I vagabondi di tutti i tempi
Remo Bodei *
Nella sua forma elementare, il viaggio è un attraversamento dello spazio nel tempo, un cambio di scenari grazie a un progressivo allontanamento dal punto di partenza. L'ambiguo stato d'animo con cui viene affrontato si riflette nelle diverse etimologie della parola. Il nostro "viaggio" viene infatti dal provenzale viatge, che deriva, a sua volta, dal latino viaticum (via tecum, provvigioni che ti accompagnano e nutriscono lungo la via o, nella liturgia cattolica, l'eucarestia somministrata al morente come cibo per rafforzarlo nel passaggio dalla vita alla morte). L'inglese travel ha, invece, la stessa radice del francese travail: indica fatica e difficoltà e rinvia al tripalium, strumento di contenzione e di tortura romano. Pur restando spossante ed esposto agli imprevisti, alcune lingue privilegiano il lato positivo del viaggio, mentre altre ne accentuano l'aspetto stancante e tormentoso. Certo, specie nel passato, viaggiare non era né agevole, né attraente. Implicava pericoli (briganti, pirati, malattie, naufragi) e dolorose separazioni. Del resto, come recita ancora il proverbio popolare, "partire è un po' morire", anche in senso metaforico, in quanto ognuno, ridotto a parte, si stacca da ciò che prima sentiva come un tutto nello stretto rapporto con i genitori, gli amici, la casa, la patria. Le partenze hanno però anche qualcosa di eccitante, ricordano l'euforia dell'infanzia, quando il mondo si mostra pieno di meraviglie da scoprire. Benjamin ricorda così la trepidante gioia che, in lui bambino, precedeva l'inizio di un viaggio: «La lama di luce sotto la porta della camera da letto la sera della vigilia, quando gli altri erano ancora alzati: non era questo il primo segnale della partenza? Non penetrava essa piena d'attesa nella notte infantile come più tardi la lama di luce sotto al sipario nel buio della platea? Credo che il vascello fantasma che allora ci rapiva spesso sia approdato davanti ai nostri giacigli cullato dal brusio ondoso delle voci e dallo spumoso tintinnio delle stoviglie, per depositarci al mattino presto, febbricitanti, come se già avessimo compiuto il viaggio che dovevamo ancora intraprendere». Simbolicamente ciascuno inizia, nascendo, il viaggio della vita: da un certo luogo e in una certa epoca s'inoltra (senza vie già tracciate, senza aderire alla routine, alla piccola route) verso l'ignoto che lo aspetta. Va incontro alle cose future: ad ventura. è quindi, letteralmente, un avventuriero, giacché abbandona la sicurezza iniziale e si sottopone alle prove e alle peripezie di un avvenire improgrammabile. Il viaggio imita perciò la vita, di cui contiene tutti i fattori: abbandono del noto, accettazione del rischio, incertezza, ma anche piacere e promesse di felicità. Il viaggiatore può giungere a un porto sicuro e ritornare sano e salvo a casa. Oppure può decidere di viaggiare per viaggiare, di rinunciare a qualsiasi fissa dimora. Una delle espressioni più alte della modernità è appunto rappresentata dall'abbandono d'ogni luogo noto e sicuro per intraprendere un viaggio senza fine, dal trasformare in opportunità il volontario perdersi di chi non ha "terra ferma". La maledizione che colpiva figure mitiche senza patria e in perpetuo movimento - come l'Ebreo Errante o l'Olandese Volante - diventa una sfida avvincente. Vous êtes embarqués, ammoniva già Pascal, sgomento dinanzi al nostro viaggio nel tempo: «Noi voghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all' altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un'eterna fuga». Tale errare senza fine e senza scopo appare invece pieno di fascino a Baudelaire, che, nella poesia Il viaggio, afferma: «Ma i veri viaggiatori partono per partire; / cuori leggeri, s'allontanano / come palloni, / al loro destino mai cercano di sfuggire, /e, senza sapere perché, sempre dicono: Andiamo!». E dove anela l'anima, «questo veliero che cerca la sua Icaria»? «Non importa dove! Non importa dove! Purché sia fuori da questo mondo!» Il rifiuto della nostalgia incrementa il desiderio di lontananza, l'andare «al fondo dell'ignoto / per trovare il nuovo» quale surrogato dell'impossibile fuga dal mondo. Se il viaggio costituisce un'esperienza umana di antica data, la sua specificità nel mondo contemporaneo è rappresentata dalla frammentarietà, dal suo presentarsi per fotogrammi, alla maniera delle visioni che si hanno quando ci si desta su un treno in corsa e si guarda fuori: «Apro gli occhi e mi volgo un istante verso il finestrino. Molto non ci vedo, e ciò che vedo è colto con la pigra memoria di chi sogna. Ma giurerei che in qualche punto del Wurttemberg, come se avessi veramente riconosciuto il territorio del Wurttemberg, ho visto alle due di notte un uomo che sulla veranda della sua villa si chinava sulla ringhiera; alle sue spalle la porta dello studio illuminato era semiaperta, come se quello fosse uscito soltanto per rinfrescarsi la testa prima di andare a letto...». Questo viaggiatore, descritto da Kafka nel racconto Richard e Samuel, rivela i fugaci pensieri che scorrono nella mente durante un viaggio, le immagini rubate di persone e luoghi che quasi sicuramente non rivedremo mai più, la malinconia che scaturisce dallo sfiorare per un solo istante altre vite indipendenti dalla nostra. In compenso il viaggio ci spoglia dalle abitudini; ci restituisce lo stupore; ci fa sentire capaci di rigenerazione; ci permette di assaporare la libertà in quanto assenza di obblighi e costrizioni abituali; ci spinge alle metamorfosi interiori; ci procura choc emotivi (speranze, attese) e cognitivi (spiazzandoci grazie al continuo confronto con idee, costumi e luoghi differenti). Presentando pochi fotogrammi colti al volo, come le visioni dal treno di cui parla Kafka, si possono fissare alcuni tratti caratteristici del viaggio moderno rispetto a quello antico. Questo non è generalmente volontario: si viaggiava soprattutto per necessità o per obblighi politici e religiosi: commercio, esplorazione, guerra, migrazioni, pellegrinaggi. Inoltre, nella tarda antichità e nel medioevo cristiano, esisteva un'esplicita condanna della curiositas, definita concupiscientia oculorum. è solo a partire tradizionalmente dal Petrarca dell'ascesa al Monte Ventoso che la curiositas perde le sue connotazioni negative e lo spirito di ricerca attraverso il viaggio diventa addirittura una virtù. Il Novecento è invece caratterizzato dal viaggiare per il viaggiare, dal turismo di massa, dalla relativa indifferenza nei confronti della meta, dal bisogno di esotismo e di evasione. è in questo periodo che, secondo la distinzione di Paul Bowles, il "viaggiatore" si trasforma spesso in "turista". Così, mentre il primo va alla ricerca delle emozioni forti date dai luoghi dove la natura è più selvaggia, incontaminata, maestosa, vasta e potente (deserti, alpi, cascate, foreste, vulcani), il secondo non vuole correre rischi e sceglie in genere itinerari organizzati da altri. Il viaggiatore preferisce quei posti che gli antichi temevano e che i moderni considerano invece sublimi perché dotati di una bellezza intensa e perturbante, che attrae e, nello stesso tempo, respinge. Cerca vie sprovviste di mete e mete sprovviste di vie, ama il vagabondare indeterminato. Ha in comune però con il turista il desiderio di inseguire la pienezza e il significato della vita in un altrove insituabile, ma comunque lontano dal luogo in cui abita e dal tempo della quotidianità. Si dirige così ai margini della vita consueta, al fine di provare quell'esaltazione per le possibilità che si spalancano nell'immaginazione e che lo inducono a interrogarsi sulla propria identità, a sradicarsi provvisoriamente dal passato che si lascia alle spalle, a fargli dire con meraviglia «sono proprio io a trovarmi qui?». Uno dei maggiori piaceri dell'avventura è forse offerto nel viaggio dalla sensazione dell'Incipit vita nova!, dalle vaghe promesse di possibili svolte nell'esistenza.
* Lectio magistralis tenuta in occasione dell'inaugurazione della "Scuola di alti studi in economia del turismo culturale" (Cattedra Edoardo Garrone) di Siracusa
Repubblica 24-10-2006