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    Dietrich Bonhoeffer: trovare Dio in ciò che conosciamo


    Dietrich Bonhoeffer:

    trovare Dio in ciò che conosciamo

    Vito Mancuso


    Dal carcere nazista, un anno prima di essere impiccato dietro ordine di Hitler (che voleva eliminare tutti i prigionieri politici prima dell’arrivo dell’Armata rossa a Berlino), Dietrich Bonhoeffer scriveva così il 30 aprile 1944 all’amico Eberhard Bethge: “Ti meraviglieresti, o forse addirittura ti preoccuperesti delle mie idee teologiche e delle loro conseguenze”. Teologo a sua volta, Bethge conosceva bene le precedenti opere di Bonhoeffer (Sequela del 1937 e Vita comune del 1938) colme di radicalismo evangelico che non lo avevano per nulla preoccupato perché sviluppate all’insegna della più consolidata tradizione cristiana: quella che pensa il rapporto Dio-Uomo come “rivelazione” unilaterale di Dio e trasmissione di un messaggio inconcepibile dalla ragione umana. È una prospettiva per la quale non si tratta di “trovare Dio”, quanto piuttosto di “essere trovati” da lui: una via non naturale ma sovra-naturale …
    Negli ultimi mesi della sua breve vita però Bonhoeffer compì una sorprendente rivoluzione teologica. Egli ne era consapevole, presentiva l’esplosivo che gli si accumulava nella mente, e per questo scriveva all’amico teologo che in lui maturava qualcosa di preoccupante che descriveva così: “Trovare Dio in ciò che conosciamo”.
    Noi che cosa conosciamo? La vita quotidiana. Essa quindi diviene il luogo privilegiato della conoscenza di Dio, mentre perdono importanza la Bibbia e le sue storie, al contrario di quanto insegnano le tradizioni ebraica e cristiana, e anche musulmana. Il che costituisce una rivoluzione inaudita per i monoteismi, ed era di questo che Bethge avrebbe dovuto meravigliarsi e preoccuparsi. Così gli scrive l’amico il 30 maggio ’44: “Dobbiamo trovare Dio in ciò che conosciamo, non in ciò che non conosciamo. Dio vuole essere colto da noi non nelle questioni irrisolte, ma in quelle risolte. Questo vale per la relazione tra Dio e la conoscenza scientifica. Ma vale anche per le questioni umane in generale, quelle della morte, della sofferenza e della colpa”. Proseguiva: “Gli uomini di fatto vengono a capo di queste domande anche senza Dio, è semplicemente falso che solo il cristianesimo abbia una soluzione”. E concludeva: “Dio non è un tappabuchi”.
    Non so se, usando la parola “tappabuchi”, Bonhoeffer avesse direttamente in mente Nietzsche. Di certo tale termine si ritrova tale e quale in questo passo del filosofo sul cristianesimo: “Lo spirito di questi redentori era fatto di buchi; ma in ogni buco essi avevano ficcato la loro illusione, il loro tappabuchi da loro chiamato Dio” (Così parlò Zarathustra, II, Dei preti; testo originale: Aus Lücken bestand der Geist dieser Erlöser; aber in jede Lücke hatten sie ihren Wahn gestellt, ihren Lückenbüsser, den sie Gott nannten).
    Lückenbüsser, tappabuchi. Bonhoeffer fa sua la critica radicale di Nietzsche osservando che il ruolo di Dio e ancor più di Cristo risultano funzionali alla copertura di un enorme buco introdotto dal cristianesimo nella coscienza umana il cui nome è “peccato originale”. Nella sua cella, alle prese con carcerieri e carcerati, mentre a Berlino suonavano ogni giorno sempre più forte le sirene dell’allarme, Bonhoeffer si rese conto che la costruzione tradizionale del cristianesimo non funzionava più. E aveva il coraggio di dichiararlo, ecco quanto scrive il 3 agosto 1944: “La Chiesa deve uscire dalla sua stagnazione. Dobbiamo tornare all’aria aperta del confronto spirituale col mondo. Dobbiamo anche rischiare di dire delle cose contestabili, se ciò permette di sollevare questioni di importanza vitale. Come teologo «moderno», che tuttavia porta ancora in sé l’eredità della teologia liberale, io mi sento tenuto a mettere sul tappeto tali questioni” (p. 458).
    Che fare quindi di Dio? La sua risposta è un inno alla vita naturale: “Il divino non nelle realtà assolute, ma nella forma umana naturale” (appunti fine giugno ’44, p. 406); e ancora: “L’aldilà non è ciò che è infinitamente lontano, ma ciò che è più vicino” (idem, p. 454); e infine: “L’esserci-per-altri di Gesù è l’esperienza della trascendenza” (idem, 462). Tra gli autori di riferimento vi sono Goethe, Plutarco, Cusano, Giordano Bruno, Spinoza, Kant.
    Si tratta di una rivoluzione: l’incontro con Dio avviene in ciò che conosciamo e possiamo attuare noi stessi: non nella sospensione della libertà ma nella sua esaltazione tramite la dedizione al bene e alla giustizia. Il che lo può fare ogni essere umano, del tutto a prescindere dall’adesione al cristianesimo e alla Chiesa. Per lui infatti “essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo… significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo di uomo, ma un uomo” (16 luglio ’44, p. 441).
    È questo il motivo che spinse Bonhoeffer a studiare gli Dei greci di cui scriveva all’amico: “Capisci che gli Dei presentati in questo modo mi scandalizzano meno di determinate forme di cristianesimo? Anzi, che credo quasi di poter rivendicare questi Dei in favore di Cristo?” (21 giugno ’44, p. 408). È esattamente il contrario della visione tradizionale del cristianesimo, in particolare del protestantesimo, i cui capisaldi sono l’apostolo Paolo, Tertulliano, Agostino, Lutero, Kierkegaard, Barth. Ed è invece una ripresa della linea umanistica che ha tra i suoi esponenti Giustino, Origene, Cusano, Erasmo, Teilhard de Chardin. Tale teologia comporta il superamento del concetto di “elezione” e di “popolo eletto”, e del conseguente disprezzo per gli altri popoli e le loro religioni. Rivendicare gli Dei a favore di Cristo significa vedere in Cristo non qualcosa di opposto, ma qualcosa che guarda nella stessa direzione della religione greca e delle altre religioni naturali. Il concetto decisivo è quello di natura, ritenuta non corrotta ma buona, proveniente da Dio e quindi in grado di parlare di lui. Gli Dei così vengono compresi per quello che realmente sono: voci del divino presente nella natura e nella cultura. E da qui sorge un sentimento di comunione con tutti gli esseri umani che hanno cercato onestamente il bene e la giustizia, la dimensione divina per eccellenza.
    Un saggio di questa nuova spiritualità è il modo in cui Bonhoeffer parla del sole il 30 giugno ‘44: “Il sole… vorrei farmi stancare da lui anziché dai libri e dalle idee, vorrei che risvegliasse la mia esistenza animale; non quella animalità che sminuisce l’essere uomo, ma quella che lo libera dall’ammuffimento e dall’inautenticità di una esistenza solo spirituale, e rende l’uomo più puro e più felice”. L’inautenticità di un’esistenza solo spirituale! La vera spiritualità quindi sorge dal contatto immediato con la materia del mondo, un contatto senza leggi esteriori: è il completo superamento della spiritualità biblica. Bethge aveva davvero di che preoccuparsi.
    Noi, però, molto meno di lui. A maggior ragione oggi infatti non è più possibile pensare Dio come un tappabuchi, perché la fede non tappa i buchi della ragione, non colma alcun vuoto conoscitivo. Essa è piuttosto energia che agisce a livello pratico, facendo in modo che la coscienza, di fronte all’antinomia cui è inchiodata a livello teoretico, scelga a favore del bene e della giustizia. La fede è ragione pratica perché riguarda l’atteggiamento complessivo di fronte alla vita.
    E di fronte alla vita la partita a mio avviso si gioca oggi ultimamente tra Nietzsche e Kant: tra chi sostiene l’impero della forza e chi il primato dell’etica. Il bene e la giustizia esistono? Nietzsche risponde di no, sostenendo che non sono altro che invenzioni interessate dei deboli. Kant risponde di sì, sostenendo che il valore di un essere umano si misura dalla sua capacità di riprodurli. Qui si gioca tutto. O si ritiene che tutto è forza e il bene è inganno e illusione; oppure si ritiene che oltre alla forza c’è la dimensione del bene, della giustizia, dell’amore, e che proprio questa è la dimensione più vera a cui si deve aspirare e conformare la vita. È questo lo statuto della “nuova verità”, di cui Bonhoeffer scriveva così: “Sarà un linguaggio nuovo, forse completamente non religioso, ma capace di liberare e di redimere, come il linguaggio di Gesù, tanto che gli uomini ne saranno spaventati e tuttavia vinti dalla sua potenza, il linguaggio di una nuova giustizia e di una nuova verità” (Pensieri per il giorno del battesimo di Dietrich W.R. Bethge, maggio ’44, p. 370).

    (La Stampa - 20 maggio 2022)


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