«Le età della vita»
di Romano Guardini
Una sintesi
Nel libro Le età della vita scritto da Romano Guardini nel 1957 (editrice Vita e Pensiero), l’autore analizza la vita di un individuo prendendo in considerazione le relazioni che esistono tra l’identità di una persona e i vari mutamenti che la medesima persona subisce nel corso del tempo, dovute sia alle variazioni delle condizioni esterne nelle quali l’individuo si trova a vivere, sia alle sue stesse condizioni psicofisiche che cambiano.
A tale scopo suddivide la vita in fasi: la fanciullezza, la giovinezza, l’età adulta, l’età matura e l’età della vecchiaia. La transizione da una fase all’altra non avviene in modo indolore, ma passando attraverso vere e proprie crisi che sono, nell’ordine: la crisi del distacco dal grembo materno al momento della nascita, la crisi della crescita, la crisi legata all’esperienza, la crisi del limite, la crisi del distacco.
Nell’affrontare queste crisi l’individuo può uscire vittorioso, evolvendo nel cammino verso la saggezza oppure uscire soverchiato dalle difficoltà che non è stato in grado di superare, giustificandosi con l’autocommiserazione o facendo riferimento a principi “di comodo”, che in genere lo limitano nella libertà personale, facendogli però credere esattamente il contrario, di essere cioè assolutamente libero.
Guardini, nel capitolo introduttivo, sostiene che i vari mutamenti che l’individuo subisce al passare del tempo non annullano l’unità dell’individuo stesso, ma anzi è proprio l’unità che si afferma nella diversità, che ogni singolo momento – bello o brutto - in cui si vive è unico e non si presenterà mai più, che è proprio l’essere consapevoli della diversità tra i periodi della vita (lui la chiama “tensione dell’esistenza”) ciò che costituisce “ il pungolo che dal profondo ci muove a viverla”.
Le varie fasi della vita non si possono dedurre l’una dall’altra; è per lo più impossibile, ad esempio, comprendere l’atteggiamento di un adulto in base alla condotta dello stesso individuo da giovane. Tutte le varie fasi, vanno vissute appieno al fine di superare le difficoltà che quella specifica fase porta con sè. Guardini non vede un periodo della vita come propedeutico al successivo; rimanendo alle sue stesse parole “ogni fase è qualcosa di peculiare che non si lascia dedurre nè da quella precedente, nè da quella successiva”.
L’uomo non è solamente un individuo biologico, ma ha consapevolezza e responsabilità sulla fase della vita che sta vivendo.
Per spiegare meglio il concetto, Guardini prende ad esempio i fenomeni della memoria (sguardo sul passato) e della previsione (sguardo sul futuro). Lo sguardo sul passato è teso a correlare i vari eventi occorsi (e quindi immodificabili) al fine di comprendere come questi contribuiscano alla realizzazione – o al fallimento – della propria esistenza fino a quel momento; nella previsione si getta lo sguardo su eventi che ancora non si sono manifestati, che possono essere quindi ancora almeno in parte controllati ma che sicuramente saranno diversi da quelli già vissuti.
Il ricordo della memoria non è però sempre esente da errori, anzi, non lo è quasi mai. Difficilmente riusciamo a “ricordare”e correlare nel modo giusto, ad esempio, i momenti della nostra infanzia; è il motivo per cui si hanno delle difficoltà quando si tratta di vedere l’esistenza dal punto di vista del bambino che si sta educando.
Ogni fase, che Guardini definisce una “forma di vita” costituisce una “figura di valore”. Questa si porta appresso un insieme di valori che definiscono l’ambito entro i quali certe azioni devono, possono o non devono essere fatte (ad esempio, al bambino si insegna che deve sapere camminare, sapersi lavare, saper mangiare da solo e in genere“accudire la propria persona” ma non deve prendere a martellate il tavolo da cucina...). Da tali valori ne derivano“i compiti morali di una determinata fase della vita”, che sono differenti per ogni fase, ma che ogni fase successiva non rinnega quelli della fase precedente, rimanendo così in una prospettiva di evoluzione.
La vita nel grembo materno, nascita, infanzia, giovinezza
Nel primo capitolo dell’opera, Guardini descrive la vita infantile a partire dal momento della nascita.
La nascita è comunemente considerata l’inizio della vita: in realtà la vita inizia molto prima, quando si è ancora nel ventre materno. In questo contesto studi scientifici dimostrano uno sviluppo sia fisiologico che psicologico del bambino, la cui vita possiede il carattere distintivo della inconsapevolezza o della non-coscienza.
Da adulti identifichiamo la vita psichica con quella cosciente dimenticandoci che, ad esempio quando dormiamo o quando si è purtroppo in coma, la vita continua in una fase non cosciente, durante la quale gli avvenimenti hanno luogo nell’inconscio. Nello stesso modo può essere vista la vita all’interno della pancia della mamma.
L’istante in cui si viene al mondo rappresenta la prima vera e profonda crisi: il bambino si distacca dal corpo della madre con la quale si trovava in una condizione di “simbiosi” ed acquista una sua individualità. Se tale distacco non avviene nel modo corretto, si possono verificare conseguenze spiacevoli che potranno avere ripercussioni sull’esistenza successiva, non solo in ambito fisico ma anche in quello psicologico.
Al momento della nascita, il bambino dimostra paura (come rivelano studi in campo psicologico, iniziati da Freud) e il modo in cui tale terrore viene superato dipende dall’atteggiamento che hanno la madre ed il padre nei confronti del figlio. E’ chiaro che, in questa fase, sono proprio i genitori ad avere le maggiori responsabilità: i loro compiti etici riguardano le esigenze fisiologiche , il comportamento affettivo e – in definitiva – l’amore che manifestano nei confronti del bambino a partire dal momento stesso della nascita.
Il bambino, dal canto suo, deve abituarsi – poco alla volta - ad una vita “autonoma”: deve imparare a mangiare da solo – non essendo più nutrito dalla madre per mezzo del cordone ombelicale – a camminare da solo – prima era “portato in giro”nel ventre della madre, etc.
Occorre proteggere il bambino dal mondo esterno – che lui vede come ostile - attuando principalmente due strategie differenti.
La prima è messa in atto dai genitori che si pongono da tramite tra il mondo esterno ed il bambino e quindi “traducono” i segnali che provengono dall’esterno in un linguaggio che – seppure può fare sorridere “noi grandi” – è l’unico veramente comprensibile per il piccolo. Il bambino, all’interno di questo “guscio”, che scherma e filtra quanto altrimenti lo investirebbe in modo incontrollato, acquisisce una coscienza della sicurezza.
La seconda è intrinseca alla psicologia stessa del piccolo, che in questa fase non distingue la vita esteriore da quella interiore. Una fantasticheria è qualcosa per lui di molto reale, un gatto ed una bambola sono la stessa cosa. Da questa incapacità di riconoscere il vero dall’immaginario nasce l’attitudine alla menzogna. Manca inoltre il concetto di scopo, di obiettivo da raggiungere e dei mezzi per raggiungerlo, manca infine la coscienza della connessione tra causa ed effetto.
In fanciullo, se è vero che è innocente per quanto riguarda l’immediatezza dei suoi sentimenti, non lo è dal punto di vista morale. Già sin da tenera età fanno capolino istinti come l’egoismo, la mancanza di scrupoli, la crudeltà, etc, che pur essendo naturali in quel contesto, occorre in tutti i modi tenere a freno.
In questo guscio – che è molto pericoloso lacerare - il bambino riesce a conoscere e padroneggiare il mondo a poco a poco. Quando può succedere che si laceri il guscio ? Riprendiamo le parole del Guardini: “Ciò può capitare se i genitori stolti costringono il figlio a crescere troppo presto, e , per esempio, lo inducono a «fare colpo», ad assumere un ruolo preciso, a imporsi, a mentire , etc”.
Se è vero che in tale guscio, il bambino si sviluppa, è altrettanto vero che da esso non si deve lasciare imprigionare, ma deve essere in grado di acquisire una capacità di iniziativa personale. Gli ostacoli al raggiungimento di questo obiettivo sono sostanzialmente due: la indolenza del piccolo con il conseguente interesse a fare perdurare lo «status quo», la tendenza da parte dei genitori a trattarlo come se fosse sempre un bambino. Per questa strada si giunge all’infantilismo, o incapacità ad essere indipendenti.
La crisi della crescita
Man mano che l’involucro in cui il bambino è racchiuso inizia ad aprirsi e man mano che il mondo reale si fa sempre più presente nella sua realtà quotidiana, il fanciullo inizia a distinguere elementi benevoli ed elementi ostili, comportamenti vantaggiosi e comportamenti svantaggiosi, definisce degli obiettivi e mette in atto delle azioni per raggiungerli; inizia a distinguere il bene dal male (e tende a identificare il bene con i comportamenti vantaggiosi ed il male con quelli svantaggiosi, anche se ovviamente non sempre le cose stanno in questi termini).
Poco per volta fa capolino la seconda crisi, quella della crescita, che si fonda su due impulsi fondamentali: autoaffermazione individuale ed istinto sessuale.
Se la autoaffermazione individuale nel bambino era inconscia, istintiva, disordinata, adesso, la consapevolezza di voler essere qualcuno diverso da tutti gli altri, genera la vera e propria crisi. I sintomi di questa fase sono il mettersi in risalto oltre i limiti del buon gusto, ribellarsi “a prescindere” all’autorità, a dire sempre “no”, e più in generale a contrapporsi agli altri semplicemente perché gli altri non sono “io”. Questo mette chiaramente in evidenza l’insicurezza del proprio io, cosa normale in questa fase della vita (ma patologica nelle fasi successive...).
L’istinto sessuale, che comunque è già presente nel bambino in modo anche qui confuso, in questa fase si manifesta in tutta la sua irruenza.
I ragazzi non sono disposti ad accettare i dettami della religione, della morale, dell’autorità. L’educatore dovrà quindi fare in modo che il giovane sia in grado di riconoscere come reale questa nuova condizione, così da poterla gestire in modo corretto e responsabile.
I pericoli nei quali si incorre durante lo svolgersi di questa crisi sono essenzialmente due. Il giovane non riesce a divenire indipendente, persiste a ribellarsi non capendo cosa significhi il conformarsi liberamente alle regole che riconosce giuste: per poter fare tale passo occorre che abbia prima almeno abbozzato in se stesso un codice morale che gli faccia capire cosa sia giusto e cosa sia sbagliato.
In relazione alla vita sessuale, il pericolo è di soccombere all’istinto senza saper giungere all’amore autentico e fare quindi il passo decisivo che lo porterà a divenire genitore.
La giovinezza e la crisi dell’esperienza
La seconda fase della vita: la giovinezza e la successiva crisi dell'esperienza è caratterizzata da aspetti contrastanti. Si configura come un divenire; in essa si inseriscono gli sconvolgimenti provocati sia dal mondo esterno sia dagli stessi cambiamenti che occorrono nella persona in questo periodo. Il giovane è cosciente del proprio io, è consapevole delle proprie forze e sà di doverle utilizzare per la realizzazione di ciò che è importante, ma gli manca l’esperienza per farlo.
E’ il periodo idealistico, dell’incondizionato, del rifiuto del compromesso, del non risparmiare le forze essendo convinti che le idee buone e giuste possono cambiare il mondo. Manca la conoscenza del contesto in cui tali idee dovrebbero essere applicate, la coscienza dell’inerzia posta dal mondo reale all’introduzione del “nuovo”, la capacità di discernere la fattibilità di un progetto. In questo periodo emergono i “talenti precoci”, che però possono essere di breve durata, se non vengono confermati nelle successive età della vita.
Da un così forte senso dell’assoluto, “ubriacati”da così tante energie a disposizione, il giovane è in grado di prendere decisioni su cui si baserà tutto il suo futuro. E’ il momento di scegliere il percorso di studio o di lavoro, di approcciarsi alla persona con la quale – in seguito – si metterà su famiglia, etc. Tali scelte rappresentano dei rischi, in quanto il giovane non ha ancora valutato lucidamente quali sono le proprie reali capacità ed i limiti delle potenzialità in suo possesso, il tutto tenendo conto dell’ambiente circostante.
E’ anche vero che, proprio questa non conoscenza di quanto lo circonda, gli permettere di prendere decisioni che non prenderebbe più in seguito.
Pensiamo a quante volte abbiamo detto, dopo aver portato a termine un progetto con successo (magari dopo aver terminato il corso di studi): “E’ andata bene, ma se avessi saputo prima che la cosa era così laboriosa e difficile, non so se avrei avuto il coraggio di farlo !”. Ed in tutte queste decisioni, c’è sì la possibilità di riuscire, ma anche quella di fallire.
Ci si pone ora la questione del problema etico.
Innanzi tutto chiariamo cosa Guardini intende per compito morale. Il compito morale consiste nella realizzazione del bene, in qualunque fase ed istante della vita.
Il bene si determina solo attraverso una situazione concreta. Nel caso della vita infantile, il bene si determina attraverso differenti valori che si esigono: ordine, pulizia, alacrità, sincerità, obbedienza, etc. Ora, mentre nel caso del bambino, riprendendo le parole di Guardini stesso: «Il valore morale dato in compito alla sua età, cioè il crescere in modo corretto, è affidato in misura decisiva ... agli educatori» con la crescita e con l’avviarsi verso la fase della giovinezza, questo compito deve diventare sempre più un problema prima del bambino e poi del ragazzo.
L’educatore è il difensore degli interessi vitali del fanciullo di fronte agli interessi dell’adulto e deve operare perchè il bambino impari ad inserirsi nel mondo, ma anche chè possa vivere la propria vita di bambino, giocare, leggere le fiabe, etc. Guardini porta come esempio il metodo di Maria Montessori, che da spazio alla spontaneità infantile.
Con la crescita, i valori etici personali (in grado differente da persona a persona) crescono e si sviluppano: amore per la verità, senso dell’onore, fedeltà. Il giovane, a differenza del bambino, mostra quindi un quadro di valori differente (e si assume che tutti i valori “di quando era bambino”:ordine, pulizia, etc... siano stati assimilati).
Il giovane, utilizzando questo bagaglio di valori, deve essere capace di difendersi dagli attacchi del mondo esterno (il “collettivismo”, partiti, media,...) che lo vorrebbero ridurre ad una marionetta che dice sempre di “si” e dagli attacchi del suo stesso io (l’individualismo sfrenato) che lo porta a sopravvalutarsi e a isolarsi dal mondo esterno, rendendolo un essere monadico. Deve, in poche parole, imparare a pensare con la sua propria testa, tenendo conto del reale mondo esterno, senza farsi fagocitare da quest’ultimo e senza implodere in se stesso, diffidando delle “ricette pronte” sia di tipo teorico che di tipo pratico (e con ciò non si intende certamente sponsorizzare l’arbitrio e la mancanza di disciplina).
Si diceva che al giovane manca l’esperienza. Ne consegue che tale esperienza deve – per così dire – “prenderla a prestito” dall’educatore, che rappresenta il modello a cui ispirarsi. L’esperienza dell’educatore viene definita da Guardini come una “istanza etica”. L’altrui esperienza non va accettata “ad occhi chiusi”: serve semplicemente come termine di paragone per poterci costruire “sopra” la propria personale esperienza, raggiungendo così il giusto equilibrio.
Tutto questo porta, poco per volta, il giovane a rendersi conto di non poter fare tutto quello che pensava di poter fare, e fa capolino la seconda crisi, quella legata all’esperienza; anche gli altri hanno le loro idee, con le quali occorre confrontarsi. Si rende conto di quanto siano “poco attuabili” i principi assoluti e di come occorra ridurre l’assolutezza delle pretese. Insomma, sperimenta che cambiare il mondo tutto di un colpo, è impresa molto ardua e per lo più irrealizzabile.
Dal punto di vista personale, realizza che il fatto che egli riconosca una cosa come giusta, non implica necessariamente che egli poi la faccia. Fa conoscenza con la miseria umana; il bilancio etico che egli fa di se stesso è molte volte in negativo. Inizia a comprendere il significato delle parole: mediocrità, quotidianità, la realtà dei fatti, la “routine” della vita quotidiana.
La realtà è quella che è ed occorre riuscire in qualche modo a “maneggiarla”. Ma come ? Semplice (si fa per dire...): con la virtu della pazienza.
Con il colpo d’ariete della esperienza, iniziano a crollare tutte quelle idee utopiche ed assolute sulle quali il giovane si era sino ad allora sostenuto. Occorre quindi elaborare un nuovo schema di vita.
I rischi sono anche qui sempre dietro l’angolo. Se il giovane rimane legato agli schemi assoluti, diventa un dottrinario ed un fanatico, che critica sempre tutto e tutti. Continuerà sempre a cambiare atteggiamento e modus operandi per cercare di compensare la propria incapacità. Continuerà sempre a vivere nel suo “mondo irreale” (adesso potremmo dire “mondo virtuale”, ma al tempo di Guardini la realtà virtuale non la avevano ancora inventata).
Il secondo pericolo è quello di capitolare di fronte alla realtà, di fare quello che fanno tutti, che altro non è che quello che la media degli individui vuole che si faccia. Allora nasce l’uomo il cui unico scopo e “sfondare nella vita”, farsi una posizione e godere di tutto ciò che è materialmente godibile.
Se si verifica una di queste due evenienze, è fallito il passaggio dalla fase giovanile a quella adulta.
Il passaggio avviene in modo correto se si capisce che – stando alle parole di Guardini - «in fin dei conti, ha importanza non il conquistare denaro e potenza, bensì portare a compimento un’opera ricca di valore e fare di se un uomo autentico».
L'età adulta e la crisi del limite
Nell'età adulta l'essere umano – uomo e donna - ha definito e delineato chiaramente il suo carattere e – citando direttamente Guardini – sa “stare in piedi da solo”. Questa capacità gli deriva dall'aver messo a frutto in modo positivo l'esperienza che ha accumulato nelle fasi precedenti della vita, dagli errori compiuti e dagli ostacoli superati. Il carattere è rappresentato dalla capacità di analisi e di sintesi dei dati che provengono da tutte le facoltà attive dell'uomo, che sono: pensiero, sentimento e volontà.
La caratteristica principale dell'uomo adulto consiste nel saper prendere in considerazione i vari aspetti di un evento ed elaborarli in toto, senza trascurare (o facendo il possibile per non trascurare) nessun aspetto che sia effettivamente importante per quell'evento, a differenza delle altre età nelle quali l'uomo è capace di analizzare un solo aspetto per volta, mancando di esperienza.
Proprio per poter meglio dare sfogo a questo carattere, assumono particolare importanza dei valori fondamentali, quali: attenersi agli impegni presi, onore, fedeltà, capacità di discernimento del bene e del male,... che sono – o dovrebbero essere – dei valori ai quali un po' tutti gli uomini dovrebbero riferirsi. Quindi l'uomo che tiene fede a questi valori, inizia a farsi riconoscere come colui di cui si può aver fiducia, in quanto provvisto di una serie di “punti fermi” e ben noti (il contrario di una banderuola al vento), anche se il carattere non ha ancora raggiunto la fase di “maturazione finale”.
Questa è la fase del vigore, nella quale si attenua sì l'irruenza del periodo giovanile, ma le idee che sosteniamo essere quelle che meglio descrivono una realtà correttamente interpretata, vengono portate avanti senza indugio. Facciamo quello che “crediamo” essere giusto (ma che ogni tanto si rivela essere sbagliato, ma pazienza...capita).
Il cambiare spesso atteggiamento, che Guardini lega anche agli eventi del suo tempo in Germania, non può che essere considerato come una caratteristica negativa.
La crisi del limite, che può essere vista sia come una nuova fase di transizione dall'età adulta all'età matura o un approfondimento della prima, inizia quando anche le energie fisiche che vengono spese a sostenere le idee in cui si crede, iniziano ad affievolirsi. Si accumulano le responsabilità ed i carichi di lavoro (vengono portati molti esempi: famiglia, l'esercizio di un lavoro o di una professione, incarichi pubblici,..). Ci si scontra con la difficoltà di mantenere insieme delle realtà che tendono per loro natura a dissociarsi, impiegando sforzi continui e disinteressati e sovente senza alcun sostegno.
Compare il senso del limite, l'esperienza della stanchezza e svaniscono le ultime illusioni (sia quelle giovanili che quelle più mature). Si ha in pratica la sensazione che tutto quello che capita segua un “modello comune” - usando un termine inglese oramai comune, si potrebbe parlare di “pattern based” , in francese reso come “routine” e che un po' di tempo fa si chiamava “tedium vitae”. Da questo sfaldarsi di tutte le illusioni il carattere dell'uomo può diventare:
• scettico e dispregiatore, se non riesce a capire che il senso della vita non si basa sulla quantità, ma – citando testualmente Guardini - sulla “intensità e la forza delle esperienze vissute con tutta la propria sensibilità”, oppure
• lucidamente consapevole della realtà, riaffermando l'accettazione di quei principi che aveva per così dire “scoperto” nella precedente fase dell'uomo adulto, solo che adesso è ben conscio dei propri limiti, ed è disposto ad accettarli.
In quest'ultimo caso, l'uomo non pretende più di “cambiare il mondo”, ma continua a svolgere le sue attività esattamente come prima e , senza lasciarsi scoraggiare dagli insuccessi passeggeri e non cercando quella che in termini moderni potrebbe chiamarsi “la celebrità”, si rende conto che possono essere assai più utili alla conservazione della esistenza umana piccole azioni giornaliere (sul lavoro, in famiglia, in società) che grandi “rivoluzioni”. Qui il carattere giunge a maturazione completa e l'uomo è in grado di dare completa garanzia al prossimo.
Dal numero di persone che hanno queste caratteristiche, si giudica la levatura culturale di un'epoca.
Basti ricordare da una parte Nietzsche, per il quale la domanda “Cristo o Dionisio ?” segna la fine della sua vita “normale” e lo porta in manicomio a Torino; dall'altra a Giovanni Papini, che, dopo aver stroncato un gran numero di filosofi - tra i quali proprio Nietzche (Il crepuscolo dei filosofi), prima scrive un libro (Le memorie d'Iddio) nel quale dichiara che l'uomo può arrivare all'Assoluto ed invita gli uomini a farsi atei ma poi scrive un secondo libro (Vita di Cristo) nel quale riconosce i limiti suoi e dell'uomo in generale: “L'autore di questo libro ne scrisse un altro, anni fa, per raccontare la malinconica vita d'un uomo che volle, un momento, diventar Dio. Ora, nella maturità degli anni e della coscienza, ha tentato di scrivere la vita di un Dio che si fece uomo”.
Due esempi di autori il primo dei quali non ha avuto un buon rapporto con i propri limiti e ... neanche il secondo, ma almeno è arrivato a riconoscerli anche se in età più avanzata ... ed entrambi avevano letto Hölderlin.
La crisi del distacco, l’uomo saggio
Passando gli anni, l’uomo acquisisce da una parte la consapevolezza della caducità delle cose e dall’altro gli avvenimenti non vengono vissuti intensamente come in precedenza. Certamente, la persona continua ad assumersi le proprie responsabilità, svolge i propri compiti, ma sicuramente non con passione e con spontaneità.
E’ il tempo dei bilanci, dei “consuntivi” come va di moda dire in questo periodo; si misura quanto si riuscirà ancora a fare e quanto la vita potrà dare. Il tempo diventa prezioso, tanto più il tempo passa meno ci si aspetta qualcosa dalla vita; o sarebbe forse meglio dire, “qualcosa di diverso” dalla vita: “ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole (Ecclesiaste – Quoelet - 1,9)”.
Avendo la consapevolezza che quanto dovrà capitare non potrà essere così eccezionale, assumono sempre maggiore importanza gli avvenimenti di un tempo a scapito degli avvenimenti recenti.
Se tale crisi viene superata, nasce la figura dell’uomo saggio, ossia di colui che “è conscio della fine e l’accetta”. Accettare in questo caso non significa lasciarsi andare alla disperazione, significa semplicemente essere preparati a quello che dovrà succedere.
La coscienza di “ciò che finisce” fa nascere nell’uomo la coscienza di “ciò che è eterno”.
L’idea è abbastanza complessa, cerchiamo di spiegarla con un esempio. Se noi siamo coscienti di cosa voglia dire “caldo” allora siamo altrettanto coscienti di cosa voglia dire il suo opposto, cioè “freddo”. D’altro canto il “caldo ed il freddo” sono due categorie così generali che ognuno di noi avrà sicuramente una consapevolezza diversa dell’”essere caldo” o dell’”essere freddo”. Se quindi si capisce cosa si intende quando si parla della caducità delle cose e degli avvenimenti, si riesce almeno ad intuire – ognuno a modo suo - cosa sia l’eternità.
L’eternità (una personale definizione dello scrivente che può sicuramente essere o meno condivisa) è l’assenza dinamica del tempo.
L’eterno non ha, per Guardini, connotazioni biologiche. Non siamo eterni perchè trasmettiamo il DNA ai nostri figli, che anzi rappresenta “l’incremento della caducità sino all’intollerabile”. L’eternità non è qualcosa di quantitativo, non è il “tempo infinito”; è la libertà dalla schiavitù del tempo, è l’incondizionato assoluto.
Nel corso della vita siamo soggetti a tutta una serie di limitazioni e di “schiavitù”: dobbiamo mangiare regolarmente e per poterlo fare dobbiamo lavorare e durante l’attività lavorativa dobbiamo scendere a compromessi. Per non parlare poi delle “vere schiavitu’” – che ci andiamo a cercare – quali l’alcool, la droga, etc. Ma il vincolo più grande è proprio il tempo: noi viviamo in un mondo nel quale siamo obbligati a usare verbi ed esprimere azioni al presente, passato e futuro, ad utilizzare concetti di tempo assoluto (alla Newton), di spazio a quattro dimensioni nel quale il tempo è insito nella struttura stessa dell’universo (il concetto di tempo alla Einstein). E in questa dinamicità che noi svolgiamo le nostre azioni. Un “mondo” senza tempo allora è l’incondizionato assoluto, è la liberazione da qualsiasi catena, è “il vedere in faccia l’Assoluto (ossia Dio)”. E’ un mondo nel quale siamo (non saremo o fummo, ma siamo, tempo presente l’unico con il diritto di esistere) quello che con il nostro libero arbitrio abbiamo deciso di essere mentre eravamo in questo mondo.
Non c’è nulla di meglio che la “definizione” di uomo saggio data da Guardini stesso: “l’uomo saggio lascia trasparire il senso delle cose,...non diventa attivo, bensì irradia. Non affronta con aggressività la realtà, non la tiene sotto stretto controllo, non la domina, bensì rende manifesto il senso delle cose e, con il suo atteggiamento disinteressato, gli da una efficacia perticolare”....e sappiamo tutti benissimo – per diretta esperienza personale – che se qualcuno ci da un consiglio in modo realmente disinteressato, quel consiglio sicuramente ha maggior valore.
Nel caso in cui l’uomo non sia in grado di superare la crisi del distacco, ci troviamo di fronte all’anziano “che vuole rimanere sempre giovane”, che è geloso delle persone più giovani solo per il fatto che loro sono nate dopo di lui, che da valore ai soli beni materiali. Guardini lamenta che ai tempi in cui vive (ma vale “sic et simpliciter” anche ai giorni nostri) prende sempre più piede l’idea dell’uomo e della donna che hanno sempre vent’anni. La vecchiaia – e di conseguenza la giovinezza – vengono semplicemente rimossi e si parla della vecchiaia solo riferendosi alle limitazioni che essa comporta, perdendo così il reale ed importante significato che questa età della vita porta con sé.