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    La porta della bellezza

    Bruno Forte

    Arcivescovo di Chieti-Vasto


    Sviluppo la mia riflessione in due brevi momenti: il primo dedicato ai nomi del bello, evocativi di esperienze e mondi vitali; il secondo specificamente rivolto al rapporto fra architettura, bellezza e sacro.

    1. Dire il bello

    Un primo nome del bello è l’ebraico “tov”: il termine ricorre come un canto fermo quale commento divino all’opera dei sei giorni (cf. Gen 1, 4. 10. 12. 18. 21. 25. 31: “E Dio vide che ciò era buono/bello”), dicendo inseparabilmente la bontà e la bellezza del creato agli occhi del Creatore. In rapporto alle otto opere di Dio la parola ricorre sette volte: secondo la tradizione rabbinica non è detto dell’opera del secondo giorno perché in essa Dio compie la separazione delle acque dalle acque, della terra dal cielo, che sembra contraddire alla bellezza come unità e corrispondenza. Ciò significa che il creato è bello perché è domanda, desiderio del cielo: “tov”, bello è dunque ciò che nutre il desiderio, lanciando ponti verso l’Eterno per cui siamo fatti. Il bello e il bene sono desiderio dell’Eterno, sete del cielo, sete della bellezza nascosta...
    Un secondo nome del bello è il greco kalos (dal sanscrito “kalyah”): il bello chiama, attira a sé, è amabile, si offre, viene incontro. La bellezza è appello, offerta, avvento dell’Altro... “Estatico” è il bello, e non lo raggiunge se non chi si perde, chi accetta di essere attratto fuori di sé per andare verso l'altro nel movimento d'amore oltre ogni cosa, oltre l'essere, il divino e il bene, in quanto pensati al di fuori dell'estasi suprema da sé e da ogni possesso del sé...
    Un terzo nome della bellezza è il latino pulcher (da un cognome romano): bello è, cioè, qualcuno, un soggetto concreto; la bellezza è sempre in un “frammento”, fragile, finita.... La bellezza ha insomma un'aura tragica: il suo bacio è mortale, perché il Tutto che si offre nel frammento ne rivela l'inesorabile finitezza. Il bello denuncia la fragilità del bello. La bellezza è come la morte, minacciosa nella sua imminenza: è questa la ragione profonda per la quale l'esperienza del bello è impastata di malinconia. Il bello ricorda agli abitatori del tempo la caducità della loro dimora, che appare fasciata dal silenzio del nulla. E poiché la vertigine del nulla produce l'angoscia, si intuisce quanto angosciosa possa rivelarsi la bellezza: sospeso sugli abissali silenzi della morte, il cuore umano, sovrastato dal bello, si fa inquieto riguardo al suo destino.
    Un quarto nome del bello è il latino formosus (da “forma”: il termine si conserva ad esempio nel castigliano “hermoso”): bello è ciò che ha forma, dove la proporzione delle parti rispecchia l’armonia dei numeri del cielo. La bellezza è ordine, armonia, pace: raccolto riposo dell’anima. “(Le cose sono belle) perché le parti ... per una sorta di intimo legame danno luogo ad un insieme conveniente” [1]. Rispetto alla visione greca Agostino innova, tuttavia, su due punti: il primo è che la bellezza per lui non è qualcosa, ma Qualcuno, un Tu amato: “Sero te amavi, pulchritudo tam antiqua et tam nova, sero te amavi!” (“Tardi Ti amai, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi Ti amai!”) [2]. Il secondo è che il bello come armonia non dà ragione del male e della sofferenza: da una parte Agostino spiega la disarmonia come momento dialettico necessario, che sta al bello come l’ombra alla luce; dall’altra cerca insoddisfatto altre possibilità.
    Un quinto nome del bello è quello che evoca l’irradiarsi della luce: splendido è il bello, radioso come il sole del mattino, ed insieme pudico come lo stesso sole alle prime luci dell’alba, o infiammato di sangue come l’astro nell’ora che volge al tramonto, quando sa tingere ogni cosa del sapore della nostalgia [3]. Claritas è il termine usato da Tommaso d’Aquino alla ricerca di questa ulteriore, conturbante bellezza: Il Tutto si fa presente nel Figlio incarnato non solo come armonia, ma anche come trasgressione, irradiazione, rapimento, lacerazione: l’Infinito nella fragilità del finito, l’Eterno nel tempo, il Bene sommo nella morte di Croce. L’agape crocefissa è la rivelazione della bellezza che salva... È da qui che nasce il nome destinato a più larga fortuna nelle lingue dell’Occidente: “bello”...
    Bello viene dal latino medioveale “bonicellum”, “piccolo bene, bene abbreviato”: da qui derivano i termini che nelle lingue romanze designano il nostro oggetto: “bello”, “bonito”, “beau”, “beautiful”. La bellezza è la contrazione dell’Onnipotente nella debolezza, del divino nell’umano, della gloria nell’umiltà e nella vergogna della Croce: il bello è umiltà, kènosi dello splendore e proprio così paradossale splendore della kènosi. Come dice San Francesco nelle Lodi del Dio Altissimo: “Tu sei santo, Signore, solo Dio, che operi cose meravigliose. Tu sei forte. Tu sei grande. Tu sei altissimo. Tu sei re onnipotente. Tu, Padre santo, re del cielo e della terra. Tu sei trino ed uno, Signore Dio degli dei, Tu sei il bene, ogni bene, il sommo bene, il Signore Dio vivo e vero. Tu sei amore e carità, Tu sei sapienza. Tu sei umiltà...Tu sei bellezza...”.
    Altri nomi potrebbero essere qui evocati (ad esempio quello di “sublime”, derivante da “sub limen”, sospeso all’architrave della porta, al “limen” e dunque alto, elevato: amato dalla filosofia moderna, esso è definito da Kant come ciò il cui solo pensiero dimostra “la presenza di una facoltà dell’animo nostro che trascende ogni misura sensibile” [4]): il settimo nome del bello resta, però, più propriamente custodito nel silenzio. È la bellezza oltre ogni bellezza, il silenzio di Dio oltre le tante parole degli uomini che cercano di dire l’indicibile. È la voce del silenzio che secondo il testo ebraico solo parla ad Elia sull’Oreb (1 Re 19,12). La bellezza vera è sempre oltre, irraggiungibile eppure desiderata, attraente eppure nascosta, infinita eppure presente nel finito, vivente eppure donata nella morte, mortale eppure salvifica, temporale e tuttavia eterna: essa passa e puoi vederla solo di spalle... Il bello evoca, non cattura; invoca, non pretende; provoca, non sazia. È la bellezza significata nel suo contrario, la porta della bellezza, la bellezza di Dio...

    2. Architettura e Sacro

    a) La scrittura della luce
    In un testo le cui conseguenze per la storia dell’arte occidentale difficilmente saranno esagerate, il Concilio Costantinopolitano IV nell’870, confermando la condanna dell’iconoclastia da parte del Niceno II (787), afferma che “quanto il discorso (lógos) fa nelle sillabe (en syllabé) la scrittura in colori (è en krómasi grafé) lo annuncia e lo rende presente” (DS 654). A prima vista può apparire paradossale il collegamento fra il “sillabare del lógos” e la “grafia dei colori”: esso tuttavia non sorprende chi sa come nella tradizione orientale l’iconografo non sia colui che dipinge, ma colui che “scrive” l’icona. E la “scrive” precisamente perché si serve di linee e colori. Come la linea delimita lo spazio e circoscrive una forma, così fa la lettera dell’alfabeto o il disegno dell’ideogramma: la linea dà forma allo spazio, lo in-scrive. L’icona in quanto spazio “in-formato” è perciò “scritta”. Il colore invece dà luminosità alla forma così definita, facendo emergere in essa dalla tenebra indefinita lo splendore della luce originaria. La linea - in quanto limita e circoscrive - è “kènosi”, il colore - in quanto illumina e irradia - è “splendore”. Mentre la linea definisce la separazione, il colore manifesta l’unità fra il Tutto ed il frammento: grazie alla loro combinazione, il Tutto può offrirsi nel frammento e il frammento ospitare la totalità evocandola. È così che la luce in-scritta assume forma e può offrirsi come evento di bellezza. Questo evento si compie quando l’accadere del Tutto nel frammento avviene in un modo che non confonda i due termini, ma faccia dell’uno la cifra e dell’altro, l’ulteriorità annunciata e resa presente: in tal senso, la bellezza della forma è “kenosi” dello “splendore” e “splendore” della “kenosi”.


    b) L’architettura come kénosi e come splendore
    L’architettura è forma dello spazio abitata dalla luce. Proprio in quanto tale, essa si offre come una realizzazione singolare del gioco di contrazione e di splendore, con cui l’immaginario biblico concepisce l’atto creatore: nel racconto dell’opera dei sei giorni, culminante nel riposo divino dello Shabbat, lo spazio appare quale il risultato del “ritrarsi” del Creatore in se stesso perché la creatura esista, secondo la dottrina dello “zim-zum”, o divino contrarsi, e analogamente secondo la teologia cristiana dell’annientarsi del Figlio sulla Croce perché la kénosi dell’Infinito dia vita piena alle creature di Dio. Se frutto della kènosi divina è lo spazio, lo splendore del Sabato ebraico - anticipo d’eternità, unica delle realtà create di cui è detto che è santa - e quello del Risorto a Pasqua segnalano nel dinamismo del tempo l’impronta della vita eterna: la forma

    dello spazio è fatta per essere abitata dallo splendore del tempo, riflesso umile dell’eterno divenire della vita divina. Proprio così l’architettura - intesa come l’opera volta a far “abitare lo spazio”, plasmando la forma nel suo rapporto con l’irradiarsi della luce ad essa impressa dagli abitatori del tempo - può costituire un singolare stimolo a ricordare come solo lo splendore originario vivifichi veramente lo spazio, pervadendolo col “gemito della creazione” per superarne la costitutiva caducità, e come dunque la grande sfida posta all’architetto - artista non sia quella di fuggire le forme che necessariamente delimitano, ma quella di abitarle portando in esse l’impronta, la nostalgia e l’attesa della bellezza eterna.

    c) Architettura sacra
    In tal senso, l’architettura volta a far abitare la forma dello spazio con lo splendore della luce divina, l’architettura “sacra”, non è che preparazione e dilatazione della liturgia, intesa come l’evento in cui l’eternità viene a prendere dimora nel tempo, perché l’oggi si riconosca custodito e vivificato nel grembo dell’eternità. L’architetto, artefice di tale spazio, forma dello splendore, è una sorta di “pontifex”, di liturgo che realizza nelle forme della contrazione spaziale l’incontro fra il tempo e l’eterno, un collaboratore umile del Creatore: “La creazione continua e il Creatore si avvale delle sue creature; coloro che cercano le leggi della natura per conformarvi nuove opere collaborano col Creatore ... Perciò, l’originalità [architettonica] consiste nel tornare all’origine” (Anton Gaudì). La forma architettonica ideale è allora quella più vicina allo sviluppo spontaneo dell’ambiente voluto dal Creatore: “La realizzazione di una cosa sta nel porne la legge in accordo con quella della creazione”. L’ambiente che ne risulta è veramente uno spazio per abitare l’arte: in esso tutto si corrisponde, perché la luce e la forma si incontrano armonicamente. “La luce deve essere giusta, né troppa, né poca, poiché tanto l’una come l’altra accecano”. I colori devono essere “netti e inconfondibili e i meglio appropriati per essere distinti bene a distanza”. Chi entra in uno spazio creato dall’uomo secondo questi criteri potrà assaporare la stessa armonia che c’è nello spazio originario plasmato dal Creatore, e la continuità fra l’ambiente interno ed esterno potrà assicurare la qualità della vita per tutti, d’una vita che abiti il tempo gustando già qualcosa della bellezza dell’eternità.


    d) Levità e pesantezza
    Le forme dello spazio plasmato dall’uomo non dovranno allora catturare la luce, ma servirla: è la luce l’icona dello splendore, che deve pervadere e plasmare dal di dentro la forma. In architettura, un’opera d’arte è tale se in essa si esprime la forma senza vanificare il colore e il colore senza vanificare la forma, come avviene invece nella pesantezza del “kitsch”. Un’architettura “lieve” è quella capace di esprimere nel frammento l’intensità del Tutto, evocando la totalità senza catturarla nelle maglie del disegno: in essa la linea e il colore si inabitano in modo tale che la pesantezza dello spazio chiuso non impedisca alla luce di attraversare la forma, e la forza del colore non risolva in sé in una indebita confusione ogni determinatezza spaziale. Proprio così, un’opera di architettura può divenire riflesso della divina bellezza: e questo non in base al motivo più o meno “sacro” che essa voglia esprimere, ma in base alla levità dell’evocazione, alla sobrietà della

    forma, alla purezza della luce, combinate in un gioco di discrezione e di eleganza assolute. Un ambiente così plasmato è tutto e solo arte da abitare: un’arte che - in quanto anticipo d’eterno - non può essere privilegio di pochi. Anche i poveri hanno diritto alla bellezza: ecco perché non è solo lo spazio interno, ma anche quello che esternamente si offre sul pubblico e sul comune che va concepito secondo questi criteri. Abitare l’arte deve essere compito di tutti gli artisti e diritto di tutti gli abitanti della grande casa che è il mondo.

    NOTE

    1 Ib., 32,59.
    2 Confessiones, X, 27, 38.
    3 Due esempi letterari di questa bellezza: “Albeggiò sulla Mancia: l’aurora mi parve arrossire perché si era ricordata di quel luogo” (Miguel de Cervantes); “La luce rossastra del tramonto illumina ogni cosa con il fascino della nostalgia: anche la ghigliottina” (Milan Kundera).
    4 Critica del giudizio, par. 25: il termine tedesco è “das Erhabene”.

    (Presentazione alla Facoltà di Architettura - Pescara - 22 Novembre 2017)


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