Cosa abbiamo imparato

Chiesa per la scuola /13

Ernesto Diaco

(NPG 2022-02-48)


 

A un anno dalla pubblicazione del sussidio “Educare, infinito presente” da parte della Commissione Episcopale della CEI per l’educazione cattolica, la scuola e l’università, prosegue il dibattito sul contributo della comunità cristiana alla crescita integrale delle nuove generazioni, in cui si inseriscono le istanze del “patto educativo globale” chiesto da papa Francesco ai diversi attori sociali e i dati sulla “frattura educativa” (card. Bassetti) amplificata dalla pandemia.
In un recente contributo su “cosa abbiamo imparato”[1], il sociologo Dario Eugenio Nicoli mette in evidenza come il lascito delle trasformazioni didattiche a cui la scuola è stata costretta comprenda almeno quattro mancanze: della relazione, del corpo, di lavoro, di comunità. Si tratta di dimensioni tra loro collegate, convergenti nell’incidere sulla disposizione ad apprendere da parte del giovane che si forma. In questo tempo, la comunicazione si è concentrata quasi esclusivamente sul linguaggio “denotativo”, impoverendo così la comprensione dell’allievo, che avviene attraverso un’ampia e simultanea mobilitazione di tutte le facoltà umane.
La preponderante mediazione degli strumenti digitali nel rapporto educativo ha inoltre messo in luce la differenza esistente tra un generico aggregato umano, in cui gli individui sono protesi alla ricerca di risorse in grado di soddisfare i propri bisogni, e una comunità, ovvero un contesto a cui rivolgere in primo luogo la propria esigenza di appartenenza e di radicamento. Per ogni alunno – scrive Nicoli – “è essenziale uscire da una prospettiva individualistica per vivere un’esperienza in cui i processi dell’intelligenza si esprimono entro un legame di appartenenza fondato sulla condivisione, sulla lealtà reciproca, su uno spazio comune che conferisca respiro e profondità al gusto del sapere, giungendo a quell’apertura che rende possibile riconoscere e mettere in moto in ognuno l’esigenza etica di realizzazione a favore della comunità”[2].
 
I ragazzi chiedono relazioni e fiducia

La centralità della relazione come respiro “esistenziale”, mediante un accompagnamento che valorizza e dà forma alle facoltà personali immettendo allo stesso tempo in una realtà più grande, è una delle caratteristiche di fondo dei percorsi educativi che si snodano in ambito ecclesiale. È questo, dunque, uno dei punti di incontro fra comunità cristiana e scuola che possono oggi trovare maggiore approfondimento e applicazione.
Lo richiama così la professoressa Daniela Noris, direttore dell’Ufficio per la Pastorale scolastica della Diocesi di Bergamo: “La Chiesa ama la scuola quando offre ciò che essa è e ha, al fine di concorrere al bene dei bambini e dei ragazzi. Nell’accostarsi alla scuola, la Chiesa è chiamata ad una fedeltà al nostro tempo e a una riflessione sulla crisi che investe l’Europa e i paesi occidentali”[3]. Una crisi caratterizzata in particolare da due cambiamenti in atto che investono oggi le nuove generazioni: l’accentuazione del compito del singolo nell’autorealizzazione di sé e la perdita di fiducia nell’individuazione di quella base antropologica universale che renda possibile la comunicazione tra uomini portatori di visioni del mondo differenti.
Bergamo è stata colpita dalla pandemia Covid-19 in modo particolarmente sferzante, tanto che le ferite sono ancora aperte. A più riprese, gli organismi diocesani hanno promosso momenti di condivisione e approfondimento sui temi legati al trauma e alla gestione della relazione educativa. Da tutto questo è emerso – prosegue Noris – che “in questo momento la sfida educativa riguarda la corresponsabilità. La scuola può offrire le esperienze nelle quali bambini e ragazzi, accompagnati dagli insegnanti, incontrano le realtà dove in gioco è la dignità della persona e il rispetto per chi è più fragile o sono a rischio la libertà, la pace, la sostenibilità. Dalle esperienze di convivenza tra loro e di incontro con il diverso, nascono frutti inaspettati e duraturi di verità! Gli insegnanti hanno bisogno di essere accolti e capiti: sentono l’esigenza di ricevere gli strumenti giusti attraverso una formazione di qualità, per vivere la relazione con i bambini e i ragazzi con serenità e competenza”.
Su questo aspetto – conclude la direttrice – “la Chiesa può essere evangelica: rende un servizio prezioso alla scuola e innesca un processo di ripensamento continuo sui fondamenti del nostro agire”. Inoltre, essa può “aiutare le comunità locali e territoriali nella decifrazione e comprensione dell’appello dell’oggi e nel proporre e ospitare le esperienze degli studenti”. Non va dimenticato, infatti, che “i ragazzi chiedono una scuola che educhi ai valori, che proponga orizzonti di vita buona attraverso relazioni con adulti che siano per loro tutor dei loro passi iniziali e che incoraggino quelli successivi”.

Una pastorale delle persone, non delle cose da fare

“In una di quelle sere silenziose e mute del lockdown, ho visto nell’atrio di un condominio, una maestra con le precauzioni di mascherina e distanza, consegnare i quaderni dei compiti a uno dei suoi alunni; e avrebbe proseguito il suo giro da tutti gli altri, aggiungendo a quello strano momento di scuola parole vere di fiducia e di speranza. Che cosa è stata la Chiesa durante il periodo della pandemia? Qualcosa di molto simile a quella maestra: attenzione all’umano, allo spirituale, ad una dimensione che non fosse solo quella delle regole, dimostrandosi sempre pronta e attenta ai bisogni umani”.
Anche la professoressa Silvia Cocchi, incaricata per la Pastorale scolastica della Diocesi di Bologna, fa riferimento all’esperienza più dura della pandemia per descrivere la presenza della Chiesa in campo sociale e in particolare educativo. La sfida, ora, non è molto diversa: “Continuare a cogliere le necessità e le fragilità delle persone, ascoltarle e fare in modo che quelle fragilità diventino forza”. Un’occasione privilegiata per fare questo sono i doposcuola parrocchiali, veri e propri luoghi di accoglienza e integrazione, professionalità e umanità. A Bologna, l’Ufficio diocesano conduce un rapporto stretto con ciascuno di essi, mediante un’opera di sostegno, formativo e materiale, e il monitoraggio delle numerose attività.
A Padova è stato anche prodotto un vademecum per i doposcuola parrocchiali. L’accento di don Lorenzo Celi, direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale della scuola, cade però sulle persone prima che sulle iniziative: “Credo che compito della comunità cristiana sia anzitutto prestare attenzione e ascolto a quanti ‘fanno la scuola’, aiutandoli a vivere in pienezza la loro missione educativa che trova ispirazione nel Vangelo. La pastorale scolastica non può ridursi ad un pacchetto di iniziative che l’istituzione ecclesiastica mette a disposizione, ma vive dell’impegno e dell’apporto di ogni cristiano che opera nelle istituzioni educative”.
Sulla stessa linea si trova don Roberto Gottardo, che dirige l’Ufficio per la pastorale scolastica a Torino. “Bisogna fare attenzione – afferma – a non pensare il rapporto scuola-Chiesa come rapporto tra due enti distinti e separati. La Chiesa è già dentro la scuola perché dentro la scuola ci sono cittadini cristiani, e ci sono senza bisogno di chiedere permessi o di stipulare convenzioni”. Ciò che ci è chiesto, dunque, è “far prendere consapevolezza che l’amore e l’attenzione per la scuola non sono appannaggio di qualche specialista del settore, ma riguardano ogni credente che voglia vivere la sua fede come luce che illumina tutti gli aspetti e tutti gli ambiti dell’esistenza. Per questo, mi auguro che il sussidio ‘Educare, infinito presente’ possa essere oggetto di riflessione non solo per chi opera nel mondo della scuola, ma per ogni comunità ecclesiale”.

Attorno all’educazione si “integra” la pastorale

Nella diocesi di Milano il responsabile dell’Ufficio per la pastorale scolastica è don Fabio Landi. È lui ad osservare che “purtroppo la scuola fatica a intercettare le questioni di senso che accompagnano la crescita degli alunni oppure lo fa attraverso progetti o proposte che si collocano a latere rispetto ai contenuti culturali che le sono propri; è un vero peccato. Proprio ciò che si insegna a scuola potrebbe e dovrebbe fornire ai ragazzi un bagaglio straordinario per affrontare il proprio viaggio esistenziale”. Se la scuola viene avvertita come sterile e noiosa o, al massimo, come luogo in cui acquisire le competenze necessarie a inserirsi nel mondo del lavoro, tradisce una parte decisiva della propria vocazione. Per questo – prosegue – “la Chiesa potrebbe dare un contributo straordinario nel favorire il diffondersi di una sensibilità che riguadagni il valore umanizzante della cultura, aiutando ciascuno a plasmare la coscienza, a decifrare un’emozione o a orientare una scelta”.
Se le alleanze educative sono necessarie a livello territoriale, a maggior ragione vanno costruite all’interno della comunità ecclesiale. Sfogliando le pagine del sussidio della CEI – prosegue don Landi – “ho apprezzato particolarmente il richiamo a una pastorale integrata. Mi sembra urgente che la comunità cristiana nell’insieme avverta il ruolo nevralgico della scuola e dell’educazione: non può più essere un interesse di settore, solo per addetti ai lavori. In particolare il sussidio insiste su un’attenzione vocazionale costante, non estemporanea, che a livello ecclesiale è sempre più al centro della riflessione sull’educazione e che, d’altra parte, difficilmente può essere pensata a prescindere dal confronto concreto con quanto i ragazzi vivono a scuola”.

 

NOTE

[1] D. E. Nicoli, Cosa abbiamo imparato, in CSSC-Centro studi per la scuola cattolica, Fare scuola dopo l’emergenza. Scuola cattolica in Italia. Ventitreesimo Rapporto 2021, Scholé-Morcelliana, Brescia 2021, pp. 53-68.
[2] Ivi, p. 58.
[3] Questa e le successive interviste sono state raccolte dall’Ufficio Nazionale per l’educazione, la scuola e l’università della CEI e pubblicate sul sito https://educazione.chiesacattolica.it/.