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    10. Non desiderare. Gratuità e desiderio


    Carmine Di Sante 

    (NPG 2005-03-50)


    La decima parola o comandamento riguarda la regolamentazione del desiderio, sia quello il cui oggetto è – per ricorrere al titolo di un celebre film – “quell’oscuro oggetto” che è la donna (ma, per par condicio, si dovrebbe dire lo stesso dell’uomo per la donna!), sia quello il cui oggetto è costituito dalle cose, oggetti o valori. Nella tradizione cristiana i due ambiti sono stati disarticolati e hanno dato origine a due distinti comandamenti, rispettivamente il nono (“non desiderare la donna d’altri”) e il decimo (“non desiderare la roba d’altri”), secondo una diversa classificazione che è stata ricordata nell’introduzione; mentre nella tradizione ebraica, qui seguita, i due comandamenti formano un unico comandamento con la seguente formulazione: “Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”. Il testo tratto dal Deuteronomio è quasi identico, con la sola differenza – segno di una sensibilità già attenta a non mettere la donna sullo stesso piano della casa – che la donna è nominata per prima: “Non desiderare la moglie del tuo prossimo. Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo” (Dt 5, 32).
    La decima parola o comandamento istituisce quindi il divieto di desiderare: divieto paradossale, che mette in discussione ogni visione romantica e libertaria che pone a suo fondamento la convinzione “di un desiderio necessariamente buono, pacifico, liberatorio, che procurerebbe infallibilmente agli esseri umani la felicità se non ci fosse, ad ostacolarlo, una cospirazione universale delle persone che contano, unicamente preoccupate di perpetuare la tradizione repressiva dell’Occidente ebraico-cristiano” (R. Girard, Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999, p. VIII).
    Per il noto antropologo francese – per il quale il desiderio non è il beato accesso nel regno della felicità e del benessere, ma fonte di risentimento in cui l’altro non è colto come colui verso il quale l’io tende bensì come colui al quale l’io è ostile – l’altezza del comandamento biblico è nello smascheramento di questo inganno il cui “scandalo” l’uomo illuminista e postmoderno si ostina ancora a ignorare. Nel suo saggio intitolato Vedo Satana cadere come una folgore (Adelphi, Milano 2001), che a ragione è considerata l’opera riassuntiva del suo pensiero controcorrente, l’intero primo capitolo è dedicato al decimo comandamento biblico, con questo inizio: “Un esame attento ci mostra che esiste nella Bibbia e nei vangeli una concezione originale quanto misconosciuta del desiderio e dei conflitti da essi generati. Per renderci conto dell’antichità di tale concezione possiamo risalire al racconto della Caduta nella Genesi, o alla seconda metà del Decalogo. Il cui unico scopo è proibire la violenza contro il prossimo. I comandamenti che vanno dal sesto al nono sono semplici e brevi nello stesso tempo. Essi proibiscono le violenze più gravi, secondo l’ordine di gravità… Il decimo comandamento contrasta invece con quelli che lo precedono, sia per la lunghezza, sia per l’argomento. Anziché proibire un’azione, esso proibisce un desiderio” (pp. 25-26).
    Ciò che il decimo comandamento vieta, per Girard, è il desiderio in quanto tale: “Le moderne versioni francesi usano il verbo convoiter, alla lettera ‘desiderare ardentemente, bramare’, una traduzione che, pur senza essere veramente sbagliata, mette comunque il lettore su una falsa strada, facendo pensare che si tratti di un desiderio fuori del comune, di un desiderio perverso riservato ai peccatori incalliti. Ma il termine ebraico tradotto in tal modo significa più semplicemente ‘desiderare’, ed è il medesimo verbo che indica il desiderio di Eva per il frutto proibito, il desiderio del peccato originale. L’idea che il decalogo dedichi il suo comandamento finale, il più lungo, alla proibizione di un desiderio marginale, che sarebbe proprio solo di una minoranza, non è affatto verosimile. Ciò di cui il decimo comandamento parla dev’essere invece il desiderio di tutti gli uomini, il desiderio in sé” (ivi).
    Che oggetto del divieto in sé sia non il cattivo desiderio ma ogni desiderio, perché ogni desiderio sarebbe in sé cattivo, potrebbe emergere ancora con più evidenza dal Discorso della Montagna, dove Gesù dice che chiunque guarda una donna per desiderarla si colloca già fuori dell’orizzonte dell’amore: “Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (Mt 5,29-30). Per Gesù chiunque – nell’originale greco pas, cioè tutti, senza distinzione alcuna, perciò sia chi è sposato che chi non lo è – guarda una donna, qualsiasi donna, sia pure la propria donna, sposa o amante, ha già commesso adulterio nel suo cuore.
    Non si può non essere sconcertati di fronte alla radicalità di questo annuncio biblico che vieta il desiderio in quanto tale, così contraddicendo sia quelle concezioni metafisiche che ne fanno la via d’accesso all’assoluto, come vuole Platone nel Simposio, sia quelle concezioni antropologiche naturalistiche che, nel libero dispiegarsi e realizzarsi dell’io, vedono la pienezza dell’umano, come vuole ad esempio Marcuse nel saggio del 1955, Eros e Civiltà, dove il filosofo tedesco contesta la teoria freudiana della insuperabile dimensione repressiva della civiltà e di ogni civiltà e, grazie alla rivoluzione tecnologica e al diffondersi del benessere, teorizza la possibile esistenza di una società dell’eros: più desideri possibili per il maggior numero possibile.
    Ma lo sconcerto cede il posto alla pensosa riflessione se si considera la ragione del divieto che, per Girard, è da individuare nel nesso costitutivo tra desiderio e violenza. Lungi dall’essere via di accesso all’assoluto o ingresso nella realizzazione piena dell’io, il desiderio, per R. Girard, è produzione di violenza all’infinito perché mascherata e, per questo, inestirpabile. Questa radice, per Girard, è nella struttura mimetica del desiderio, secondo la quale l’io desidera ciò che l’altro desidera, per cui i desideranti – l’io e l’altro e tutti gli altri – si colgono come rivali e si combattono per sempre, fino a quando non individuano un capro espiatorio – il debole, l’innocente, lo straniero, l’indifeso – sul quale scaricano la loro aggressività prodotta dal desiderio mimetico. Per Girard, la ragione per cui una cosa o una persona è desiderata non va individuata nel soggetto desiderante (i suoi bisogni, sogni o utopie) e neppure nella cosa desiderata (le sue qualità interne, esterne o estetiche: forma, bellezza, valore o altro), ma nel fatto che a desiderarla è l’altro, per cui si desidera solo ciò che altri desiderano. Di qui la conclusione dell’antropologo francese: “La fonte principale della violenza fra gli uomini è la rivalità mimetica. Essa non è accidentale, ma non è neppure il frutto di un ‘istinto di aggressione’ o di una ‘pulsione aggressiva’. Le rivalità mimetiche possono diventare talmente forti da far sì che due individui si screditino a vicenda, si derubino di ciò che possiedono, si seducano le rispettive mogli e alla fine non indietreggino nemmeno davanti all’assassinio” (R. Girard, Vedo Satana cadere come la folgore, cit. p. 30-31). A queste parole l’autore fa seguire la precisazione: “Il lettore avrà notato che sto citando di nuovo, ma stavolta nell’ordine inverso rispetto al Decologo, le quattro maggiori forme di violenza [falsa testimonianza, furto, adulterio, omicidio] proibiti dai comandamenti che vanno dal sesto al nono” (ivi). Di qui l’importanza del decimo e ultimo comandamento come smascheramento della radice generatrice di queste forme di violenza: “Il Decalogo, che assegna al suo ultimo comandamento lo scopo di proibire il desiderio dei beni del prossimo, evidentemente lo fa perché riconosce con lucidità in tale desiderio l’elemento scatenante delle violenze proibite nei quattro comandamenti precedenti. Se smettessimo di desiderare i beni del prossimo, non diventeremmo mai colpevoli né di assassinio, né di adulterio, né di furto, né di falsa testimonianza. Se il decimo comandamento venisse rispettato, renderebbe superflui i quattro comandamenti che lo precedono” (ivi, p. 31).
    L’altezza vertiginosa del Decalogo, per Girard, è in questa potenza di smascheramento della radice della violenza individuata nel desiderio, a partire da quelli più concreti: “Invece di partire dalla causa e di proseguire con le conseguenze, come farebbe un’esposizione filosofica, il Decalogo segue l’ordine inverso. All’inizio fa fronte alle necessità più immediate, e per allontanare la violenza proibisce le azioni violente. Poi rivolge la sua attenzione alla causa, e scopre il desiderio ispirato al prossimo. Allora proibisce questo desiderio, ma può proibirlo solo nella misura in cui gli oggetti desiderati sono legalmente posseduti da uno dei due rivali. Non gli è possibile scoraggiare tutte le rivalità del desiderio” (ivi).
    Pertanto per Girard il desiderio è violento per la sua struttura mimetica, per cui, desiderando ognuno la stessa cosa dell’altro, non può non prodursi, tra i desideranti, l’odio, l’invidia, il conflitto e la violenza che il meccanismo del capro espiatorio occulta ma non cancella, e che solo il decimo comandamento biblico smaschera vietando di desiderare.
    Senza entrare nel merito della struttura mimetica del desiderio, che resta una delle chiavi più feconde per decifrare l’enigma della violenza delle collettività umane, la ragione, per la bibbia, della violenza del desiderio va attinta però ad un livello ancora più profondo, da individuare nell’io più che nell’altro. Se il desiderio è violento e produce violenza, la ragione, per la bibbia, non è – o non è solo – perché l’io si trova accanto ad altri desideranti che desiderano ciò che lui desidera, ma perché egli da sé e ab intus si costituisce soggetto violento, negando la sua origine o gratuità e riducendo ogni cosa a sé. Per il racconto biblico il desiderio è violento se e quando cancella la differenza o gratuità, e si identifica con la volontà di dominio o di possesso con cui l’io si fa misura del reale.
    In un midrash – la spiegazione rabbinica alla pagina biblica – i maestri si chiedono per quale ragione Caino abbia ucciso Abele e, commentando il versetto 8 del capitolo quarto della Genesi in cui si afferma “che Caino disse al fratello: ‘Andiamo in campagna’”, si interrogano su che cosa mai si siano detti i due una volta usciti insieme. Il primo afferma: “I due si misero a discutere. Caino disse: ‘La terra sulla quale ti trovi è mia’. E Abele disse: ‘Le pelli del montone che hai indosso sono mie’. E in quel momento Caino si alzò per uccidere Abele”. Il secondo: “I due si misero a discutere. Caino disse: ‘Questa donna è mia’. E Abele disse: ‘No, è mia’. E in quel momento Caino si alzò per uccidere Abele”. Il terzo: “I due si misero a discutere. Caino disse: ‘Questo tempio è mio’. E Abele disse: ‘No, è mio’. E in quel momento Caino si alzò per uccidere Abele”.
    Alla radice della violenza per il midrash c’è la volontà di possesso, la trasformazione in “mio” di ciò che non può essere mio e che, non essendo mio, può essere accolto solo come dono. Violenza – e suprema violenza perché lo deforma nella sua essenza – è sporgersi sul reale pronunciando su di esso: “è mio”. “Questa terra è mia”: così le cose, da linguaggio della gratuità di Dio che le dona per amore e attende il riconoscimento dello stupore, si riducono a nuda e muta res o oggetto. “Questa donna è mia”: così l’altro o volto che, guardandolo, mi riguarda portandomi fuori dal mio io identitario e elevandomi alla responsabilità o amore disinteressato, preoccupato non più del mio io ma dell’altro, è oggettivato e deformato in schermo o maschera su cui proietto le mie attese o frustrazioni. “Questo tempio è mio”: così Dio, da Parola che parla e mistero che stupisce chiedendo l’ascolto dell’obbedienza, è trasformato in idolo di fronte al quale l’io si prostra per legittimare la sua forza ed elevarla all’altezza del diritto (“i miei sacrosanti diritti”!).
    Vietando di desiderare, il decimo comandamento sottrae quindi il mondo – “cose” e “persone”, cioè tutto ciò che esiste – all’ordine del possesso e lo riconsegna all’ordine del gratuito, dove parla dell’amore del Padre “che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, sui giusti e sugli ingiusti”, e dove chiama l’io e ogni io a fare altrettanto. Se lo statuto delle cose è il loro essere donate, impossessarsi di esse è contraddittorio e impossibile, come per chi volesse appropriarsi dell’orologio donato o della casa in cui è ospitato.
    Sottraendo le cose al possesso e riconsegnandole all’ordine del gratuito, dove splendono nella loro bellezza trasparente, il decimo comandamento non nega il desiderio ma lo riconduce alla sua verità originaria. Entro l’orizzonte del gratuito, il desiderio, per la bibbia, non è né via all’assoluto (come per Platone) né via alla pienezza della propria autorealizzazione (come per l’antropologia naturalistica), ma neppure male da estirpare (come per il buddismo) oppure necessariamente struttura mimetica (come per Girard). Nell’orizzonte del gratuito il desiderio – non più idolo – appare per quello che veramente è ed è chiamato ad essere: trascrizione e allusione, nell’ordine dello psichismo e del linguaggio, della bontà dell’essere e di ogni essere che è prima dell’uomo e per l’uomo e che l’uomo non può non riconoscere. Entro questo orizzonte – l’orizzonte del gratuito – il desiderio cede alla riconoscenza e si scopre fondato sull’agape o amore gratuito e disinteressato.
    Nel libro della sapienza Salomone, il saggio per antonomasia, confessa di aver fatto, nella vita, una scoperta impareggiabile: “La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto; non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte ad essa l’argento. L’amai più della salute e della bellezza, preferii il suo possesso alla stessa luce, perché non tramonta lo splendore che ne proclama. Insieme con essi mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile” (Sap 7,7-11).
    Che cos’è questa cosa impareggiabile di cui Salomone parla e rispetto alla quale le ricchezze sono un nulla e a confronto della quale non c’è gemma uguagliabile?
    Per la bibbia questa cosa – cuore della sapienza e di ogni sapienza – è la gratuità divina o grazia, desiderabile “più della salute, della bellezza e della stessa luce” e rispetto alla quale “tutto l’oro e l’argento sono poco più che fango o sabbia”.
    Questa sapienza – la sapienza della gratuità misura e paradigma dell’essere e dell’agire umano – è stata il filo conduttore dal quale ci siamo lasciati guidare in queste pagine, nel convincimento che scoprirla è scoprire una luce “il cui splendore non tramonta mai”.


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