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    Veramente “Dio a modo mio”?


    Paola Bignardi

    (NPG 2017-01-72)

    Quella dei giovani di oggi è la prima generazione incredula? Sì, se si confronta l’esperienza delle nuove generazioni con le forme canoniche e tradizionali della fede cristiana cattolica. Se si guardano i numeri, c’è motivo di riflettere: i giovani che si dichiarano credenti sono il 55,9%. Questi sono i risultati della rilevazione effettuata dall’Istituto Toniolo[1] nell’ambito del Rapporto Giovani del 2013[2]. Ma già i dati del 2014 segnalano un’erosione di questa cifra. La percentuale passa al 52,2%: una piccola differenza, tuttavia non insignificante se si considera che è avvenuta nell’arco di un anno. Al tempo stesso, la percentuale di coloro che si dichiarano atei nel 2013 è pari al 15,2%; nel 2014 sale al 17,7%.
    Interessante e illuminante è considerare la percentuale di giovani credenti che dichiarano una pratica religiosa settimanale: solo il 24,1% frequenta la Chiesa una volta a settimana e il 16,1% una volta al mese. I giovani che, pur dichiarandosi cattolici, non frequentano mai la Chiesa sono il 28,3%. Dunque quanti dicono di sentirsi cristiani e cattolici vivono la loro fede senza sentire il bisogno di osservare il precetto della partecipazione domenicale all’Eucaristia e soprattutto senza avvertire l’esigenza di condividere con una comunità una pratica liturgica assidua, quella che al catechismo è stata proposta come il culmine della vita cristiana e come uno degli elementi identificativi dell’essere cattolici.
    Se si guarda un po’ al di là della superficie, quella giovanile è una generazione che ha un proprio mondo interiore e religioso. Ma: “a modo mio!”. È una generazione che crede a modo proprio.
    Questo è il risultato non scontato della ricerca realizzata dall’Istituto Toniolo[3]. Lo spaccato interiore del mondo giovanile che emerge dalle 200 interviste realizzate su un campione nazionale è di grande interesse e rilievo per tutti coloro che hanno a cuore i giovani e la missione della Chiesa e che hanno la responsabilità di annunciare alle nuove generazioni la buona notizia, accompagnandone il cammino di vita cristiana nei suoi primi passi.

    In che senso “Dio a modo mio”?

    È naturale chiedersi come si è arrivati a questa situazione. Che cosa spiega il modo così marcatamente soggettivo di vivere l’esperienza religiosa?
    Si possono individuare tre caratteristiche del mondo giovanile che possono motivarne i comportamenti religiosi.
    L’individualismo diffuso spiega il fatto che i giovani vivono ogni esperienza, anche quella religiosa, riconducendola al proprio io, alla propria soggettività. Questo implica anche il desiderio di rendersi conto personalmente delle proprie scelte, la tendenza a portare tutto dentro la propria coscienza; qualche volta il sentire soggettivo, altre volte il capriccio contribuiscono a dare identità e a definire i confini della propria esistenza. Dunque anche la dimensione religiosa non è sottratta a questo criterio: si crede ciò per cui si hanno delle ragioni, non quelle consegnate dai genitori o quelle trasmesse da un’autorità ritenuta impositiva, ma quelle passate al vaglio della propria coscienza. Se non ritiene di avere ragioni convincenti per credere, un giovane preferisce lasciar perdere, senza per questo dimenticare quell’esigenza di trascendenza e di assoluto che ha dentro di sé; o senza essere più sensibile al fascino di quelle dimensioni di vita cristiana cui l’iniziazione l’ha avviato.
    La questione religiosa così per molti resta sotto la cenere, come una brace accesa, ma coperta, senza che possa scaldare né essere vista. Tuttavia è viva, e basta che qualcuno riesca a soffiare via la cenere, che la brace può tornare ad ardere, a scaldare, a vivere.
    L’adolescentizzazione del mondo giovanile, caratterizzato a lungo, ben oltre l’adolescenza, dal non riconoscimento di nessuna autorità. Si tratta di un’opposizione che non sempre sfocia in un conflitto aperto e crudo, ma di una tensione che crea lontananza da tutto ciò che sembri voler invadere o influire sulla propria vita. Senza accorgersi di quanto invadenti siano i social con cui i giovani hanno grande familiarità o quanto influiscano sulle loro scelte le mode e le opinioni diffuse che, soprattutto su certi aspetti della vita, finiscono con l’annientare completamente scelte personali vere, gusti, orientamenti…
    Atteggiamento anti istituzionale. L’indagine quantitativa del Rapporto Giovani mostra quanto le nuove generazioni si sentano lontane o estranee a tutte le forme di istituzione: quelle civili, formative, religiose. Se i dati che segnano la distanza dei giovani dalle istituzioni politiche registrano percentuali drammaticamente basse, anche quelle religiose non sono da meno: la Chiesa riscuote un tasso di fiducia di 4 su 10. L’unica figura che i giovani riconoscono come loro riferimento è quella di Papa Francesco, e questo, paradossalmente, perché ad essa si attribuiscono tratti non istituzionali. L’atteggiamento nei confronti dell’istituzione si manifesta poi nell’insofferenza verso regole e prescrizioni, nella loro messa in discussione continua: tutto si vorrebbe passare al vaglio della propria possibilità di decisione. Con l’esito, non avvertito, che tutto deve essere di continuo ri-deciso, senza regole acquisite e routine, senza comportamenti abituali e consolidati che sottraggano al bisogno di reinventare ogni volta ogni scelta: davvero una grande fatica!
    Infine non si può non citare il senso di fastidio nei confronti della Chiesa percepita come luogo di contro testimonianza, a causa dei molti episodi di corruzione che sono stati al centro della cronaca di questi ultimi anni o che vengono colti, pur senza avere la gravità degli episodi di cronaca, nella vita ecclesiale quotidiana. Ma al di là di queste vicende, molti giovani non capiscono quale relazione debba mai esserci tra il loro rapporto con Dio e la dimensione ecclesiale e comunitaria.
    Quali esiti potrà avere questa situazione? È tutta la comunità cristiana che deve interrogarsi e decidere quale orientamento intende prendere, consapevole che si trova di fronte ad un bivio; dalla scelta del percorso dipende il suo futuro e inevitabilmente, il futuro della fede della Chiesa.
    Si può forse non riconoscere la gravità del processo che porterà nel giro di qualche anno ad una fede molto privata e soggettiva, senza Chiesa? Ci si vuole rassegnare a un’idea di Chiesa fortemente segnata da caratteri un po’ new age che già si intravedono nella sensibilità religiosa di molti giovani?.
    O, al contrario, si vuole lavorare nella direzione di una fede più personale e più matura, che non necessariamente coincide con le attuali forme del credere proposte dalla Chiesa. E questo è il vero, drammatico punto critico! È come se la pastorale dovesse fare un passo indietro dalle sue abitudini, dalla sua organizzazione, e interrogarsi su come far maturare nei giovani una fede al tempo stesso personale ed ecclesiale; personale eppure ecclesiale.
    Non sarà certamente lasciare le cose come stanno che potrà dare un futuro alla fede della Chiesa nel contesto occidentale di oggi.

    Una generazione di transizione

    I punti deboli che i giovani intervistati rintracciano nella loro formazione catechistica sono molti. Tutti battezzati per scelta metodologica dei ricercatori, hanno in genere frequentato i percorsi di iniziazione cristiana in parrocchia. Di questa esperienza hanno tutti un ricordo negativo; pur con sfumature diverse, dichiarano di essersi sentiti costretti a frequentare il catechismo, di averlo vissuto come un’esperienza simile a quella della scuola, che avevano in buona parte subito; soprattutto dicono di essersi sentiti costretti ad andare a Messa, rito cha hanno avvertito come anonimo e freddo.
    Proprio questo clima anonimo della comunità cristiana e la freddezza dei contesti formativi hanno lasciato nella memoria dei giovani il desiderio di chiudere con un’esperienza pesante e mortificante: cosa che in genere hanno fatto, dopo la celebrazione dei sacramenti.
    Del resto, l’allontanamento dei giovani dalla pratica religiosa e dalla comunità cristiana è di evidenza solo che si frequenti una qualsiasi Messa domenicale.
    Le interviste citate sembrano riecheggiare in alcuni passaggi le parole di Papa Francesco a Firenze, dove parla della tentazione gnostica: “Una tentazione da sconfiggere è quella dello gnosticismo. Essa porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello. Il fascino dello gnosticismo è quello di ‘una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze’[4].
    I giovani affermano che al catechismo erano costretti ad imparare cose per lo più astratte e lontane dalla loro vita. Il modello di una religiosità che coincide con alcune verità da apprendere, sopravvivenza di un modo di intendere la formazione cristiana tipico di un tempo di cristianità, finisce con il far perdere il gusto della fede e la sua dimensione di esperienza che tocca tutti gli aspetti della vita.

    Provocazioni per la pastorale

    Il mutare della sensibilità religiosa dei giovani rende evidente come le comunità cristiane dei contesti europei e occidentali debbano porsi la questione della fede e del suo futuro, strettamente implicato dall’atteggiamento dei giovani di fronte ad essa.
    Qualunque siano le decisioni che verranno assunte in futuro dalla Chiesa italiana, vi sono alcune scelte di stile che non possono non essere compiute, già da oggi.
    La prima riguarda l’atteggiamento nei confronti del mondo giovanile: occorre che le comunità cristiane ascoltino i giovani e si lascino provocare dalle loro domande, quelle espresse e quelle taciute. Ogni operatore pastorale è consapevole che, senza un’adeguata conoscenza delle persone cui si rivolge la sua azione, rischia l’inefficacia. E il modo migliore per conoscere è quello di ascoltare, di entrare in relazione. Lo ha ricordato anche Papa Francesco nella sua omelia ai partecipanti al convegno ecclesiale di Firenze, affermando come a Gesù interessi ciò che la gente pensa «non per accontentarla, ma per poter comunicare con essa». Senza sapere quello che pensa la gente, il discepolo si isola e inizia a giudicare la gente secondo i propri pensieri e le proprie convinzioni. Mantenere un sano contatto con la realtà, con ciò che la gente vive, con le sue lacrime e le sue gioie, è l’unico modo di poterla aiutare, di poterla formare e comunicare. (…). È l’unico modo per aprire il loro cuore all’ascolto di Dio. In realtà, quando Dio ha voluto parlare con noi, si è incarnato.”[5]
    Vi è poi una grande questione che interpella non solo la pastorale ma anche la teologia, e forse questa in primo luogo: ed è quella della tradizione, alla prova del tempo. Giovanni XXIII, nel suo discorso ad apertura del Concilio, ebbe ad affermare che la funzione di quell’assise non doveva essere tanto quella di condannare errori o ridefinire aspetti dottrinali, e tanto meno di ripetere dottrine già note, ma piuttosto di capire come fare incontrare la fede cristiana con le esigenze dell’uomo del nostro tempo.
    Il patrimonio immutabile dell’essere cristiani si esprime nelle forme concrete di una cultura, con i suoi linguaggi, le sue strutture di pensiero, le sue categorie culturali. Oggi la dottrina e la vita cristiana si esprimono, nel nostro contesto, con i caratteri di una cultura profondamente in crisi. Come fare in modo che la crisi dell’Occidente e della sua cultura non travolga anche la Chiesa e la sua possibilità di annunciare il Vangelo alle nuove generazioni?
    Legata a tale questione, in forma particolarmente evidente, è quella dei linguaggi. Oggi le forme della preghiera e della fede, così fortemente debitrici dei linguaggi della teologia occidentale, risuonano per le nuove generazioni come astruse e fuori tempo. Il linguaggio astratto delle attuali forme espressive appare ai più giovani vuoto e estraneo alla loro vita. Non solo: sembrano loro comunicare un mondo che non c’è più e accrescono nei giovani l’impressione che la formazione cristiana voglia renderli conformi a modelli passati, sradicandoli dalla cultura attuale.
    I giovani intervistati vorrebbero forme ecclesiali calde e coinvolgenti; la loro domanda di relazioni, nel contesto della comunità e della liturgia, è molto forte. Si torna alla tentazione gnostica di cui parla Papa Francesco. Se le nostre comunità non impareranno a curare il senso di appartenenza, non riusciranno a mettersi in comunicazione con il mondo giovanile. Il senso di appartenenza non nasce dall’adesione ad una serie di verità e ad uno stile di vita condiviso. Oggi il percorso è rovesciato: prima ci si sente coinvolti in una comunità, e poi si inizia a prenderne in considerazione il pensiero, le proposte, lo stile… L’appartenenza è costituita da una catena di legami, e non può essere scambiata con una serie di discorsi, pure persuasivi, sull’essere comunità. Si sa che creare legami è più complesso che fare una lezione di catechismo!!!
    L’ultima provocazione riguarda la qualità delle figure educative e pastorali che animano le proposte ai più giovani. Dove gli educatori si sentono soprattutto dei maestri, missionari di una parola astratta, hanno poche possibilità di essere efficaci. Oggi i giovani cercano figure di testimoni credibili e convincenti, coinvolgenti e appassionanti. Oltre 40 anni fa, nell’Evangelii Nuntiandi, Paolo VI invitava a considerare il primato della testimonianza sull’insegnamento. La credibilità del testimone e la sua funzione esemplare aumentano l’efficacia della parola e invitano a prendere in considerazione il messaggio che il testimone incarna e propone.
    Può anche darsi che oggi, invece che di maestri sul piano della fede, ci sia la necessità semplicemente di compagni di viaggio, disponibili con umiltà ad accompagnare percorsi di fede dai quali i giovani possono anche sentirsi lontani.

    La Chiesa non può fare a meno dei giovani

    Che Chiesa sarebbe quella che si privasse del mondo giovanile? Vi è un aspetto ovvio, in questo interrogativo: una Chiesa senza giovani sarebbe destinata all’estinzione; del resto questo vale per ogni società e per ogni istituzione. Ma se si considerasse solo l’aspetto del ricambio generazionale, ci si porrebbe in una prospettiva conservativa e senza prospettiva, che alla lunga renderebbe la Chiesa vecchia e fuori tempo.
    La Chiesa non può fare a meno dei giovani perché essi sono la componente più dinamica di ogni contesto sociale: desiderare i giovani come componente presente e viva in una comunità significa far loro posto, dare spazio alla loro iniziativa e al loro protagonismo, lasciarsi ringiovanire da essi. Allora bisogna lasciare che esprimano la loro cultura e sensibilità; lasciarsi provocare dai loro interrogativi senza pretendere di avere la risposta pronta ancor prima di aver riflettuto sulle domande. E non si tratta di accogliere le loro posizioni in maniera indiscutibile, ma di entrare con esse in un confronto dialogico vero, in grado di generare una Chiesa capace di camminare con il passo del tempo.
    La questione dei giovani riguarda la Chiesa tutta: non è un segmento della pastorale da delegare alla pastorale giovanile, ma è questione vitale di tutta la comunità, in tutte le sue componenti ed espressioni.

    NOTE

    [1] L’Istituto Giuseppe Toniolo è l’ente fondatore dell’Università Cattolica del S. Cuore. L’indagine è realizzata da un gruppo di ricercatori della stessa Università, con la collaborazione di IPSOS per la raccolta dei dati.
    [2] L’Istituto Toniolo realizza dal 2012 un’indagine a carattere nazionale sul mondo giovanile. Dal 2012 sono stati prodotti due Rapporti: La condizione giovanile in Italia,. Rapporto Giovani 2013, Il Mulino, Bologna 2013 e La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani 2014, Il Mulino, Bologna 2014.
    [3] I risultati di questa ricerca sono pubblicati nel volume Dio a modo mio, a cura di R. Bichi e P. Bignardi, Vita e Pensiero, Milano 2015.
    [4] Papa Francesco ai partecipanti al V Convegno ecclesiale della Chiesa italiana, 10 novembre 2015
    [5] Papa Francesco, Omelia allo stadio comunale di Firenze, 10 novembre 2015.


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