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    L’attesa e

    l’invocazione del Padre, oggi

    Bruno Forte

     


    Gli scenari del tempo

    Il sogno della modernità e l’“assassinio del Padre”
    La metafora della luce esprime nella maniera più intensa il principio ispiratore della modernità, l’ambiziosa pretesa della ragione adulta di comprendere e dominare ogni cosa. Secondo questo progetto - che sta alla base dell’Illuminismo in tutte le sue espressioni -comprendere razionalmente il mondo significa rendere l’uomo finalmente libero, padrone e protagonista del proprio domani, emancipandolo da ogni possibile dipendenza: l’“emancipazione” è il sogno che pervade i grandi processi di trasformazione storica dell’epoca moderna, nati a partire dal “secolo dei lumi” e dalla rivoluzione francese, dall’emancipazione delle classi sfruttate e delle razze oppresse a quella dei popoli del cosiddetto “terzo mondo”, a quella della donna nella varietà dei contesti culturali e sociali. L’espressione compiuta di un simile sogno sono le “ideologie”, visione totali del mondo, che tendono ad imporsi alla realtà tutta intera, fino a stabilire l’equazione fra ideale e reale: è inseguendo questa ambizione che le “grandi narrazioni” ideologiche tendono ad edificare una “società senza padri”, dove non ci siano rapporti verticali, ritenuti sempre di dipendenza, ma solo orizzontali, di parità e reciprocità. Da qui deriva la critica alla figura del “padre - padrone”, che sfocia anche nella negazione di un Dio che sia Padre celeste: come non deve esserci in terra alcuna paternità che crei dipendenza, così non può esservi in cielo alcun Padre di tutti. L’assassinio collettivo del Padre si consuma nella convinzione assoluta che l’uomo dovrà gestirsi da solo la vita, costruendo così il proprio destino: le ideologie moderne, di destra o di sinistra, hanno inseguito la meta ambiziosa di emancipare gli abitatori del tempo in modo così radicale, da renderli da oggetto soggetto esclusivo della loro storia, al tempo stesso origine e meta di tutto ciò che accade. Non si può negare che questo progetto sia grandioso e che tutti ne siamo in qualche misura eredi: chi vorrebbe vivere in una società che non sia passata attraverso il processo dell’emancipazione? E tuttavia, questo sogno ha prodotto effetti satanici: proprio a causa della sua ambizione totale l’ideologia diventa violenta. La realtà viene piegata alla forza del concetto: la “volontà di potenza” (F. Nietzsche) della ragione vuol dominare la vita e la storia per adeguarle al proprio progetto. Il sogno di totalità si fa inesorabilmente totalitario: il tutto compreso dalla ragione si converte in totalitarismo. Non a caso, né per un semplice incidente di percorso, tutte le avventure dell’ideologia moderna, di destra come di sinistra, dall’ideologia borghese a quella rivoluzionaria, sfociano in forme totalitarie e violente. Ed è precisamente l’esperienza storica della violenza ottusa dei totalitarismi ideologici a produrre la crisi e il tramonto delle pretese della ragione moderna: «L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso - affermano Max Horkheimer e Theodor W. Adorno all’inizio della loro Dialettica dell’Illuminismo - ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata risplende all’insegna di trionfale sventura». La moderna “società senza padri” non genera figli più liberi e più uguali, ma produce dipendenze drammatiche da quelli che di volta in volta si offrono come i “surrogati” del padre: il “capo”, il “partito”, la “causa” diventano i nuovi padroni, e la libertà promessa e sognata si risolve in una massificazione dolorosa e grigia, sostenuta dalla violenza e dalla paura.

    La società senza padri, il “secolo breve” e la nostalgia del Totalmente Altro
    Il sogno di emancipare il mondo e la vita sembra dunque essersi infranto contro l’inaudita violenza che l’epoca dell’emancipazione ha prodotto, di cui sono segno eloquente le guerre, le pulizie etniche, i forni crematori, la Shoà e tutti i genocidi del nostro secolo, fino all’eccidio per fame che ogni giorno si consuma nel mondo. Sta qui il dramma con cui si è chiuso il Novecento: un dramma morale, una crisi di senso e di speranza. Se per la ragione moderna tutto aveva senso all’interno di un processo totale, per il pensiero debole della condizione post-moderna - naufrago nel grande mare della storia dopo il fallimento delle presunzioni ideologiche - nulla sembra avere più senso. In reazione alle pretese fallimentari della ragione forte si profila un tempo di naufragio e di caduta, una “notte del mondo” (Martin Heidegger) in cui ciò che trionfa sembra essere l’indifferenza, la perdita del gusto a cercare le ragioni ultime del vivere e del morire umano. L’uomo stesso sembra risolversi in una “passione inutile” (secondo la formula proposta con inquietante anticipo sulla fine dei mondi ideologici da Jean-Paul Sartre: “l’homme, une passion inutile”).
    Orfani delle ideologie, si rischia di essere tutti più fragili, più tentati di chiudersi nella solitudine dei propri egoismi. È per questo che le società post-ideologiche stanno diventando sempre più “folle di solitudini”, in cui ognuno cura il suo “particulare” con una logica egoistica e strumentale: di fronte al nulla del senso ultimo, ci si aggrappa all’interesse penultimo, alla cattura del possesso immediato. È questa la ragione del trionfo del consumismo più sfacciato, della corsa all’edonismo e all’immediatamente fruibile, dell’inseguire il consenso in politica e nella comunicazione mediatica a scapito della verità: quando non si hanno orizzonti grandi di verità, si affoga facilmente nella solitudine egoistica del proprio particolare. E questo mostra ancora di più come tutti abbiamo bisogno di un padre - madre comune che liberi dalla prigionia della solitudine, che dia un orizzonte per cui sperare e amare: non un orizzonte violento, asfissiante com’era quello dell’ideologia, ma un orizzonte liberante per tutti, rispettoso di tutti.
    Ciò di cui c’è insomma soprattutto bisogno davanti all’indifferenza e alla mancanza di passione per la verità dell’epoca in cui ci troviamo è il volto del padre-madre nell’amore: è la nostalgia del Totalmente Altro, di cui Horkheimer e Adorno parlavano prevedendo la fine delle ideologie. È la nostalgia del Volto nascosto, il bisogno di una patria comune che dia orizzonti di senso senza esercitare violenza. Si profilano alcuni segnali di attesa: c’è una “nostalgia di perfetta e consumata giustizia” (Max Horkheimer), che si lascia riconoscere proprio nelle inquietudini della crisi presente come una sorta di ricerca del senso perduto, uno sforzo per ritrovare il senso al di là del naufragio, per riconoscere un orizzonte ultimo su cui misurare il cammino di tutto ciò che è penultimo e fondare eticamente la prassi. Si assiste ad una riscoperta dell’altro, constatando che il prossimo, per il solo fatto d’esistere, può essere ragione del vivere, perché è sfida a uscire da sé, a rischiare l’esodo senza ritorno dell’impegno d’amore per altri. Al tempo stesso, sembra affacciarsi una ritrovata nostalgia del Totalmente Altro, una sorta di riscoperta del sacro rispetto ad ogni rinuncia nichilista. Nelle forme più diverse si profila un “ritorno del Padre”, quantunque non sempre privo di ambiguità e perfino di nostalgie ideologiche.

    Il Dio rivelato, Padre nell’amore

    L’umiltà di Dio
    Un padre-madre che ci ami rendendoci liberi, che non sia il concorrente della nostra libertà, ma il fondamento di essa, garanzia ultima della verità e della pace del nostro cuore con la Sua infinita umiltà: di questo padre materno ha bisogno il cuore dell’uomo, assetato di un grembo che avvolga, custodisca e generi instancabilmente la vita. La scelta che si delinea per ognuno di noi è quella fra il vivere come pellegrini alla ricerca del Volto nascosto o il chiuderci ciascuno nelle nostre paure e nelle nostre solitudini. Occorre aprirsi all’ascolto e all’invocazione cui ci ha invitato Gesù insegnando ai Suoi il Padre nostro. Per aiutare i loro compagni di strada a fare questo passo i credenti dovranno essere i primi ad alzarsi e andare verso il Padre, ritornando sempre di nuovo a farsi pellegrini, vincendo la stanchezza e la frustrazione che a volte prende, specie quando sembra che non ci siano risultati. Il credente sa di non essere in questo mondo per vedere i frutti, ma per gettare il seme. Per chi crede in Dio l’importante non è il raccolto, l’importante è la semina: essa darà i suoi frutti a suo tempo quando e come Dio vorrà. Il no alla frustrazione deve unirsi allora al sì alla passione per la verità che porta a sollevare le vere domande del cuore degli uomini perché cerchino il Volto nascosto, il Volto del padre-madre nell’amore.
    Si impone allora la domanda: dove è possibile fare esperienza dell’amore paterno - materno di Dio, che accoglie, libera e salva? dove l’attesa - riconoscendo il suo oggetto - potrà convertirsi in invocazione? L’ascolto della rivelazione viene qui a corrispondere nella maniera più sorprendente e più alta agli scenari, che abbiamo tracciato. Una parola ebraica esprime nella forma più densa la caratteristica peculiare del Dio di cui ha sete il nostro cuore: “rachamim” dice le viscere materne, e proprio così rimanda a un Dio visceralmente innamorato dell’uomo, Padre di misericordia. Così viene descritto in Isaia 49,14-16: «Sion ha detto: il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato. Si dimentica forse una donna del suo bambino così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io non mi dimenticherò mai di te. Ecco ti ho disegnato sulle palme delle mie mani». Il Dio d’Israele è un Dio materno, che conosce la tenerezza e la misericordia e ci ha sempre sotto gli occhi, perché ci ha disegnato sul palmo delle sue mani. È il Dio padre-madre nella tenerezza e nel perdono, nella misericordia e nell’umiltà, che ci rende liberi di esistere e di aderire al patto e incessantemente ci chiama alla conversione, al ritorno al suo cuore divino, da vivere con cuore di figli.

    Il Dio che è Amore
    Questo Dio Gesù lo ha chiamato “abbà”, parola della tenerezza con cui i bambini amavano rivolgersi al padre e che anche gli adulti usavano per esprimere confidenza. Gesù è stato il primo Ebreo che ha rivolto a Dio questo nome: è l’invocazione piena di significato che risuona in Mc 14,32-36 nell’ora suprema del dolore, quando tutto sembra crollare e la solitudine è totale, perché anche i discepoli non sono stati capaci di vegliare un’ora sola con lui: «Abbà, Padre, tutto è possibile a te, allontana da me questo calice: però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu». Questa è la rivelazione del Padre, nelle cui mani Gesù affida il suo spirito. Il Padre di Gesù è dunque il Dio capace di uscire da sé e di soffrire per amore della sua creatura: non soltanto il Dio umile, il Dio della compassione e della tenerezza, ma il Dio così libero da sé da pagare il prezzo supremo dell’amore. Come Abramo è pronto a sacrificare l’Isacco del suo cuore per amore del Dio vivente, così il Padre di Gesù sacrifica l’amato, l’Isacco della nuova ed eterna alleanza, per l’amore folle che ha per gli uomini. Afferma Origene: «Dio gareggia magnificamente in generosità con gli uomini: Abramo ha offerto a Dio un figlio mortale senza che questi morisse; Dio ha consegnato alla morte il Figlio immortale per gli uomini».
    Il Padre di Gesù è amore in se stesso, e lo è verso il mondo: è il Padre dei discepoli, il Padre di tutti. La Chiesa che Gesù fa nascere è la comunità dei figli del Padre. Questa affermazione ha un forte fondamento biblico, come mostra una parola usata soprattutto in Giovanni, “kathòs” - “come”: «Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Gv 15,12; cf. 13,34) - «Che essi siano uno, come noi siamo uno» (Gv 17,21. 22). In queste frasi si evidenzia il triplice senso del “kathòs” in rapporto alla Chiesa dell’amore: essa viene dalla Trinità, dall’amore che lega il Padre e il Figlio nello Spirito; è immagine dell’amore trinitario nel tempo; e tende verso la Trinità. Il “kathòs” rischiara il rapporto tra la Trinità e la Chiesa. I discepoli vivono nello Spirito per il Figlio alla presenza del Padre, e si lasciano amare dal Padre per Cristo nello Spirito. La legge fondamentale della Chiesa è l’agape del Padre, la carità di Dio, l’amore. Noi siamo i discepoli dell’amore. Una Chiesa senza amore è un corpo senz’anima, uno scheletro senza carne.
    Tutto nella Chiesa viene dall’amore: se ad esempio l’autorità fosse esercitata senza amore non sarebbe più il riflesso dell’amore paterno-materno del Padre, ma burocrazia, pesantezza che soffoca. Certo, l’amore è verità, e quindi può essere anche richiamo, esigenza, tutt’altro che sentimentalismo: e tuttavia - se viene da Dio - è e resta “agape”. L’agape è la legge fondamentale della Chiesa del Padre, della Chiesa dei discepoli di Gesù che credono nella rivelazione dell’amore del Padre. Il “kathòs” ci fa capire che la Chiesa vive della legge fondamentale di lasciarsi amare dal Padre per Cristo nello Spirito, per amare poi il Padre per Cristo nello Spirito, amandoci gli uni gli altri. È la carità di Dio a fondare la carità fraterna! È il Padre, riconosciuto e accolto, che ci rende figli Suoi e fratelli fra di noi! 3. Dove l’esodo incontra l’avvento: la liturgia Come entrare nel cuore del Padre perché i frutti della vita nuova che viene da Lui si esprimano nella nostra esistenza e nella storia? La tradizione della fede ha una risposta, tanto netta, quanto ininterrotta, proclamata come un “canto fermo” con la testimonianza vissuta, prima che con i concetti e con le parole: il luogo dell’incontro, la porta che introduce nel cuore paterno e fa fare esperienza della maternità misericordiosa di Dio, è la liturgia. È questa la grande scuola dell’amore, la casa dell’abbraccio, dove il Padre accoglie i Suoi figli e la Sua misericordia materna li rende creature nuove, libere e liberanti nella storia. Nella liturgia il cristiano non sta davanti a Dio come uno straniero, ma entra nelle profondità di Dio, lasciandosi avvolgere dal mistero della Trinità Santa. Lo specifico della preghiera liturgica, che la distingue da ogni altra al di fuori del cristianesimo, è che essa è preghiera trinitaria: nella liturgia andiamo al Padre per il Figlio nello Spirito e dal Padre per lo stesso Figlio riceviamo ogni dono perfetto nello Spirito Santo.
    Il cuore della preghiera liturgica - norma, vertice e fonte di tutta la preghiera cristiana - sta nel pregare nello stesso mistero di Dio. È così che Gesù ha insegnato a pregare: «Quando pregate, dite: Padre» (Lc 11,2; cf. Mt 6,9). Chi prega obbedendo alle Sue parole entra nel mistero della filiazione divina: non sta davanti a Dio come dinanzi a un Sovrano, straniero, adorabile e terribile, ma dimora in Lui come figlio nel mistero del Figlio. Paolo afferma la medesima cosa quando nel capitolo 8 della Lettera ai Romani (come pure in Galati 4,6) spiega così la preghiera cristiana: «Dio ha inviato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo, che grida: Abba - Padre!». Quando preghiamo, è lo Spirito che vive in noi e noi, viventi in Cristo, diciamo in Lui: «Padre!». Ecco dunque la via per incontrare il Padre: per il Figlio nello Spirito tutto è accolto dal Padre, sorgente di ogni dono perfetto (cf. Gc 1,17), e tutto è riportato a Lui, meta e patria di tutto ciò che esiste. Il Padre è Colui che da sempre comincia ad amare, non perché abbia delle ragioni per farlo o sia obbligato ad amare, ma per la sola gioia di amare: «Dio non ci ama perché siamo buoni e belli, ma ci rende buoni e belli perché ci ama» (S. Bernardo).
    Se dunque il Padre è la pura gratuità dell'amore, la sorgente di ogni dono perfetto, la liturgia si offre come il luogo privilegiato in cui il singolo e la Chiesa possono incontrarLo come Padre di tutti, perché nel più profondo essa è accoglienza, terreno d'avvento del mistero di Dio nel cuore della storia umana. Celebrare perciò non significa tanto amare Dio, quanto lasciarsi amare da Lui, stando davanti alla gratuità pura del Padre affinché essa ci inondi della sua generosità traboccante. In tal senso, la liturgia ci introduce nel cuore del Padre rendendoci capaci anzitutto di ricevere, di attendere il dono dall’alto nella pazienza e nella perseveranza piene della meraviglia e dello stupore dell'amore. È il Padre ad agire nell’azione liturgica, che perciò è esperienza notturna più che solare di Dio: il Padre non lo vedi, né lo catturi; ti lasci piuttosto contemplare da Lui... La liturgia è un lasciarsi inondare dal mistero della presenza divina nella docilità dell’invocazione e dell’ascolto, per divenire terreno d'avvento, riconoscenza del dono: celebrare è lasciarsi amare da Dio, accoglienza del mistero, prima e più che impresa umana.
    In quanto è movimento di accoglienza del dono che viene da Dio, la liturgia è però anche movimento di risposta a questo dono, volontà di riportare tutto a Dio. È alla scuola della liturgia che il cristiano impara a vedere tutte le cose nella luce di Dio e, di conseguenza, a fare scelte di carità e di pace, a denunciare l'ingiustizia e a proclamare la giustizia del Regno che viene. È alla scuola della liturgia che apprende ad orientare la sua vita verso il senso ultimo e profondo di tutte le cose in ogni scelta, piccola o grande, della sua vita. Celebrando, egli riconosce la sua vicenda personale, quella degli uomini e quella della Chiesa orientate in Cristo verso la Patria, intravista ma non ancora posseduta, del cuore eterno di Dio. Perciò, più il popolo di Dio vivrà bene la liturgia, più vivrà in pienezza il Padre nostro, più entrerà nel cuore della storia per assumere la speranza e la nostalgia degli uomini e farne un cammino di giustizia e di pace. Chi sta davanti al mistero del Padre nel grembo della Trinità Santa, nascosto con Cristo in Dio (cf. Col 3,3), dimora nel seno più profondo della storia: è così che nella liturgia la Trinità e la storia giungono veramente ad incontrarsi.

    (Assemblea diocesana dei catechisti, Vasto, Auditorium San Paolo, 27 Gennaio 2019)


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