I martiri

Inserito in NPG annata 1998.


Juan E. Vecchi

(NPG 1998-09-03)


Il giorno di Pasqua, di quest’anno 1998, nel messaggio al mondo, il Papa ha associato in un unico ricordo i testimoni evangelici della risurrezione e i martiri del nostro tempo. Una delle iniziative per il giubileo è il martirologio del secolo XX, cioè il catalogo di coloro che dal 1900 fino ai nostri giorni furono uccisi per la fede. I Sinodi dell’Africa, dell’America e dell’Asia hanno annoverato il martirio e la memoria dei martiri tra i punti più importanti della vita cristiana odierna e della nuova evangelizzazione. Della vita e non solo della storia cristiana! I martiri non sono solo «glorie» o «esempi», ma rivelazione vivace di una dimensione dell’essere cristiano: la testimonianza di Cristo e della vera vita.
Martirio, nel significato originale del termine, indicava la deposizione di un teste, per iscritto e sotto giuramento, con valore di prova: dunque il massimo di credibilità, di garanzia di verità, che si poteva chiedere.
Il Vangelo applica la parola a Gesù che rende testimonianza del Padre e della vita vera con la parola e le opere; ma soprattutto con la passione e la morte. Egli è il testimone, il martire per eccellenza.
La applica poi a coloro che raccontarono la risurrezione di Gesù o, successivamente, la annunciavano. Ciò comportava esposizione al fallimento e alla derisione e anche rischio di morte, come si verificò già all’inizio della Chiesa col martirio di Santo Stefano.
Lo stesso Gesù associa questa confessione dei suoi discepoli ad una assistenza dello Spirito Santo. «Vi porteranno nei tribunali... e vi tortureranno... sarete miei testimoni di fronte a loro e di fronte ai pagani... Non preoccupatevi di quel che dovrete dire e di come dirlo. Non sarete voi a parlare, ma sarà lo Spirito del Padre vostro che parlerà in voi» (Mt 10 17-18.20).
Presto e per sempre nella storia, martirio prese il senso di offerta della vita in morte cruenta a testimonianza della fede. Il martire non si difendeva con argomenti per dimostrare la sua innocenza di fronte a quello di cui veniva accusato. Anzi approfittava per parlare di Gesù, dichiarava quanto la fede in Cristo fosse importante per lui, confessava la sua appartenenza al gruppo cristiano. Aveva persino il coraggio di esortare giudici e carnefici a ricredersi e rinsavire.
Oggi si uccide ancora per ragione di fede. Ne sono prova i sette monaci dell’Algeria e tanti altri, religiosi, religiose e fedeli laici, caduti dove imperversano l’integralismo o forme magiche di religiosità. Altri morirono e muoiono nell’esercizio della carità o nello sforzo di riconciliazione durante conflitti etnici, guerre civili e situazioni di insicurezza generale.
È più frequente però una ragione «umana», legata profondamente alla fede. Così i regimi ideologici del secolo XX fecero stragi di credenti, cattolici, protestanti, ortodossi sotto l’accusa di opposizione al bene del popolo, di sovversione, di favoreggiamento dei nemici dello Stato. Non domandavano nemmeno se l’accusato volesse rinunciare alla fede. Lo eliminavano senza processo. Sovente lo diffamavano attraverso una stampa potente e inscenavano tribunali fantocci.
È interessante vedere come si avvera la parola di Gesù: delle montature accusatorie ci siamo dimenticati. Di quello che i martiri hanno proclamato con la loro sofferenza e col loro silenzio ci ricordiamo e beneficiamo: il valore della vita, la dignità della persona chiamata alla comunione con Dio e alla responsabilità di fronte a Lui, la libertà di coscienza, la critica contro tragiche deviazioni come il razzismo, l’integralismo, il potere assoluto dello stato, la discriminazione, lo sfruttamento dei poveri.
Si dice che nessuna causa va avanti senza i suoi martiri, senza cioè coloro che ci credono fino a dare la vita per essa. La fede comporta sempre una certa violenza. Gesù insegna che alla vita piena si arriva attraverso la morte. Egli giunse alla gloria attraverso la passione. Chi vuole la corona, dice San Paolo, deve sostenere la lotta e chi vuole il traguardo deve agguantare la corsa; e allenarsi con sacrificio.
Oggi questo pensiero non ci è molto congeniale. C’è un dono dello Spirito Santo che ce lo fa capire e assumere: la fortezza. Tutti ne abbiamo bisogno. Forse nessuno vorrà ucciderci a motivo della nostra credenza religiosa. Ma c’è tutta una concezione cristiana dell’esistenza da sostenere e scelte di vita che richiedono lucidità e resistenza. E ci sono circostanze personali, malattie, situazioni di famiglia e di lavoro, che esigono un saldo ancoraggio nella speranza.
Essere martire è una vocazione. Lo Spirito, non il giudice o il carnefice, fa i martiri, cioè i grandi testimoni. E come ogni vocazione, esprime una dimensione dell’esistenza cristiana che è comune a tutti.
A Roma il ricordo dei martiri è familiare. Lo tengono vivo molte chiese, ma soprattutto le catacombe che riportano alle condizioni precarie della comunità cristiana in tempi di persecuzione e alle vicende in cui si videro coinvolti singoli cristiani per accuse che riguardavano la loro religione.
Pitture, disegni, incisioni, sarcofaghi ed ambienti sono una vera catechesi, una riflessione sulla fede fatta in «tempi» di martirio: tempi di minoranza, significatività provocatoria, prove, adesione ed amore.
In altri contesti è una realtà attuale, ma non sempre si trova la meditazione intensa, ricca ed articolata che ci impressiona nei luoghi classici.
I presupposti, le implicanze, quello che sottostà al martirio, è parte non prescindibile della formazione nella fede. Questa è fonte di gioia e di luce, ma non si offre a «buon prezzo». Le parabole del «tesoro nascosto», per il quale il compratore deve vendere quanto possedeva, ce lo ricordano.
Il martirio è collegato ad una delle note senza le quali il vangelo perde il suo colore, il suo sapore, il suo filo, la radicalità. È una specie di dinamismo interno per cui si punta verso il massimo possibile ed è tipico della fede. Non è integralismo, che è adesione cieca alla materialità delle proposizioni; non è massimalismo, che è pretesa ed ostensione di coerenza nelle idee e nelle esigenze. È proprio «gusto» e conoscenza della verità, adesione di amore alla persona di Cristo.
Giovanni Paolo II appoggiava il suo discorso su una constatazione: il nostro tempo ascolta più i testimoni che i «maestri». Nei giovani c’è una fibra che accoglie l’invito alla radicalità. Facciamola vibrare!