercare una collaborazione attorno ai problemi comuni. Va definito un modello teorico di rapporto, capace di rispettare, in un unico approccio, le reciproche esigenze. Un segno eloquente dell'urgenza di questa ricerca è offerto dal pluralismo, diffuso in quest'ambito. Nella comunità ecclesiale italiana sono presenti infatti comprensioni differenti del problema e sono praticate soluzioni diverse: nel cap. IV ho raccolto documentazione in proposito.

    2. CRITERI TEOLOGICI PER DEFINIRE IL RAPPORTO

    Il problema del rapporto tra educazione e educazione alla fede è di natura squisitamente teologica. La sua soluzione può scaturire solo da una meditazione approfondita della fonte della nostra esperienza credente, condotta a partire da un criterio capace di elaborare correttamente il pluralismo.

    2.1. La prospettiva della sacramentalità

    La ricomprensione della Rivelazione alla luce dell'Incarnazione - quel criterio teologico che tanto influsso ha avuto nel rinnovamento pastorale in atto - porta a distinguere tra il suo contenuto (il mistero ineffabile di Dio in Gesù Cristo) e il segno storico in cui esso si incarna (le diverse «parole» umane che hanno la funzione di esprimere questo mistero: prima fra tutte l'umanità di Gesù di Nazaret e, in lui, la nostra umanità). Possiamo ancora distinguere, sul piano del processo salvifico, tra l'appello ad una decisione personale, libera e totalizzante (che investe il dialogo diretto e immediato tra Dio e ogni uomo e tocca quelle profondità dell'esistenza umana che sfuggono ad ogni processo educativo) e le modalità concrete in cui si realizza il gioco tra l'appello di Dio e la risposta dell'uomo (modalità che sono sempre di natura educativa e che, di conseguenza, sono oggetto delle scienze dell'educazione).
    Queste distinzioni sono importanti: dal loro esito scaturisce la risposta al problema del rapporto tra educazione e educazione alla fede.
    Introducono infatti la categoria della sacramentalità, come schema cristologico di riconciliazione tra visibile e mistero. Si riconosce di poter giungere al «contenuto» solo passando attraverso il «segno». Il dialogo immediato e diretto di Dio che chiama alla salvezza è normalmente servito e condizionato dalle mediazioni pastorali: tutti quegli interventi che caratterizzano l'azione delle comunità ecclesiali e dei singoli operatori e attraverso cui l'evangelizzazione si esprime. Segno e mediazioni portano al contenuto e all'immediatezza in quel loro spessore umano che è oggetto della ricerca antropologica e degli interventi educativi.
    Se la Rivelazione assume la vita quotidiana e i suoi dinamismi come suo strumento espressivo, il rapporto tra educazione e fede risulta molto stretto.

    2.2. Educazione e annuncio nel processo evangelizzatore

    È interessante ripensare da questa prospettiva la definizione di evangelizzazione suggerita da Evangelii nuntiandi.
    Il documento ricorda la priorità dell'evangelizzazione in ogni atto pastorale. Per evitare facili equivoci, dovuti all'uso di questa espressione molto ricca di significati, dà però una precisa definizione di evangelizzazione (EN 17-24). Per Evangelii nuntiandi l'evangelizzazione è un processo complesso, articolato in differenti interventi.
    Con una schematizzazione utile, gli interventi possibili sono riassunti in tre: la testimonianza, l'annuncio, la celebrazione. Il documento propone chiaramente una descrizione di ciascuno, per evitare cattive letture.
    Testimonianza è un modo di essere presenti nella realtà e la qualità dell'impegno per trasformarla. In questo, si propone come una modalità di vita e di responsabilità, condivisa e compartecipata con tutti gli uomini di buona volontà. È una dimensione «laica». In ambito di pastorale giovanile e in rapporto ai problemi dell'attuale condizione giovanile, testimonianza può essere l'atto educativo e la produzione della cultura, realizzati come espressione concreta di promozione dell'uomo.
    La testimonianza fa nascere domande attorno al senso dell'esistenza, personale e collettiva. A queste domande l'evangelizzazione risponde attraverso l'annuncio. Nell'annuncio il credente dà le ragioni dei gesti di testimonianza che ha posto. Li colloca in un orizzonte di definitività, li interpreta, e, soprattutto, li collega esplicitamente con il mistero del Dio di Gesù Cristo, nella comunità ecclesiale.
    L'annuncio, nella proposta offerta da Evangelii nuntiandi, non è perciò la diffusione di parole, ma la giustificazione attraverso la parola proclamata («dare le ragioni», dice il documento) di un impegno promozionale.
    La terza dimensione dell'evangelizzazione è costituita dalla celebrazione. Certamente il documento pensa alle celebrazioni liturgiche e sacramentali, momento vertice di tutto il processo. Ricorda però anche l'esperienza globale di vita nuova: un clima, respirato e vissuto, che assicura, nell'oggi e per connaturalità, della verità di quanto è proposto per il futuro.
    È importante ricordare che l'Evangelii nuntiandi propone questi tre momenti come dimensioni dell'unico processo di evangelizzazione. Sembra ricordare che solo nella articolazione complessiva il processo è vero. Nessun elemento è previo o va interpretato solo come successivo quasi ci fossero gesti di semplice preevangelizzazione o si potessero progettare interventi con scadenze logiche o valoriali.
    Questa importante prospettiva restituisce alle singole comunità ecclesiali la responsabilità di essere soggetto di evangelizzazione. Al loro interno, tutti collaborano all'unico compito, con interventi e presenze differenziate.
    La diversità non dice mai subordinazione; esprime invece qualità di presenza.
    In questa visione teologica viene suggerita una soluzione molto stimolante del rapporto tra educazione e educazione alla fede. Rispetta la diversità degli approcci, anche se li colloca nell'unica intenzionalità globale.

    3. VERSO UNA SOLUZIONE: L'EDUCABILITÀ INDIRETTA DELLA FEDE

    Abbiamo materiale di riflessione sufficiente per concludere la ricerca sul rapporto tra educazione e educazione alla fede con una proposta. Disegna un modello di pastorale giovanile e la prospettiva globale che ispira la mia ricerca di itinerari di educazione dei giovani alla fede.

    3.1. Non c'è educazione «diretta» della fede

    Prima di tutto è indispensabile affermare che non si dà educazione diretta e immediata della fede.
    La fede si sviluppa sul piano misterioso del dialogo tra Dio e ogni uomo. Questo spazio di vita sfugge ad ogni tentativo di intervento dell'uomo. È l'ambito in cui comunità ecclesiali e operatori pastorali confessano che la fede è «dono», grande e imprevedibile, di Dio.
    L'uomo è solo di fronte a questo dono: lo accoglie in obbedienza disponibile o lo rifiuta, nel gioco suicida della sua libertà.
    La pastorale riconosce la priorità dell'iniziativa di Dio. A lui affida ogni ricerca ed ogni impegno.

    3.2. L'educazione alla fede è indiretta

    L'incontro tra l'amore interpellante di Dio e la libertà e responsabilità di ogni uomo si svolge sul piano misterioso di una immediatezza e radicalità, collocate «oltre» il ministero ecclesiale.
    Il progetto di Dio, come lo conosciamo in Gesù, percorre però il sentiero dell'umanità, concreta e quotidiana. La parola ineffabile del Dio che chiama a vita dall'abisso del silenzio, si fa «parola umana», per risuonare come parola per ogni uomo (DV 13).
    L'«immediatezza» misteriosa del Dio che si fa vicino alla libertà di ogni persona viene così servita, sostenuta, condizionata dagli interventi umani che hanno la funzione di attivare il dialogo salvifico e di predisporre l'accoglienza.
    Questi interventi, formalmente educativi, si pongono dalla parte del «segno». Sono orientati a rendere il segno sempre più significativo rispetto alle attese del soggetto e spingono a verificare le attese personali per sintonizzarle con l'offerta della fede e della salvezza.
    Questo è l'ambito preciso della educabilità della fede. Essa si colloca quindi sul piano delle modalità concrete e quotidiane in cui si sviluppa il dialogo salvifico.
    Nell'azione pastorale l'appello di Dio ad una decisione personale si esprime in modi umani: si fa parola d'uomo per risuonare come parola comprensibile ad ogni uomo, e cerca una risposta personale, espressa sempre in parole e gesti dell'esistenza concreta e storica. Le modalità educative e comunicative che incarnano l'appello, sono oggetto di tutte quelle preoccupazioni antropologiche, che sono comuni ad ogni relazione umana.
    Gli interventi educativi hanno quindi una funzione molto importante nella educazione della fede. Senza di essi non si realizza, in situazione, il processo di salvezza.

    3.3. La potenza di Dio investe anche gli interventi educativi

    Nei due paragrafi precedenti ho descritto due qualità del processo di salvezza. I due momenti (quello misterioso e indecidibile in cui si esprime l'appello di Dio alla libertà dell'uomo e quello delle mediazioni educative) sono espressioni totali della medesima realtà: lo stesso gesto nel‑
    la salvezza può essere contemporaneamente compreso come tutto nel mistero di Dio e tutto frutto di interventi educativi. Ho tracciato così due modalità per delineare il rapporto tra educazione e educazione alla fede.
    Non possiamo però procedere concretamente con questo schema bipolare: mettere da una parte il dialogo diretto tra Dio e l'uomo e dall'altra i dinamismi antropologici in cui si svolge, come se si trattasse di un'operazione da spartire tra due protagonisti. Non possiamo immaginare il processo di salvezza e di crescita nella fede nella logica della «divisione del lavoro»: ciascuno produce il suo pezzo e poi dall'insieme nasce il prodotto finito.
    Bisogna riconoscere, in una fede confessante, la priorità dell'intervento divino anche nell'ambito educativo, più direttamente manipolabile dall'uomo e dalla sua cultura.
    La fede dunque riconosce la grandezza dell'educazione: il fatto cioè che liberando la capacità dell'uomo e rendendo trasparenti i segni della salvezza, libera e sostiene la sua capacità di risposta responsabile e matura a Dio.
    Ma la fede riconosce che anche l'educazione rimane, come tutti i fatti umani, sotto il segno del peccato. La fede dunque deve esprimere un giudizio sull'educazione dell'uomo in genere e, in particolare, sul modello educativo umano che può essere utilizzato nel proporre la fede alle nuove generazioni.
    Questo, in fondo, non è attentato al dovere di rispettare l'autonomia dei fatti umani. Significa invece che l'approccio educativo e comunicativo è giudicato dall'evento al cui servizio si pone.
    Nel nostro caso comporta la costatazione che questo approccio, anche se è legato ad esigenze tecniche, avviene sempre nel mistero di una potenza di salvezza che tutto avvolge: la grazia salvifica possiede una sua rilevanza educativa, certa e intensa anche se non è misurabile attraverso gli approcci delle scienze dell'educazione.

    4. LO SGUARDO DI FEDE

    La realizzazione di un modello di pastorale giovanile come è quello appena delineato, richiede la collaborazione di differenti competenze. Richiede però la disponibilità da parte di ogni disciplina a riconoscere e a rispettare la priorità fontale della fede e del suo progetto.
    Per ricordare questo modo originale di dialogo e confronto, nella tradizione pastorale si usa la formula «sguardo di fede».
    Lo «sguardo di fede» è condizione pregiudiziale per realizzare una riflessione e una azione veramente «pastorale».
    Sulla affermazione di principio non ci possono essere dubbi. Ogni credente sa che solo nella fede gli è possibile interpretare la realtà nella sua verità e progettare qualcosa verso il suo dover essere. Purtroppo però la lunga frequentazione di questi temi li ha caricati anche di un certo sospetto critico. Non sempre l'appello alla fede è risuonato come sollecitazione a percorrere il difficile sentiero verso la verità; troppe volte, al contrario, ha funzionato come una scorciatoia tranquilla e pericolosa. La comprensione della natura della fede stessa ha subito inoltre una innegabile crescita di maturazione, nella coscienza della comunità ecclesiale.
    In questa situazione non basta più l'invito generico a leggere la realtà e a progettare nuovi interventi in uno «sguardo di fede». L'affermazione si giustifica solo se viene compresa in termini lucidi e corretti.

    4.1. La competenza «scientifica»

    Il dialogo non è proficuo quando le diverse discipline «rinunciano» alla loro competenza, per dire cose gradite o per orientare alla soluzione dei problemi nella direzione desiderata. Il confronto risulta invece prezioso solo se ogni disciplina sa portare nella comune ricerca quello che la qualifica, come modello di procedura logica e come risultato parziale.
    L'elemento di giudizio, in questo caso, è la scientificità del contributo e la sua congruenza rispetto al problema; e non la disponibilità a dire cose gratificanti, secondo lo stile dell'intellettuale organico.
    In questo dialogo a carattere interdisciplinare i cultori delle diverse discipline partono da un'ipotesi procedurale comune: in causa non ci sono «discipline», ma «problemi»; e i problemi si affrontano facendo convogliare su essi tutte le risorse disponibili.
    Il problema comune è l'uomo che ricerca ragioni per vivere e sperare.
    La teologia e le scienze dell'educazione si interessano tutte dell'uomo, della sua esperienza di vita, della sua maturazione, anche se ciascuna disciplina lo considera dal suo punto di vista o ne seleziona una dimensione sulle altre.
    Tutte possono riconoscere la tensione verso la sua pienezza di vita, come un punto comune di intersecazione. In esso, i problemi relativi all'educabilità e alla riferibilità a Dio, provenienti da direzioni diverse e tendenti verso direzioni diverse, si attraversano e si coinvolgono.
    Lo «sguardo di fede», a questo primo livello, si esprime perciò come ascolto e condivisione attorno al comune problema dell'uomo e della sua promozione in umanità.
    Certamente, non possiamo restringere il processo ad un semplice gioco di procedimenti scientifici, con l'assurda pretesa di assicurare meglio la fredda oggettività. Qui, come sempre quando c'è di mezzo l'uomo e la sua libertà, una voce in capitolo decisiva va affidata alla sapienza: amore appassionato, condivisione, quadro di valori orientativi, ricerca e invenzione di senso.
    La lunga dimestichezza con l'avventura dell'uomo e con l'esperienza normativa del suo Signore hanno dato alla Chiesa la pretesa di una preziosa «competenza» in umanità. Entra in gioco qui, come contributo sapienziale per una ricerca tutta sbilanciata sul piano antropologico.

    4.2. Il mistero di Dio come lettura profonda di ogni realtà

    Ogni ricerca scientifica risponde solo alle procedure logiche riconosciute dallo statuto epistemologico delle discipline in gioco. Non ci sono giudici esterni, chiamati a validare o a contestare i risultati. L'autonomia va riaffermata con coraggio contro ogni tentazione di ricostruire cordoni di indebita dipendenza di una disciplina da un'altra.
    Si tratta però sempre di un'autonomia «relativa». Relativa, a che cosa? Oggi, molti studiosi di epistemologia della scienza riconoscono il peso determinante delle precomprensioni, di quell'insieme cioè di condizionamenti culturali (legati alla soggettività dello studioso e all'ambiente in cui opera), che precedono e influenzano ogni comprensione.
    Riporto due citazioni, tra le tante: «Il percepire concreto non è distinguibile dal rapporto con cui la soggettività corporea fruisce e stilizza il proprio ambiente. Esso fa tutt'uno con la vita prescientifica che si svolge a livello originario» (M. Merleau-Ponty). «Non appena l'uomo si avvale del linguaggio per stabilire una relazione vivente con se stesso e con i suoi simili, il linguaggio non è più uno strumento, un mezzo, ma una manifestazione, una rivelazione dell'essere intimo e del legame psichico che ci unisce al mondo e ai nostri simili» (A. Ardigò). Le precomprensioni soggettive e i giochi linguistici che utilizziamo, determinano pesantemente la nostra percezione della realtà e la nostra pretesa trasformatrice.
    A questo livello entra in gioco quel mistero teologale che riconosciamo, nella fede, embricato in ogni realtà. Esso si colloca come un'esperienza soggettiva, radicata in una oggettività tanto consistente da sostenere ogni soggettività. È l'ultima precomprensione, quella che segna di sé tutte le altre.
    Non è facile dire, in poche parole, il «contenuto» teologico di questo mistero profondo. Riporta, in ultima analisi, all'evento della pasqua come dimensione costitutiva di tutto il reale. Riconosciamo una solidarietà profonda dell'umanità con Dio in Gesù di Nazaret: l'umanità dell'uomo è ormai altra da sé, perché è stata progettata e restituita alla capacità di essere volto e parola del Dio ineffabile. Affermiamo la presenza di una forza di male, che trascina lontano dalla vita e dal progetto di Dio sulla vita, come trama personale, anche nell'intricata rete dei processi istituzionali e strutturali. Confessiamo una potenza rinnovatrice che sta già facendo nuove tutte le cose, fino a riempirle tutte di questa ansia di vita.
    Questi dati teologici segnano la realtà come in filigrana. Ne rappresentano il tessuto connettivo ultimo e decisivo.
    Non li possiamo riconoscere con la stessa lucida capacità interpretativa con cui elenchiamo fatti e progetti della vita quotidiana.
    Se lo facciamo, ci rendiamo conto di procedere a semplificazioni indebite, a pericolosi cortocircuiti logici.
    La coscienza di questi dati ci fornisce però un quadro di precomprensioni soggettive con cui ci collochiamo sul reale, lo leggiamo, lo interpretiamo e ne progettiamo la trasformazione.
    Lo «sguardo di fede» diventa così l'esplicitazione di alcune comprensioni teologiche, il riconoscimento del loro peso sui dati e sulla ricerca delle cause.

    4.3. Alla ricerca di «sfide»

    Lo «sguardo di fede» qualifica la lettura della realtà, condotta attraverso le strumentazioni specifiche, anche su un altro versante: la definizione delle «sfide», la ricerca cioè delle preoccupazioni prioritarie e specifiche.
    Risponde ad un'altra caratteristica di ogni impegno culturale: l'intenzionalità. Chiamo con questo termine «il fatto che nell'attività conoscitiva del vivente si effettua un'orientazione spontanea, un "indirizzarsi" del soggetto verso l'oggetto, accompagnata da una forma di partecipazione o di identificazione del soggetto riguardo agli oggetti che, pur restando se stessi, diventano anche, in qualche modo, parte del soggetto» (E. Agazzi).
    Gli stessi dati parlano secondo modalità diverse a partire dall'intenzionalità di chi li recensisce o li utilizza. La sua soggettività e il progetto per la cui realizzazione è impegnato, sollecitano a percepire, in modo inedito, problemi (attese che gli vanno deluse) e germi di novità che sfuggono totalmente a partire da altre intenzionalità.
    La pastorale non ha quindi bisogno di programmare ricerche specifiche, quasi per studiare dati e fatti di cui immagina di possedere il monopolio rispetto alle altre discipline fenomenologico-ermeneutiche. Lo fa in via eccezionale, quando intende recensire comportamenti e atteggiamenti originali e specifici. Di solito, invece, utilizza tranquillamente il materiale prodotto a partire da altre preoccupazioni, consapevole che tutta la complessa vicenda dell'uomo rientra nell'angolo di prospettiva dell'educazione alla fede.
    Su questo materiale comune lancia uno sguardo, penetrante e specifico. La pastorale ritrova così i «problemi» su cui si sente interpellata e i segni positivi, da raccogliere e potenziare in vista di progetti nuovi. Tutto questo è molto importante per poter assicurare la qualità pastorale dello studio sulla realtà e della progettazione di interventi trasformativi. L'accento sullo «sguardo di fede» tende proprio a questa preoccupazione.
    La pastorale ha bisogno infatti dei contributi delle scienze dell'uomo e, in concreto, delle scienze dell'educazione, per conoscere la realtà e per percepirne i meccanismi che la muovono. Questi dati non possono servire però come unica premessa del processo, quasi che si potesse instaurare una rigida consequenzialità discendente.
    Sui dati offerti dalle scienze sociologiche, la pastorale interviene a partire dall'intenzionalità teologica che la anima. Legge così la realtà, provocata da alcune domande (di portata metafisica) di cui possiede già una sua iniziale risposta.
    Non pretende di verificare le ipotesi che stanno a monte delle ricerche, perché riconosce l'autonomia delle discipline e la sua incompetenza al riguardo.
    Essa cerca invece di verificare le sue ipotesi, quelle che sono relative al suo progetto. Nello stesso tempo mette in luce quelle dimensioni della realtà che sono rilevanti per il suo progetto e che le sfuggirebbero se il discorso pastorale non si ancorasse correttamente sul reale. Può definire così le strategie più utili da adottare, per consolidare il progetto così come è stato ricompreso in situazione.

    5. LA «SCOMMESSA» DELL'EDUCAZIONE

    Quando facciamo progetti sull'educazione alla fede, tentiamo di dire qualcosa di sensato su un oggetto che non può essere compreso e manipolato in modo esauriente attraverso il solo approccio della scienza e della sapienza dell'uomo.
    Ci troviamo di fronte ad un mistero santo: qualcosa che sta oltre la nostra capacità di decifrazione ( = è «mistero») e che richiede di conseguenza l'atteggiamento del rispetto disponibile, dell'accoglienza incondizionata, del riconoscimento di una alterità radicale (= è mistero «santo»).
    Questo mistero santo è Dio e l'uomo: l'uomo nel progetto di Dio.
    Per parlarne sensatamente dobbiamo accedere, con passo incerto, all'insondabile mistero di Dio e dell'uomo.
    Collochiamo quindi, davanti alla nostra ricerca, un oggetto i cui contorni definitivi ci sfuggono sempre. Sappiamo di avere il diritto e il dovere inalienabile di pronunciare parole su questo mistero santo. Sappiamo però che le nostre parole lo sfiorano appena.
    Riconosciamo il nostro limite, confine invalicabile della scienza e sapienza dell'uomo, dimensione qualificante di ogni nostra ricerca.
    Riconosciamo però di doverci esprimere: scegliere, decidere, progettare. Di fronte al mistero santo di Dio e dell'uomo non possiamo cercare la rassicurazione e il conforto del silenzio. È un mistero da accogliere e da servire, rischiando con coraggio e fierezza.
    L'educazione è la parola, timida e sofferta, di chi sa di non potersi rifugiare nell'oasi tersa della neutralità.
    Impegnata al servizio della causa di Dio nella causa dell'uomo, la comunità ecclesiale fa dell'educazione la sua passione, lo stile della sua presenza, lo strumento privilegiato della sua azione promozionale.
    Scegliendo di giocare la sua speranza nell'educazione, sente di essere fedele al suo Signore. Con lui crede alla efficacia dei mezzi poveri per la rigenerazione personale e collettiva e crede all'uomo come principio di rigenerazione: restituito alla gioia di vivere e al coraggio di sperare, riconciliato con se stesso, con gli altri e con Dio, può costruire nel tempo il regno della definitività.

    Per approfondire l'argomento:

    COUDREAU F., Si puo insegnare la fede? Riflessioni e orientamenti per una pedagogia della fede, Elle Di Ci, Leumann 1978.
    LATOURELLE R. - O'COLLINS G. (edd.), Problemi e prospettive di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1980.
    MIDALI M., Teologia pastorale o pratica. Cammino storico di una riflessione fondante e scientifica, LAS, Roma 1985.
    RAHNER K., Scienze e fede cristiana. Nuovi saggi IX, Edizioni Paoline, Roma 1984.
    SCHILLEBEECKX E., Intelligenza della fede. Interpretazione e critica, Edizioni Paoline, Roma 1975.
    SCHILLING H., Teologia e scienze dell'educazione. Problemi epistemologici, Armando, Roma 1974.
    Teologia, filosofia e scienze umane, Morcelliana, Brescia 1976.
    VECCHI J. E. - PRELLEZO J. M. (edd.), Prassi educativa pastorale e scienze dell'educazione, Editrice SDB, Roma 1988.


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