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    3. Non pronuncerai invano il nome del Signore. Il timore o il servizio di Dio



    Carmine Di Sante

    (NPG 2004-04-55)


    Irrapresentabile e impossedibile, Dio non può essere nominato se non nello spazio della preghiera dove a parlare è lui, e l’orante è recettività e obbedienza. Al di fuori dello spazio dossologico, lo spazio liturgico dove viene ritrascritto linguisticamente e simbolicamente il dialogo tra Dio e l’uomo, nominare Dio è insensato. Di qui il terzo comandamento in cui viene comandato: “Non pronuncerai invano il nome del Signore” o, secondo la dizione più comune nella lingua italiana, “non nominare invano il nome di Dio”.
    Ma in cosa consiste il “non nominare invano” Dio, e perché mai esso è così importante da meritare un divieto così categorico?
    Nella tradizione cristiana “non nominare il nome di Dio” è venuto a significare soprattutto il “non bestemmiarlo” e, come molti ricorderanno, in Italia, in un’epoca storica non ancora troppo lontana, la bestemmia poteva essere punita anche penalmente. Bestemmiare significava e significa chiamare Dio in causa – o la vergine o un santo che ne sono i testimoni privilegiati – associando al suo nome una parola ingiuriosa o offensiva con cui “ferirlo”, come vuole la radice greca del termine bestemmiare che rimanda a colpire. Usare la parola contro Dio per male-dirlo piuttosto che per benedirlo è maleducazione e mancanza di rispetto per il credente che ne fa l’oggetto del suo amore e ripone in lui la sua fiducia; ma più probabilmente è una forma di insofferenza e di rifiuto delle autorità religiose che, interpreti di Dio, ne trasmettono delle immagini ambigue o insufficienti che non promuovono la libertà dell’uomo e la dignità della sua coscienza, ma ne favoriscono la repressione e il controllo.
    Una seconda interpretazione del comandamento biblico, divenuta corrente nella tradizione cristiana, è quella che l’interpreta come divieto di “giurare il falso”. In questo caso il nome di Dio è usato “invano” perché associato a ciò che è falso, che offende Dio perché lo nega, trasformandolo da garante del vero, che sorregge il mondo, ad essere menzognero, che ne sconquassa le fondamenta. Il giuramento del falso è vietato – e va vietato categoricamente – perché minaccia l’ordine del reale e riprecipita il mondo nel caos indifferenziato, dove non c’è distinzione tra luce e tenebre e tra bene e male.
    L’avverbio “invano” che accompagna il divieto di nominare Dio si compone in ebraico di tre lettere (shin, waw, alef) e suona come shaveh che, al femminile, forma il termine shoah: “c’è shoah se qualcosa è vana, ossia identica, indifferenziata. Shoah, termine adoperato per designare la tragedia del genocidio, in ebraico sta a significare ‘ogni situazione di indistinzione in cui gli uomini non accedono più alla loro singolarità’” (M.-A. Ouaknin, Le Dieci Parole, Paoline 2001, p. 85). Negando Dio, il giuramento del falso nega l’esistenza del bene e del male, e consegna il mondo alla catastrofe o shoah dove regna incontrastata la legge della violenza: “Il midrash narra che Sodoma aveva, certo, la regole di ospitalità. Tutti avevano diritto a un letto… ma un letto sempre delle stesse dimensioni, per esempio, di un metro e cinquanta. Siccome tutti dovevano essere identici, si squartavano i bambini perché diventassero un metro e cinquanta e, agli adulti più grandi di questa misura, si mozzavano gli arti che la superavano… Sodomia, la città nella quale tutti dovevano essere identici. La metafora del ‘letto di Sodoma’ simboleggia questo rifiuto della differenza” (ivi).
    Il significato più vero del divieto di “nominare invano il nome di Dio” va però attinto ad un livello ancora più profondo che si trova oltre la bestemmia e oltre il falso giuramento. Per attingere a questo livello è necessario ricordare che il testo originale del terzo comandamento, tradotto letteralmente, suonerebbe: “non portare il nome del Signore, tuo Dio, invano”. Nell’originale ebraico, prima che di nominare invano il nome di Dio, si tratta di non “portarlo” invano. Differenza non indifferente che oltrepassa l’ordine del linguaggio e raggiunge l’uomo nella sua identità ultima che, per la bibbia, è di essere “ad immagine e somiglianza di Dio”: immagine da intendere, come si è già notato, non ontologicamente, come se nella natura umana ci fosse traccia di un divino logicamente rintracciabile o razionalmente deducibile, ma dialogicamente ed eticamente, nel senso che Dio è nella coscienza dell’uomo come colui che lo interpella e lo comanda, dischiudendogli l’ordine della salvezza escatologica o senso. Per la bibbia l’uomo è “ad immagine e somiglianza di Dio” perché ne è il “portatore”, la “casa” o il “tempio” (chi non ricorda la definizione cristiana dell’uomo “tempio dello Spirito Santo”?), e tutta l’avventura umana e la sua antropologia – il senso dell’esistenza dell’uomo nel mondo, il suo “perché” iscritto nel suo esserci – è di non portare invano questo tesoro. Nel suo primo sermone per il natale, san Leone Magno si rivolgeva ai suoi con queste parole: “Carissimo, prendi coscienza della tua dignità: diventato ormai partecipe della natura divina, non abbassarti fino a tornare all’indegna condotta di un termine. Ricordati qual è il tuo capo e di qual corpo tu sei membro. Ricordati che sei stato strappato al potere delle tenebre e introdotto nella luce del regno di Dio. Il sacramento del battesimo ha fatto di te il tempio dello Spirito Santo: non allontanare da te con le tue cattive azioni un ospite così grande, sta’ attento a non ridiventare schiavo di Satana. Il prezzo della tua salvezza è il sangue di Cristo: se ti ha redento nella sua misericordia, ti giudicherà secondo la sua giustizia, lui che regna con il Padre e lo Spirito per i secoli dei secoli” (Sources Chrétiennes 22, Le Cerf, Paris 1947, pp. 74).
    Ciò che Leone Magno afferma del cristiano redento dal messia crocifisso e perdonante, vale, prima ancora, per l’uomo biblico dell’alleanza, la cui dignità è nell’essere costituito da Dio come suo partner e luogotenente nel mondo. Dio è Dio, per la bibbia, per la sua voce conficcata nella coscienza con la quale lo chiama alla responsabilità affidandogli il fratello da amare gratuitamente. “Teoforo”, cioè portatore di un Dio che, Amore, gli comanda di amare il prossimo – ogni prossimo – con il suo stesso amore, l’uomo lo porta “invano” quando tradisce questa sua vocazione ad amare il prossimo e, nella storia, si fa promotore di ingiustizia e di violenza. Per i profeti rendersi “complici di ladri”, “non rendere giustizia all’orfano” e “non ascoltare la causa della vedova” (cf Is 1,23) è la vera profanazione del nome di Dio che, come canta il salmista, è il Dio “che protegge lo straniero, sostiene l’orfano e la vedova”. “Non proteggere lo straniero”, “non sostenere l’orfano”, “non soccorrere la vedova” – non essere cioè promotori di giustizia – è l’offesa più radicale nei confronti di Dio e la modalità più scandalosa con cui lo si “vanifica”, portandolo invano.
    Oltre che dell’ingiustizia – la prima grande offesa a Dio di cui ogni io è “portatore” in quanto sua immagine e somiglianza – il terzo comandamento è soprattutto condanna della violenza che nel nome dello stesso Dio gli uomini fanno e si fanno crudelmente. Se, come si è notato, la traduzione letterale del terzo comandamento è di non “portare invano il nome di Dio” e se, come è stato sempre osservato, il termine ebraico per “invano” può alludere a shoah, allora “non portare invano il nome di Dio” significa anche, potentemente e sorprendentemente, di non servirsi mai del suo nome per legittimare la propria forza, ideologia o violenza, come troppe volte è avvenuto e ancora avviene, come ci insegna – per fare solo alcuni esempi – la storia delle crociate o dell’inquisizione, la catastrofe del nazismo e le drammatiche vicende attuali dei terrorismi internazionali. Per questo non si può non condividere ciò che, proprio a commento del terzo comandamento, scrive A. Chouraqui nel suo ultimo libro-testamento: “Il Nome è spesso usato in modo scandaloso. Sulla fibbia del cinturone dei soldati del Kaiser era incisa la formula Gott mit uns [Dio con noi], reinterpretazione teutonica e pangermanica della formula Immanu-el, ‘Dio con noi’. Dio è forse francese?, si interrogava Friedrich Sieburg. Di qui a nazionalizzare Dio, come in Germania, non c’era che un passo, che fu mosso da certi pastori luterani sostenitori del Terzo Reich. In questa logica le atrocità perpetrate dai nazisti costituivano atti di pietà. In questo caso limite si misurano le spaventose conseguenze che possono derivare dall’invocare invano il Nome” (A. Chouraqui, Il mio testamento. Il fuoco dell’alleanza, Queriniana, Brescia 2002, p. 120).
    Se ciò che “offende” Dio è l’ingiustizia che ne “vanifica” il nome, essendo il Dio biblico il Dio della giustizia e della misericordia per definizione, offesa nell’offesa e offesa all’ennesima potenza è il servirsi del suo nome per legittimare l’uso della forza e della violenza. Nella storia umana segnata dalle contraddizioni e dagli egoismi, forse non sarà mai possibile bandire per sempre il ricorso alla violenza per contrastare e limitare la sua potenza pervasiva e distruttiva. Più che la violenza, il comandamento vieta la sacralizzazione della violenza: la sua legittimazione servendosi del nome di Dio. Ma desacralizzata, la violenza è smascherata e, smascherata, ricondotta alla sua nudità di forza bruta che, per questo, può essere più facile sconfiggere e ricacciare nella preistoria del processo di umanizzazione del soggetto umano.


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