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    Educare a partire dagli ultimi

    Mariella Mentasti *

    (NPG 2012-03-71)


    “Laudato si’ mi’ Signore

    per sora nostra morte corporale,
    da la quale nullu homo vivente
    pò skappare”.
    (San Francesco d’Assisi)

    Oggi mi ha regalato quattro splendidi sorrisi. Il suo volto, ormai diafano e scarno a tal punto da far trasparire ogni centimetro di ossa in quel colore bianco-avorio, illumina di una luce magicamente diffusa la stanza d’ospedale. Chiunque, passando, rallenta e sosta qualche secondo sulla soglia, come attratto da un inspiegabile richiamo luminoso.
    Il silenzio riempie la maggior parte del tempo: il silenzio vigile di chi amorevolmente l’assiste giorno e notte e contempla quel filo luminoso di vita che ancora l’avvolge; il silenzio delle lacrime, per non farsi accorgere, per non turbare, per non disturbare; il silenzio della morfina che goccia dopo goccia la immerge in un mondo di sogni senza vita e senza dolore.
    Ma i sorrisi sono vita, sono occhi puntati, sono sguardi penetranti. I sorrisi sono mani aperte, doni preziosi, cesti inesauribili cui attingere gioia. I sorrisi sono dialogo, racconto, condivisione, esperienze vissute, vita piena, incontri, realizzazioni.
    Quattro sorrisi, oggi, in questo ventunesimo giorno di Hospice, dopo i tre di quando riuscivo a venire la mattina e i due degli altri giorni. Un giorno, un lunedì tetro e umido, niente. Non c’era più luce, la sua mamma era crollata: “Sta troppo male, è finita”, mi disse nel vedermi. L’abbracciai senza parole. Mi chiese uscendo sottovoce: “Fammi capire perché a diciotto anni ho dovuto assistere mia madre morente di cancro e ora, che ne ho settanta, mi tocca veder morire mia figlia?”. Le ho sussurrato solo: “Non so darle una risposta ma vedo in lei una forza e un coraggio che non ho mai trovato in nessuno. Ce la farà”. Risposta banale, dissi tra me e me, ma forse alcune domande non vogliono risposte, chiedono solo ascolto, comprensione, condivisione, abbraccio. Quel lunedì me ne andai convinta di essere rimasta per sempre senza il suo sorriso, di dovermi accomiatare da quella piccola e minuta figura che mi ha insegnato, col suo sguardo trasparente, il coraggio e la dolcezza della speranza.

    «Non ho più niente ma ho ancora il cuore e con quello posso sempre amare».
    (Beata Chiara Luce)

    La conobbi poco più di tre anni fa. Cercava un lavoro perché la vita le aveva riservato troppe brutte sorprese: un carattere timido, insicuro e schivo, una struttura fisica particolarmente fragile e delicata, “diagnosi” scolastiche affrettate, superficiali e incompetenti l’avevano segnata fin dall’infanzia rendendola prigioniera di se stessa. “Sono sempre stata ultima in tutto – mi diceva – tranne che nella disposizione in ordine di altezza a educazione fisica: lì sono sempre stata la prima, ma era un primato al contrario!” . E, da ultima, aveva conosciuto il rifiuto, l’isolamento, la solitudine. Solo la sua famiglia aveva continuamente, ostinatamente e coraggiosamente combattuto nella consapevolezza irremovibile e assoluta che un tesoro fosse sommerso nel suo piccolo cuore e prima o poi qualcuno ne avrebbe trovato la chiave e avrebbe portato alla luce tutta la sua bellezza.
    Mi raccontò le sue brevi esperienze di lavoro, le battute umilianti, le bugie per non dirle che cercavano la “bella presenza”.
    Poi un piccolo lavoro – pulizie in un convento – pesante ma sicuro. Non trascorse molto tempo che, mentre lavorava, qualcosa le si conficcò nel cervello rubandole la forza e la parola. Un lungo anno di cure e riabilitazione, poi di nuovo al lavoro. Ma quei dolori, di cui da anni soffriva, cominciarono a roderla dentro: un drago si stava sviluppando a velocità smisurata, bisognava intervenire. Operazione lunga e complessa, svuotamento totale. Poi i cicli di chemio: uno, due, tre anni. “La chemio la sopporto bene” mi diceva, “Non posso più sollevare pesi, ma ce la farò a lavorare, è quello che desidero di più, perché dà significato al tempo, perché mi fa apprezzare il ritorno a casa, perché dà senso alla vita”.
    E lo diceva sorridendo, e quel sorriso faceva miracoli: era come se le persone che lo incontravano diventassero improvvisamente più buone.

    “Cominciai a sognare anch’io insieme a loro | poi l’anima d’improvviso prese il volo”.
    (Fabrizio De Andrè)

    Il lavoro arrivò: piccolo, poche ore, pochi soldi, ma ricco di relazioni e incontri. Poteva riprendere a progettare la vita, a sognare un futuro diverso. Poteva mettersi a posto i capelli, rimasti, contro ogni previsione, tenacemente attaccati alla testa; poteva mettersi un velo di ombretto per dare valore ai suoi begli occhi grandi; poteva invitare a casa le colleghe per un eccezionale tè e biscotti. E quelle brevi pause per le chemio non avrebbero interrotto la sua gioia né infranto la sua speranza.
    Poi, d’improvviso, sei mesi fa, i dolori, quei dolori, ricominciarono a mordere sempre più forte. Il drago aveva vinto interi battaglioni di chemio e annunciava la sua vittoria sulla vita.
    Ospedale, consulti di medici, nuove terapie, niente. “L’unica terapia che ha un senso in queste condizioni è la morfina”, dissero. È come una sentenza di morte. Condannata a una dolce morte: almeno questo il drago può concederlo.

    “Una croce con le ali, una croce senza peso …”
    (Don Tonino Bello, Vescovo di Molfetta)

    E la sua croce, quel corpo ormai smisuratamente leggero, lì in quell’immenso letto d’ospedale, sta ancora lavorando. Ora che la bellezza del suo cuore era divenuta visibile in tutta la sua meraviglia perché aveva preso la forma della gioia e della speranza, ora lei sta costruendo le ali per la sua anima. E per questo lavoro, come per tutti gli altri del passato, continua a combattere, nonostante i lunedì neri senza sorrisi, perché, appena quel suo corpo etereo glielo concede, spalanca gli occhi e sorride a te, al mondo, a chi la ama. Quattro sorrisi regalati, come i quattro bracci della croce, come se volesse renderla più leggera per noi che rimaniamo qui senza parole, e facciamo fatica, noi che stiamo bene, a trovare la forza per imbastire un sorriso.
    È il suo ultimo, magnifico, sublime gesto di donazione e dedizione. È il suo GRAZIE!
    E, se durante questo lavoro, dovesse scapparle uno sbadiglio, si porta la mano alla bocca più veloce che mai; e se dovesse capitarle il singhiozzo, fastidiosa compagnia degli ultimi tempi, ti chiede scusa perché l’educazione non si può dimenticare, neppure quando si stanno costruendo le ali per l’anima.

    “Beati quelli ke trovarà ne le tue santissime voluntati,
    ka la morte secunda no ‘l farrà male”.
    (San Francesco d’Assisi)

    Amici, mi sento
    un tino bollente
    di mosto dopo
    felice vendemmia:
    in attesa del travaso.
    Già potata è la vite
    per nuova primavera.
    (Padre David Maria Turoldo)

    * Dedicato a Mariella Consiglio, volata tra le braccia del Padre il 14 gennaio 2012.


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