Il problema dell'identità
della fede cristiana
di fronte al pluralismo religioso
in una prospettiva educativa
Franco Brambilla
Premessa: un pizzico di storia
La formulazione del nostro tema riguarda il rapporto tra l'identità della fede cristiana e il pluralismo religioso, in altri termini il rapporto tra la singolarità di Cristo e la sua universalità. L'approdo che vorremmo raggiungere è quello anche di prefigurare alcuni atteggiamenti educativi che consentano una corretta gestione del rapporto. Tuttavia questa intenzionalità educativa non può essere precipitosamente assunta a monte di una chiarificazione teologica della problematica. Di qui l'indice della mia relazione. Dopo un pizzico di storia che ci aiuti ad evocare il passato prossimo del problema, svolgerò tre aspetti della questione.
- i modelli del rapporto tra cristocentrismo e religioni;
- la discussione critica dei problemi e delle soluzioni emergenti dal dibattito;
- alcuni orientamenti in prospettiva educativa.
L'interesse persistente al tema delle religioni nel confronto con il cristianesimo è questione che tocca la cristologia nel suo rapporto con la tematica del cristocentrismo. La tematica è oggi particolarmente discussa, anche a motivo della pressione pratica che esercita il confronto sempre più imponente con le religioni quali luoghi di salvezza. Il punto di partenza pluralistico degli ambiti religiosi pone subito la questione del significato della «singolarità del cristianesimo».
Per offrire una prospettiva che in qualche modo introduca al tema, si può seguire da vicino il modo con cui Schillebeeckx ricostruisce la problematica. Naturalmente tale percorso è una scelta, a cui si possono affiancare altre ricostruzioni egualmente pertinenti. S. esclude di proporre quella che oggi si chiamerebbe una «teologia delle religioni»: egli intende piuttosto situare correttamente la singolarità e l'identità del cristianesimo passando attraverso la via stretta che corre tra una assolutizzazione del cristianesimo e un indifferentismo relativista.
S. percorre rapidamente il dibattito sul rapporto tra cristianesimo e religioni. Dopo aver richiamato il concetto di religione sotto il profilo sociologico come «sistema di orientamento ultimo» (H. Lübbe), preferisce procedere in modo sociodescrittivo, senza voler ricostruire degli idealtipi. Prima di recensire il dibattito, pone chiaramente la questione della pretesa di verità singolare contenuta nell'annuncio cristiano: esso non riguarda solo una convinzione soggettiva del cristiani, ma intende fare un'affermazione circa la realtà intesa dalla fede, una asserzione che presso i credenti è andata sempre di pari passo con la questione della possibilità di salvezza dei non-cristiani. Il problema viene tematizzato in modo riflesso solo a partire dall'epoca moderna: ciò non significa che prima non venisse in qualche modo risolto, ma la sua articolazione riflessa presuppone una chiara coscienza universalistica. Solo negli ultimi tempi viene esplicitamente assunto nella riflessione teologica, mediante il tentativo di superare la pretesa assolutistica del cristianesimo sia nella sua versione esclusivistica, sia in quella inclusiva/normativa, senza però perdere la pretesa universalistica dell'annuncio cristiano.
Gli antecedenti del dibattito possono essere così ricordati. La riflessione ha trovato il suo momento di snodo in Rahner, il quale riconosce possibilità di salvezza non solo ai singoli membri delle religioni non-cristiane, ma definisce le religioni stesse come «vie di salvezza verso Dio». Nella sua linea si pone una lunga fila di autori, con posizioni tutto sommato particolari: Daniélou e De Lubac che sostanzialmente sono nella medesima linea (teoria del compimento); Waldenfels, che sostiene che i non-cristiani trovano salvezza non solo 'nonostante' le loro religioni, ma in ogni caso 'in' esse, anche se si dovrà evitare di dire 'attraverso' di esse. Di rincalzo Seckler sottolinea che non si deve porre in astratto il problema della salvezza, ma concretamente si tratta di vedere come ognuno trova nella propria religione il compimento del suo essere uomo, mediante l'apprezzamento di particolari valori in essa presenti.
In questa direzione più descrittiva sembra essersi messo lo stesso Vaticano II. Un'ulteriore passo viene fatto da Schlette, che a partire dal rilievo numerico, afferma che le vie di salvezza 'normali' e 'solite' sono, piuttosto, le altre religioni, mentre il cristianesimo appare piuttosto una via 'straordinaria' di redenzione.
La prospettiva propria di S. delinea brevemente le questioni in gioco. Anzitutto, l'A. formula la questione: la positiva considerazione della diversità delle religioni nel confronto con il cristianesimo non si deve più porre nei termini di 'vera' religione o di religione 'migliore'. Il termine religione non può fungere da concetto generale, che verrebbe ritrovato nella sua farina principiale nella propria religione. Più correttamente pare a S. di dover porre l'interrogativo così: «Come il cristianesimo può preservare la sua propria identità e singolarità e parimenti riconoscere la diversità delle altre religioni come un valore positivo in un senso non-discriminante?» In tal modo a far da paradigma non è un concetto di religione universale che dev'essere poi identificato nella sua migliore o minore realizzazione nelle religioni positive, ma è proprio la particolarità e la singolarità di una religione a dover essere mostrata nel suo rapporto con le altre. Ora, S. ritrova proprio nel cristianesimo il fondamento di questa prospettiva. Non volendo svolgere direttamente una teologia delle religioni all'A. pare sufficiente mostrare che proprio nell'annuncio e nella prassi di Gesù si rende presente questo intreccio di singolarità e di universalità. Ciò che è proprio del cristianesimo è che nella singolarità e nella determinatezza storica di Gesù di Nazaret si incontra la vita e l'essere stesso di Dio come il Salvatore di tutti. La chiarificazione di questa singolarità si muove però espressamente nella linea di una interpretazione che induce ogni assolutizzazione della particolarità storica di Gesù, anzi legge questa singolarità come rimando all'esperienza del Dio creatore e salvatore di tutti gli uomini. Ciò consentirebbe di istituire la relazione teologica del cristianesimo con le altre religioni.
La tesi riecheggia formulazioni vagamente illuministiche, secondo le quali si può e si deve ritrovare «più verità (religiosa) in tutte le religioni insieme, che in una singola religione» e che perciò «vi sono differenti esperienze autenticamente religiose, che il cristianesimo, a motivo della sua particolarità storica, non ha né tematizzato né praticato (...) e che forse a motivo dello specifico accento che Gesù ha posto, non poteva neppure tematizzare, senza depauperare questo specifico accento della sua densità gesuanica e ultimamente della sua specifica cristicità». Si noti come l'inclinazione del pensiero di S. di situare la vicenda di Gesù sul versante della mediazione storica corre il rischio di smarrire la sua intenzionalità veritativa. Abbiamo qui una possibile dissociazione tra Gesù e Cristo e tra la salvezza e il Salvatore.
In positivo allora la tesi di S. riguarda il rapporto tra singolarità cristiana/particolarità delle altre religioni e universalità della salvezza a cui tutte rinviano. La singolarità cristiana consiste esattamente in questo intreccio tra la sua determinatezza storico-contingente (in Gesù di Nazaret) e il suo rinvio all'assolutezza del Dio creatore e salvatore di tutti. Il cristianesimo non rappresenta una singolarità né esclusiva, ne inclusiva, ma piuttosto una unicità che dischiude lo spazio per apprezzare la positiva capacità che le altre religioni hanno di rinviare alla esperienza della salvezza nel Dio creatore e salvatore di tutti. Occorre ancorare tutto questo discorso non solo alla particolarità storica di Gesù di Nazaret, ma anche alla cristologia neotestamentaria, intesa come interpretazione credente di questa singolarità. Ora la cristologia, in quanto interpretazione che si esprime attraverso i titoli, rimanda a sua volta a quel Dio di Gesù nel quale solo si dà la salvezza. Non è l'interpretazione credente che media la salvezza («'Gesù' ci salva, non il 'Cristo'»), ma colui nel quale questa salvezza è avvenuta, vale a dire la vicenda storica di Gesù. La formulazione sembra decettiva rispetto alle ben più calibrate affermazioni di Jezus, perché pare confinare la cristologia neotestamentaria nel campo della mera interpretazione, soprattutto sottovaluta il carattere cognitivo dell'esperienza. In conclusione il tema della singolarità di Gesù appare doppiamente relativo, funzionale all'affermazione del Dio creatore e salvatore universale e alla prosecuzione particolare nella prassi credente dei cristiani. Resta aperta la questione del significato specifico da riconoscere a Gesù di Nazaret, se cioè la singolarità non sia principalmente affermazione 'cristologica'.
1. Quattro modelli teologici sul valore salvifico delle religioni in rapporto al cristianesimo
Dopo un breve abbozzo della storia dei rapporti tra la singolarità cristiana e le religioni e la precisazione delle questioni connesse è possibile delineare - come fa il recentissimo e limpido documento della CTI - alcuni modelli di rappresentazione del rapporto tra singolarità di Gesù (e quindi della fede cristiana) e religioni. La questione di fondo è così formulata nel testo: le religioni sono mediazioni di salvezza per i loro seguaci? Le religioni sono mediazioni autonome o si realizza in esse la salvezza di Gesù Cristo? Occorre definire - puntualizza il documento - lo statuto del cristianesimo e delle religioni come realtà socio-culturali in relazione con la salvezza dell'uomo, senza confondere tale questione con quella della salvezza del singoli, cristiani o no (cf. CR, 8).
Da più parti si è tentata una presentazione idealtipica dei modelli con cui viene impostato questo rapporto. Ora la possibilità di configurare modelli ha una funzione chiarificatrice, anche se è un po' schematica, perché può precludere la comprensione dei problemi in gioco. Essa è nondimeno un punto di partenza interessante per far emergere le questioni. Li richiamo brevemente:
- il modello esclusivista (ecclesiocentrico): è il modello che proviene dalla teologia dialettica di Barth e che è stata trasposto nel problema del rapporto con le religioni da H. KrŠmer. Secondo la teologia dialettica il luogo della conoscenza salvifica di Dio è quello della fede cristiana, è quello che proviene all'uomo da Gesù Cristo. In questo senso Barth contrappone la fede alla religione, sostenendo che quest'ultima è una costruzione dell'uomo e quindi contrassegnata dalla pretesa di sapere e di cogliere Dio. All'esclusivismo cristologico corrisponde quello ecclesiologico, anche se il cristianesimo storico sta sotto il giudizio della parola di Dio. D'altra parte sul versante cattolico ne è derivata una posizione ecclesiocentrica che è già stata rifiutata dal tempo di Pio XII, perché l'appartenenza esplicita alla Chiesa per la salvezza è stata respinta come condizione necessaria per la salvezza (è questo un modo troppo rigido di intendere l'extra ecclesiam nulla salus). Il fatto che la teologia cattolica, che pure si avvicina a questo modello, abbia già superato fin dal tempo di Pio XII e sicuramente col Vaticano II, l'interpretazione ristretta dell'extra ecclesiam, lascia aperto il modo con cui la chiesa è intesa nel rapporto con l'assoluta necessità della mediazione cristologica: a volte si intende la mediazione della Chiesa come costitutiva, oppure, lasciando al solo Cristo la mediazione costitutiva, si dice che la chiesa è testimonianza e sacramento della mediazione cristologica. Tuttavia questo primo modello è ancora connotato da un certo ecclesiocentrismo, perché la preoccupazione principale è, sul presupposto dell'assoluta mediazione di Cristo, di precisare la funzione della Chiesa nella salvezza universale, in rapporto alle altre religioni.
- il modello inclusivista (cristocentrico): esso è un modello in cui la cristologia non appare esclusiva, bensì inclusiva della storia della salvezza universale, pur riconoscendola nella sua relativa autonomia. Si colloca qui la posizione di Rahner, continuata da Schlette. La distinzione tra una storia generale della salvezza e una storia particolare consente di affermare la rivelazione piena e definitiva nella storia categoriale di Gesù, ma anche la presenza di un orientamento trascendentale nelle religioni, già realizzato in esse nel senso di un "esistenziale soprannaturale". A motivo di questa apertura al mistero, ogni persona può realizzare all'intimo della propria tradizione culturale un incontro salvifico con Dio. Questo incontro è obiettivamente portato a compimento nell'evento cristologico, nel quale solo si dà la religione assoluta, anche se ciò non comporta che vi sia nelle altre religioni un riferimento "esplicito" alla singolarità di Gesù. Basta un orientamento "implicito", mentre le singole religioni si realizzano nella loro particolarità storica con un complesso obiettivo di riti e istituzioni che sono significative nel contesto della storia generale della salvezza e che sono effettivamente mediatrici di salvezza per i loro appartenenti. Questa posizione è stata e forse è la più comune nel contesto cattolico: riconosce una relativa autonomia salvifica alle religioni; ne mette in luce l'obiettivo riferimento alla salvezza assoluta avvenuta in Cristo; lo fa sulla base del rapporto tra storia generale della salvezza e sua necessaria mediazione storico-culturale. Un'ulteriore passo viene fatto da Schlette, che a partire dal rilievo numerico delle religioni, afferma che le vie di salvezza normali e 'solite' sono le altre religioni, mentre il cristianesimo appare piuttosto una via 'straordinaria' di redenzione. Si nota qui una oscillazione di piani tra l'aspetto fenomenologico-storico e l'aspetto obiettivo: il franco riconoscimento delle religioni come «vie di salvezza verso Dio», non solo per i membri che vi trovano pienezza di vita e salvezza, ma in se stesse come figure soteriologiche, fa porre la domanda sulla modalità con cui avviene l'inclusione in riferimento alla figura cristologica. La coppia implicito-esplicito o trascendentale-categoriale sembra insufficiente a rendere ragione della complessità del problema.
- il modello pluralista normativo (teocentrico). Questo modello intende superare la pretesa di unicità e assolutezza riferita alla persona e all'opera di Gesù Cristo. Presentato come una rivoluzione copernicana, questo modello è provocato da un intento pratico-pastorale, soprattutto nel campo missionario, con il quale si intende superare la improvvida sovrapposizione tra politica coloniale e forme dell'evangelizzazione. Il modello pluralista si distingue poi in diverse figure, che hanno tutte all'origine un comune riferimento nel fatto che il messaggio di Gesù abbia un orientamento teocentrico. Si fa leva sulla circostanza che l'annuncio caratteristico di Gesù è un annuncio sul regno di Dio, è una nuova figura di Dio, che non ha direttamente di mira, nel suo strato più antico, una cristologia, bensì una teologia. Su questo canovaccio comune si può presentare poi una duplice variante. Il tipo normativo, cioè quello di un teocentrismo, nel quale Gesù senza essere costitutivo, è considerato almeno una figura "normativa", una prospettiva che ha offerto una determinazione specifica della figura di Dio e della salvezza che in essa noi incontriamo. L'altro tipo, non normativo, mette in luce che Gesù è stato semplicemente l'occasione storica per ritrovare un volto di Dio determinato.
Sotto questo profilo questo modello sfocia abbastanza agevolmente nel modello successivo. Come rappresentante della prima posizione possiamo trovare Troeltsch e Tillich. In essa si riconosce che Gesù è il mediatore che meglio esprime la figura salvifica del rapporto con Dio e che in questo modo diventa il paradigma per gli altri mediatori. Queste figure tuttavia (come persone o come religioni) sono autentici mediatori, che trovano nel riferimento a Cristo solo la manifestazione più perfetta. Probabilmente in tale direzione può essere catalogata la posizione pluralista di Knitter. Rappresentante di una linea che intende superare ogni forma di pretesa di universalismo del cristianesimo, cerca di fondare tutto questo in una «cristologia teocentrica», senza per questo cadere nell'estremo opposto di un relativismo che afferma che tutte le religioni sono eguali. Tuttavia la sua cristologia teocentrica non è in grado di dire in che modo la "persona" di Gesù è implicata nel messaggio che ha come centro l'annuncio del regno, se non nella forma di un annunciatore (storicamente) privilegiato. In questo senso forse Knitter non accetta che Gesù sia un mediatore "normativo", ma solo un mediatore "di fatto" di una particolare esperienza di Dio. Qui il privilegio dell'annuncio prepasquale di Gesù e del suo teocentrismo dell'Abba esclude una qualche cristologia implicita in tale annuncio. Nella direzione di una cristologia teocentrica si esprimono anche in alcuni tentativi indiani (Pannikar è il rappresentante principale), che interpretano l'autolimitazione della kenosi di Gesù come una via di rivelazione che si deve trascendere. Proprio perché sulla croce Gesù ha svuotato se stesso, ciò significa che questa rivelazione è una via che dev'essere trascesa, è un'esperienza di Dio che dev'essere superata verso un'esperienza più vasta e universale.
- il modello pluralista non normativo (soteriocentrismo). Il carattere ambiguo della posizione di Knitter, chiaramente connotato da un'intenzione etico-pratica, in realtà si propone come collezione - peraltro nella stessa linea - della posizione di J. Hick, un presbiteriano americano, che si è molto impegnato nella riduzione metaforizzante del discorso cristologico. Gesù Cristo non è considerato né come costitutivo, né come normativo per il discorso sulla salvezza dell'uomo. Il teocentrismo della fede cristiana, per il quale anche Gesù Cristo ha annunciato il Regno di Dio, propone la «rivoluzione copernicana» di un universo incentrato non su Gesù Cristo, ma su Dio. D'altra parte la nuova forma di teocentrismo di Hick non è senza presupposti filosofici, e prende le mosse dalla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno, configurando dunque l'impossibilità di una conoscenza della realtà di Dio in se stessa. Dio viene colto sempre entro un sistema di riferimento concettuale storicamente determinato. Di qui l'interpretazione della figura storica di Gesù, come forma della verità di Dio, come figura del mito, come metafora, perché non è possibile che l'Assoluto si dia nella storia. Egli rimane sempre trascendente le sue determinazioni, per ciò anche Gesù Cristo resta una prospettiva su Dio, sulla salvezza che egli porta. Perciò bisogna abbandonare per il cristianesimo ogni pretesa inclusiva o anche solo normativa. In tal modo tutte le religioni si presentano come vie parallele di salvezza che raggiungono tutta la realtà divina che si è ultimamente sempre trascendente le determinazioni storiche delle culture e istituzioni religiose e delle formulazioni dogmatiche e rituali. In realtà la posizione di Hick, che relativizza ogni determinazione storica e culturale, propone un teocentrismo che va bene solo per le religioni monoteistiche e quindi non rende ragione del complesso fenomeno religioso. Il confronto di Hick con il mondo orientale gli fa concludere che la figura di Cristo deve essere spogliata da ogni pretesa di unicità, il Gesù storico non si identifica con il Logos, e la sua figura dev'essere collocata sullo stesso piano degli altri miti di salvezza. In questo senso si può parlare di un soteriocentrismo, il quale poi riceve un'apparente forza di persuasione nell'essere prospettato come una forma di dialogo culturale. Esso riceve consistente sostanza etica nell'orientamento ortopratico di questo modello. La religione è una forma del ricentramento dell'uomo che passa dalla centratura sul proprio io (self-centredness) all'apertura sulla realtà (reality-centredness), in una prospettiva marcatamente pratica
2. Problemi e soluzioni emergenti dal dibattito
La difficoltà stessa a collocare gli autori entro i modelli ermeneutici che abbiano radicato ci invita a mettere piuttosto in luce i problemi emergenti dal dibattito. In questo senso mi sembra esemplare il recente documento della CTI. In quel contesto vengono indicate tre questioni che sono in qualche modo il crocevia della discussione sulle religioni e sull'unicità del cristianesimo. Le questioni li indicate sono tre: quella della verità; quella teologica e quella cristologica. Mi permetto di aggiungere (come si vede dallo schema) la questione antropologica, perché sarà qui che indicherò non tanto il senso della mia soluzione, ma il cuore del problema, precisamente nella derivazione dell'antropologia dalla cristologia.
Tuttavia prima di procedere mi sembra che nel rapporto tra religioni e cristianesimo bisogna distinguere alcuni livelli del problema:
• un livello fenomenologico, nel quale si deve procedere ad una descrizione e ad una illustrazione delle religioni nelle loro forme storiche, nelle loro determinazioni rituali, istituzionali, dottrinali e si devono confrontare con le forme storiche della fede cristiana, vuoi nel loro momento originario, vuoi nella loro versione occidentale/ellenistica;
• un livello teologico, nel quale si dovrà illustrare l'intreccio tra singolarità e universalità in Gesù Cristo e lo spazio che l'evento cristologico apre per una teologia cristiana delle religioni non cristiane;
• un livello pastorale che indica l'atteggiamento storico con cui il cristianesimo deve porsi dentro un contesto pluralistico di religioni, come deve realizzare la sua prospettiva missionaria, educativa, ecumenica, ecc.
Ora questi tre livelli devono essere considerati relativamente distinti e interconnessi; soprattutto non si può troppo precipitosamente stabilire un corto circuito tra il livello fenomenologico e il livello teologico, altrimenti nella illustrazione della differenza fenomenologica delle varie religioni si fa intervenire troppo precipitosamente la questione della singolarità e universalità che appare propria del cristianesimo.
A partire di qui possiamo ora brevemente puntualizzare le tre questioni emergenti dal dibattito:
- la questione veritativa: la prima questione è quella più difficile, anche perché sovente rimane sullo sfondo della presentazione delle prospettive dei singoli autori. Mi sembra che gli aspetti essenziali siano due: il primo riguarda il superamento della divaricazione della questione della verità e questione della salvezza; il secondo concerne il rapporto tra le forme storiche della verità (e le sue espressioni religioso-cultuali) e la trascendenza della verità in se stessa.
Ora il primo aspetto comporta il superamento di una visione concettualistica della verità, non tanto in favore di una visione esistenzialistica o morale (la verità non si può conoscere o rappresentare concettualisticamente, ma si può solo fare o vivere praticamente), ma mediante una teoria della verità che ne integri il profilo storico-pratico. Questo profilo storico non è solo uno svantaggio, bensì è il suo normale determinarsi per rapporto alla libertà dell'uomo. La verità che si rivela richiede la libertà che si decide per essa: il consenso della libertà alla verità, che essa non pone ma da cui è posta, è il compimento della libertà, cioè la sua salvezza. Per questo la libertà determina l'apparire della verità, ma la sua determinazione che assume le forme culturali del mito, del rito, dell'etico (la forme storiche del religioso) non restano estranee al darsi della verità, ma possono (anche se non lo realizzano automaticamente) lasciarsi plasmare dal rivelarsi, dal comunicarsi della verità di Dio. Il problema dell'autenticità della forma religiosa (storica e veritativa insieme) è un problema di tutte le figure della religione, che deve sempre guardarsi dalla superstizione e deve sempre purificarsi da quelle forme che invece di dire la verità di Dio, ne sono una contraffazione. Anzi il problema dell'autenticità religiosa non è un problema previo alla salvezza, ma è quello della salvezza stessa, così che una forma religiosa (rito, linguaggi, istituzioni, comportamenti) è autentica se è plastica rispetto alla verità di Dio. Ogni religione, in misura diversa, non può non avere il problema dell'autenticità (che in ultima analisi è quello della corrispondenza tra forma storica e verità divina) e che non va confuso con la sincerità soggettiva del rapporto con Dio.
Ciò consente di vedere in modo diverso anche il secondo aspetto: quello della relazione tra le rappresentazioni del divino e la realtà trascendente (il mistero). L'affermazione della trascendenza del mistero rispetto alle sue rappresentazioni create non può voler dire solo che esse sono radicalmente inadeguate e che il mistero rimane sempre "altro" dalla sua storica rappresentazione (linguistica, rituale, istituzionale). Si deve dire anche che l'alterità di Dio, la sua trascendenza è capace di comunicazione (è questo ad esempio un tratto della concezione cristiana), perché è capace di comunione, una comunione che non solo pone il diverso, ma si dice e si comunica anche attraverso il diverso. Può darsi che alcune religioni non sottolineino troppo il problema dell'ortodossia, ma il problema dell'autenticità - non semplicemente della risonanza soggettiva, ma dell'universalità della espenenza religiosa - pone la questione della corrispondenza (orthos) tra forma religiosa e riconoscimento (doxa) di Dio. Forse non in tutte le religioni sarà presente la preoccupazione che si è espressa nella tradizione cristiana, innestata sul ceppo ellenistico, ma anche nel cristianesimo la professione ortodossa era (è) vista sempre come un momento della comunione ortopratica, e quindi della salvezza reale.
- la questione teologica: il punto più delicato del dibattito di una teologia cristiana delle religioni è quella del rapporto tra cristologia e teologia. Avviene qui uno strano cortocircuito. Per giustificare una teologia delle religioni si rimanda alla determinazione del rapporto tra la cristologia e la teologia, concludendo che l'annuncio di Gesù nella sua figura decisiva è ultimamente teocentrico. La sua figura rimanda essenziamente a Dio, anzi il suo messaggio è pienamente relativo alla figura dell'annuncio della centralità di Dio, così che anche di Gesù si potrebbe dire: bisogna che lo scompaia, perché Dio sia la salvezza dell'uomo. Gesù sarebbe semplicemente il testimone, particolarmente qualificato, del teocentrismo. Qui la questione può essere abbordata da due versanti.
Sul primo versante, per superare una supposta posizione integralista e esclusivista, si dice che la realtà ultima di tutte le religioni è identica (il mistero di Dio) e che quindi tutte le rappresentazioni storiche sono ultimamente relative (compresa quella cristologica). Dice la CTI commentando questo problema: «Poiché il Mistero è universalmente attivo e presente, nessuna delle sue manifestazioni può pretendere di essere l'ultima e definitiva» (Cf, 16). Qui si fa sovente accenno al fenomeno della preghiera che da diverse "prospettive" si indirizza alla medesima realtà. Ma proprio questo tema ha sempre posto in tutte le tradizioni religiose, in maniera più o meno forte, il problema della sua autenticità, di una tecnica e di una regola, perché la preghiera non fosse semplicemente un momento intersoggettivo e quindi socialmente significato, ma lo potesse essere, perché si riteneva che quella forma "corrispondesse" al volere divino. In questi termini la questione ricade nella questione precedente della verità del fenomeno religioso (altrimenti non si sarebbe in grado di distinguere tra il religioso e il superstizioso).
Sul secondo versante, è diverso il rimando alla figura teologica a partire dalla cristologia. In sostanza la questione è posta così: Gesù ha annunciato il regno, è stato il testimone fedele della centralità di Dio, la sua fede è quella dell'unicità di Dio, appunto della differenza tra il volto di Dio e tutte le sue forme che gli uomini costruiscono. Gesù ha annunciato il volto dell'Abba, la centralità del Regno che ha ancora da compiersi, come comunicazione di una salvezza che sta oltre lui. Questo è proprio il centro del suo messaggio, a questo messaggio egli rimane fedele sino alla morte, anche a costo che sia negata l'identità della sua persona. Egli appare del tutto relativo a Dio, si è svuotato/consegnato per dire che Dio è l'unico. Alla fine Gesù è disposto a perdere anche se stesso, la sua persona, perché si affermi la verità salvifica dell'Abba Dio. Si capisce allora il fascino di questa cristologia teocentrica. Il cristocentrismo - cioè l'affermazione dell'identità del regno e della persona di Gesù - sia nella versione inclusiva, sia nella versione normativa, sarebbe una equivalenza stabilita dalla comunità primitiva, una sopravvalutazione della cristologia pasquale. La pretesa di Gesù non consisterebbe in altro che far valere la centralità di Dio, una evidenza che l'uomo può raggiungere nel solco della propria tradizione religiosa.
Questa lettura dell'evento cristologico consentirebbe la proposta di una teologia delle religioni pluralista, sia nella versione normativa (Gesù sarebbe un "riferimento" che aiuta ogni cammino religioso a ritrovare - implicitamente o esplicitamente - la propria via salvifica), che non normativa (Gesù sarebbe una tradizione storica, particolarmente qualificata, ma non l'unica per ricoprire la centralità salvifica di Dio a tutti accessibile). La questione che rimane irrisolta è quella di stabilire se Gesù è solo l'occasione o non è un momento costitutivo per questa immagine di Dio. Si tratta di uscire dall'affermazione formale: la pretesa di Gesù di essere vincolato in modo definitivo alla rivelazione non di un generico teocentrismo, ma del teocentrismo di Gesù (Gv 1,18), va vista come una pretesa che si fa valere nella forma di una fede, che è il compimento perfetto della nostra fede. Per dirla con le parole di Giovani - quindi di una cristologia neotestamentaria "alta" - quel Dio che nessuno ha mai visto, lui ce lo ha rivelato, proprio come il Figlio unigenito che è nella relazione e rimane continuamente nella relazione con il Padre. La relazione di Gesù che nella fede si abbandona e si consegna a Dio come il Padre è la forma della pretesa di Gesù. Non è solo la pretesa della fede di Gesù, ma è una pretesa che ha la forma della fede, cioè di una dedizione incondizionata. Io non posso "sapere" da altri, se non in questa forma storica, qual è la figura del teocentrismo, e dunque la figura storica della salvezza dell'uomo; ma io non posso far "valere" questa forma, che nella modalità di una fede (antropologica) che si affida al movimento con cui Gesù si consegna a Dio come l'Abba suo. Il cristocentrismo non pone un altro "centro" accanto al teocentrismo; ma fa valere che Dio è l'unico secondo una incondizionatezza che resta legata alla vicenda storica di Gesù. La centralità di Gesù nella fede cristiana è quella della dedizione, perché in Lui si rivela - e non bisogna aver paura di dire - che solo in Lui si rivela/comunica che Dio è dedizione e dedizione così. La pretesa di Gesù - l'unica che la fede cristiana può in qualche modo rappresentare - è quella di una dedizione come quella di Cristo. Questa è la sua centralità insostituibile, assolutamente non minacciosa, perché ad essa non ci si può accostare che nella forma della libertà che si affida. Solo se si tratta il tema della pretesa cristologica formalmente, a prescindere dalla figura storica di questa pretesa - la figura della dedizione incondizionata - si può continuamente ragionare su una teologia cristiana delle religioni inclusiva, o normativa o pluralistica, come concetti saputi a monte del loro darsi in Gesù. Ciò comporta allora bene di precisare l'aspetto antropologico implicato.
- la questione antropologica: occorre illuminare una terza questione del dibattito, quella che forse delinea la pista per la soluzione. Le prime due questioni ci hanno fatto concludere che non si può (e non si deve) separare l'aspetto storico e l'aspetto veritativo del fenomeno religioso. Molte delle soluzioni proposte suppongono una distinzione tra linguaggi, riti, istituzioni, prassi (storiche) e il mistero trascendente divino, che diventa separazione: l'intento pratico è quello di rendere sostanzialmente equiparabili le mediazioni storiche e di configurarle come vie parallele di salvezza. Il timore è che affermare una qualche forma (storica), come l'unica o l'assoluta, configurerebbe un insopportabile integralismo o esclusivismo, per quanto nella forma mitigata del modello inclusivo o normativo. Se però si sottolinea che la forma storica non solo è inadeguata e prospettica rispetto al mistero di Dio e alla salvezza dell'uomo, ma è inseparabile da entrambi, allora si deve dire che tutte le religioni, anche quelle che non lo affermano nella forma di una ortodossia codificata, hanno il problema della verità di Dio e della qualità buona e felice della vita dell'uomo. Tutte non possono non rappresentarsi come una forma storica della verità assoluta, che può essere più o meno fatta valere, sia nei confronti della propria tradizione, sia in rapporto alle altre religioni, ma che rimane nondimeno questione di vita e di morte perché la religione sia praticabile e socialmente condivisibile. Allora una teologia cristiana delle religioni deve pensare insieme la figura antropologica delle (diverse) religioni come una possibilità salvifica, ma insieme deve giustificare la singolarità e l'unicità della fede cristiana, come quella figura antropologica (la salvezza dell'uomo), che si dà nell'annuncio e nella persona di Gesù (la sua dedizione a Dio), e che porta a pienezza l'umano, così come si è compiuto nella libertà/fede di Gesù. Dalle altre religioni - e dalla loro concretezza storica - la fede cristiana impara quali dimensioni antropologiche sono continuamente in gioco nella salvezza dell'uomo, impara attese, aspirazioni, domande, e anche realizzazioni salvifiche che nella loro forma storica (per noi concretamente quella occidentale/ellenistica/postilluministica) possono essere state smarrite o oscurate. Qui si può dire che le religioni sono attraversate dall'azione universale dello Spirito (Rahner direbbe l'"esistenziale soprannaturale"), che fa delle religioni veri luoghi di salvezza. D'altra parte la fede cristiana deve continuamente annunciare che la sua figura antropologica (la sua immagine compiuta di uomo, la salvezza dell'uomo) è la salvezza integrale: ma lo fa mediante un atteggiamento che deve continuamente misurare la sua immagine (e prassi) di uomo/società su quella figura antropologica che è la libertà credente di Gesù, a cui la sua deve continuamente conformarsi. Anche questo è possibile mediante l'azione dello Spirito che introduce alla pienezza della verità che è data nella libertà di Gesù, nella sua dedizione incondizionata, pure espressa in una forma storica, ma la cui realizzazione è capace di dire adeguatamente la verità del Dio di Gesù. E di dirla nella forma di una fede/libertà che si consegna (nello Spirito) a Dio e proprio in ciò trova la salvezza dell'umano (di Gesù e in Gesù). L'azione universale dello Spirito è dunque obiettivamente capace di attrarre tutte le particolarità storiche (le forme pratiche del religioso) e di condurle alla forma cristologica di accesso alla verità di Dio, secondo una varietà di forme dove l'implicito e l'esplicito, l'incoativo (si pensi alla forma ebraica) e l'esplicativo (le diverse forme cristiane) dicono obiettivamente la singolare unicità di Gesù. La sua singolarità unica non è alternativa alla sua universalità, non è inclusiva (nella forma generica di una annessione), non è normativa (nella forma impositiva di un modello da imitare), ma è veramente universale, nel senso che lo Spirito come Spirito di Gesù, è capace di universalizzare la figura cristologica, perché è capace di ricondurre l'universalità delle figure del religioso ad essere istruire dalla forma della libertà credente che in Gesù è animata dal medesimo Spirito.
Concludendo si può dire:
- da un punto di vista di fenomenologia delle religioni le figure antropologiche (in quanto stancamente realizzate) possono essere solo confrontate. Da questo confronto deriva una circolarità e un arricchimento reciproco della esperienza religiosa, nell'intreccio tra universalità e particolarità. Il giudizio di merito riguarda il fatto che esse siano effettivamente figure salvifiche, cioè capaci di offrire un'esperienza buona e felice vita.
- da un punto di vista di una teologia cristiana delle religioni le figure antropologiche religiose (culturalmente connotate) possono essere anche valutate. Ma la valutazione non ha lo scopo di fornire una sorta di graduatoria, ma di indicare la possibilità che l'azione dello Spirito ha di realizzare differentemente l'unicità singolare di Cristo, senza che sia tolta alla figura cristiana (ecclesiale) il suo carattere "testimoniale" per rapporto alle altre figure del religioso. In quanto testimoniale la fede cristiana fonda la sua azione missionaria, cordiale e precisa, perché sa che la forma del suo annuncio è quella di attestare con la parola e la prassi la dedizione incondizionata di Gesù; in quanto è animata dallo Spirito, la figura cristiana è disposta a riconoscere che la sua testimonianza non è automatica, meccanica, ma la riceve sempre come un'azione dello Spirito che la riporta a Cristo e a tutte quelle forme del religioso - che nelle religioni possono trovare mirabili rappresentazioni, insieme anche a forme meno raccomandabili, come del resto nelle rappresentazioni "cristiane" - che devono sempre decidersi per una figura di Dio che sia la salvezza dell'uomo. E decidersi dinanzi a come lui ci viene incontro, come si rivela, e come ci si dona. Lo stesso Spirito che ci fa riconoscere dentro di noi il senso religioso come un'apertura e un'opportunità che deve essere unificata e compiuta nella figura cristologica, ci rende capaci di riconoscerlo presente anche in altre religioni in forme storiche e culturali. Questo mi sembra si possa dire dal punto di vista di una teologia delle religioni che voglia essere cristiana. Senza facili pretese di superiorità, ma ancora senza irenismi concordistici, che non sono utili a migliorare la qualità del religioso che - non dimentichiamolo - ha a che fare con la salvezza piena e integrale dell'uomo.
3. Prospettive educative
La chiarificazione teologica proposta ci consente ora di indicare alcune prospettive educative e culturali, che ci mettano in grado di condurre in modo consapevole, senza facili irenismi, e senza impensabili chiusure, il confronto culturale con le religioni nel contesto dell’insegnamento o più in genere della conoscenza e dello studio. Mi sembra che si possano indicare tre piste per il confronto educativo e culturale.
- la forma testimoniale: con essa intendiamo la consapevolezza e l'atteggiamento che la fede cristiana deve continuamente rappresentarsi come una fede che rinvia alla singolarità della figura di Cristo e che deve assumersi la cura della corrispondenza tra cristianesimo attuale e cristianesimo originario. Da qui nasce un atteggiamento culturale attaccato alle origini cristiane, che ha il senso del momento fondante del NT e della rivelazione in Gesù, e che è capace di leggere criticamente, ma anche benevolmente, le successive inculturazioni storiche della fede. La figura storica del cristianesimo è sempre una ricchezza e una povertà: una ricchezza perché la fede è sempre capace di animare una cultura, di correggerla e illuminarla a partire dall'evento della dedizione di Gesù; una povertà perché questa traduzione può costituire anche un tradimento, e nel caso migliore riflette la ricchezza della fede in un determinato punto storico. La forma testimoniale custodisce sempre la capacità di dire l'unità e la differenza tra Gesù e la storia della fede e della chiesa, di leggere con pacatezza e lucidità i momenti storici, di darne un giudizio corretto e contestualizzato.
- il "confronto attivo": a partire da questa consapevolezza storica è possibile un confronto attivo con le altre culture religiose, non tanto un confronto che ne metta in luce - relativisticamente - che tutto sommato esse sono le vie di salvezza uguali, ma che abbia una profonda e simpatetica attitudine ermeneutica. Occorre presentare le altre tradizioni religiose con una buona informazione e senza la fretta di valutare subito, facendone apprezzare gli elementi positivi, contestualizzandoli nella tradizione culturale, nella risposta ai problemi che essi pongono, nella capacità di valorizzare taluni aspetti della figura antropologica. Non basta un asettico rispetto, ma un confronto "attivo", capace di introdurre all'apprezzamento (che alla fine porrà anche la questione di valore) delle dimensioni salvifiche che le singole religioni prospettano all'uomo, dentro la propria tradizione religiosa. Prima di produrre precipitosi giudizi è necessario valorizzare la circolarità di cui sopra abbiamo parlato e che è un segno di quella presenza salvifica che lo Spirito rende possibile in ogni tradizione religiosa.
- la cura della figura antropologica: è inevitabile che ad un certo punto si perverrà anche al confronto valutativo. Occorre mettere qui bene in luce che la questione non è quella della salvezza individuale, ma la cura della figura antropologica che è un gioco. Qui non si deve dimenticare che la figura dell'uomo e di salvezza che la tradizione cristiana presenta - nella sua genericità e normatività si riferisce sempre alla possibilità che la nostra libertà si lasci plasmare e animare da quella di Gesù Cristo, mediante il dono del suo Spirito. L'uomo cristiano è l'uomo che si compie, prendendo i contorni della libertà credente di Gesù, e quei contorni sono quelli di una dedizione incondizionata alla causa di Dio, al suo primato, alla sua centralità così come ci è data, ma molto più ci è comunicata nella Pasqua di Gesù. Una figura della libertà come è resa possibile nell'evento centrale della fede è la pretesa del cristianesimo, non altra cosa, ma anche non meno di questo. Su questo punto non solo si può, ma anzi si deve esprimere una valutazione: ma si tratta di una valutazione che ha la forma della testimonianza attiva, in parole e opere, nella storia. Con la finezza e la dedizione che esige la testimonianza che ha al centro la croce di Gesù.
(Relazione tenuta al Corso di Aggiornamento per Insegnanti di Religione Cattolica della scuola media superiore sul tema: «Insegnamento della religione cattolica, educazione interculturale e dialogo interreligioso» - Napoli, 24-26 febbraio 1997)