Quel tempo che rimane

Inserito in NPG annata 1989.

 

Gian Paolo Caprettini

(NPG 1989-04-30)

Alcune delle nostre attività sono pensate e svolte per essere realizzate nel più breve tempo possibile, altre invece sono gestite all'insegna del risparmio delle energie, come se il tempo non esistesse o come se dovesse venir «stiracchiato» e disteso a nostro piacere. Nel primo caso si impone un controllo del tempo, si valuta l'investimento di risorse definite in rapporto non soltanto ai risultati da raggiungere ma anche al limite che non va oltrepassato perché risulti produttivo lo sforzo; nel secondo caso il controllo del tempo è molto più labile, e -più precisamente - l'unica soglia che si considera è il momento in cui l'attività dovrà essere sospesa per far posto ad altre, regolate dal primo tipo di temporalità. Generalmente parlando, vi sono dunque due campi dell'agire ben distinti: in uno il tempo è scandito e regolato, nel secondo il tempo è sospeso.
Se dovessimo rifarci al calendario tradizionale della cultura e delle società preindustriali, diremmo che il primo è il tempo del lavoro, il secondo quello della festa; il primo è il tempo della produzione e della raccolta, il secondo quello della celebrazione, del rito, della convivialità, delle cerimonie. Insomma, si potrebbe quasi dire che il tempo della festa - nella civiltà agricola - è quello in cui si ricapitolano le durate, le scadenze e si celebra appunto il tempo, riconoscendone la ciclicità, l'avvicendarsi, il più o meno regolato procedere.
Attualmente il tempo della festività è assai più complesso e frantumato (e in parte flessibile): le ferie, il weedend, le ore di non lavoro, il tempo libero, le soste per malattia ... sono tutte parti costitutive di una temporalità dominata da attività collaterali o alternative. A tutto ciò dovrà aggiungersi il cosiddetto «tempo morto», destinato in massima parte agli spostamenti per raggiungere il posto di lavoro o per tornare a casa, e il tempo destinato al pasto, regolato da soste opportune nel quadro dell'orario di lavoro.
Ne deriva la necessità - messa in luce dai sociologi ormai da molti anni - di saper definire dei bilanci di tempo («time budgets») opportuni, tenendo conto che l'impiego del tempo può essere suddiviso in tempo necessitato (riservato ai processi fisici, primo fra i quali il sonno), tempo obbligato (impiegato per il lavoro retribuito o domestico), tempo costretto (relativo agli spostamenti, alle attese e, in gran parte, alla gestione della propria socialità «istituzionale»: servizi burocratici e amministrativi per sé e altri membri della famiglia, acquisti, contatti telefonici per questi precisi fini, ecc.), tempo condizionato (speso in attività di partecipazione, educazione, formazione, volontariato - e ancora in questo caso molte volte difficilmente quantificabile perché legato a contatti coi media: televisione, telefono, carta stampata che, in parte, attengono ad altre categorie temporali) e infine tempo libero, quello propriamente per il quale non dovrebbe valere il motto «il tempo è denaro» e che spesso è semplicemente la risultante del varco lasciato «libero» dai tempi precedenti; per quest'ultimo vale appunto l'impressione a cui si alludeva prima: che sia un tempo la cui esistenza viene anche affannosamente ricercata e che, quando si svolge, si vorrebbe privo di scadenze rigorose e anche, in certi casi, predeterminate.
Si può quindi facilmente comprendere che la quota del tempo libero sale nettamente quando ci si riferisce a persone che hanno sospeso la loro attività lavorativa e per le quali - appunto - la dizione «tempo libero» è impropria perché viene a mancare il tempo obbligato. In analisi condotte negli anni scorsi per il Comune di Milano, è risultata una quota media di circa 4 ore e mezzo di tempo libero che salirebbe ad oltre dieci ore per chi non è più impiegato in attività produttive. In tal caso si è potuto potenziare il tempo condizionato (si veda il successo delle Università della terza età), ma il più delle volte il tempo sociale viene regolato -sempre per la terza età - da un incremento generalizzato del contatto coi media; di qui i tentativi di interpellare direttamente mediante periodici, tv e in certi casi i quotidiani, la fascia di audience della terza età, ancora in molti casi impegnata in nuovi tipi «impropri» di tempo obbligato gestiti all'interno delle mura domestiche, a seconda dei casi, in qualità di cuochi, camerieri, baby sitter, fattorini...
Vi è un tempo oggettivo, in gran parte regolato socialmente, e un tempo soggettivo, quello che potremmo anche chiamare tempo del pensiero, del ricordo, della coscienza e degli affetti. Un efficace intervento nel settore dovrà far in modo di potenziare e valorizzare questo tipo di tempo di cui pochi sanno essere buoni amministratori e che molti considerano a torto inutile, sprecato e senza rendimento. E si dovrà tentare di rispondere alla domanda: dov'è il tempo religioso, della riflessione, del sacro? Sta nella fascia oggettiva o in quella soggettiva, è festivo, «libero», «condizionato», «costretto»?
Scriveva Lévi-Strauss che il bricolage è un'attività fondamentale, tanto nelle società primitive quanto in quelle industriali e chissà anche post-industriali, che mirano al cosiddetto terziario avanzato; soltanto attraverso la manipolazione degli oggetti, il contratto con la realtà anche minuta in cui è immerso l'uomo, è possibile non soltanto ampliare le conoscenze della natura e della tecnica, ma anche estendere i propri personali territori di riferimento; e l'uomo potrà darsi ancora progetti, obiettivi da perseguire, tempo per quelle che Silvio Ceccato ha chiamato efficacemente le «azioni di futuro».