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    Irradiare

    la bellezza di Dio

    Giannino Piana

    Irradiare la bellezza di Dio significa rendere testimonianza con la vita e proclamarla con la parola sia da parte dei singoli credenti che delle comunità cristiane. Questo doppio movimento risponde alla logica che Gesù ha fatto propria: compiere gesti di liberazione e spiegarne il senso.
    Si tratta di irradiare non la bellezza di una dottrina, per quanto sublime, ma la bellezza di una persona. Irradiare la bellezza di Dio vuol dire rendere trasparente il suo volto di misericordia e di amore, l'amore che Dio è.

    La bellezza di Dio

    Oltre alle definizioni già date nei precedenti incontri è possibile intendere la bellezza come la dimensione di profondità della realtà. La bellezza non va cercata in superficie, ma andando alla radice delle cose, oltre il livello della pura funzionalità, visione oggi dominante. Oggi conta sempre più il risultato, ciò a cui serve una certa cosa, ciò a cui è funzionale. La logica prevalente è quella funzionale e utilitaristica, anche nella valutazione etica.
    La bellezza sfugge a queste logiche, per collegarsi alla logica del gratuito e dell'imprevedibile. È la bellezza del gesto gratuito, dello "spreco" da parte della donna che versa l'unguento sui piedi di Gesù.
    Chi guarda la realtà in termini di funzionalità e utilità non è in grado di percepirne la bellezza, l'al di dentro, mai dominabile. La bellezza, la profondità è percepibile solo con un atteggiamento di ascolto e di accoglienza, come sa fare il poeta e il profeta, atteggiamento che apre all'al di là delle cose. Tanto più penetro al di dentro, tanto più sono rinviato al mistero insondabile che è dentro le cose e le trascende.
    La percezione della bellezza delle cose, della loro dimensione più profonda apre alla bellezza di Dio, fonte sorgiva di ogni realtà.

    La manifestazione di Dio nella storia del popolo di Israele e in Gesù Cristo

    La rivelazione biblica di Dio ci mostra un Dio che afferma la sua assoluta trascendenza, la sua alterità, la sua non raffigurabilità, la sua innominabilità (primi comandamenti). Di Dio è sempre più quello che non conosciamo di quello che conosciamo. Rivelare significa per un verso manifestare e per altro verso velare di nuovo (ri-velare), coprire di nuovo. Il Dio della bibbia è un Dio presente e assente, vicino e lontano, alleato dell'uomo, ma insieme mai catturabile dentro a nessun concetto o immagine.
    La preoccupazione di salvaguardare la trascendenza è espressa anche dal fatto che il volto di Dio non può essere guardato se non attraverso mediazioni (fenomeni naturali, angelo, sogno).
    Ci sono però molte tracce che ci aiutano a scoprire, sempre solo analogicamente, il volto nascosto di Dio.
    Innanzitutto la creazione porta su di sé l'impronta del creatore ("e Dio vide che tutto quello che aveva fatto era buono e bello"). La bellezza di Dio si rivela nelle sue opere e nel settimo giorno Dio si riposa contemplando la bellezza di ciò che ha fatto, svelandone così il senso ultimo, più profondo. "I cieli narrano la gloria di Dio". La creazione è gratuità: Dio crea le cose perché è bello che siano.
    Nel creato è l'uomo che rende maggiormente trasparente la bellezza di Dio, l'uomo creato a sua immagine e somiglianza. Anzi "a sua immagine li creò", quindi l'essere umano in quanto relazione, in quanto unità che si realizza in una differenza (maschio e femmina). L'immagine di Dio è nella realzione.
    Il Nuovo Testamento poi ci dice che Dio non è un solitario, ma vive in una comunione di persone, che è un Dio relazione (Dio trinitario). In questo senso Dio è amore, è carità, come dice Giovanni. L'amore è la comunione tra persone.
    In questa prospettiva la bellezza di Dio può essere annunciata solo dall'uomo, laddove sviluppa relazione autentiche. Bellezza e amore sono grandezze perfettamente omogenee.
    Anche il mistero pasquale mette in luce questa dimensione. Il mistero pasquale comprende la croce, realtà in sé abbrutente. Ma la croce mostra la sua bellezza nell'essere un gesto d'amore estremo. O meglio la croce in sé non è bella, bello è l'amore senza riserve e misura che esprime.
    Inoltre la croce è solo la penultima parola, l'ultima è la risurrezione, la nuova vita, la trasfigurazione. Il gesto di amore smisurato trasfigura, trasforma, è sorgente di novità di vita, di bellezza: è il Cristo risorto, primizia di tutti i risorti.
    La bellezza di Dio è coglibile solo "come attraverso uno specchio", cioè solo attraverso la mediazione, ed "enigmaticamente", cioè attraverso la ineliminabile ambivalenza della bellezza umana, che non può mai essere assoluta gratuità. La bellezza che ci annuncia la presenza di Dio, denuncia anche la sua assenza.
    La logica del mistero cristiano, della bellezza di Dio non è la logica formale della non contraddizione, ma quella dei doppi pensieri (Dostoevski), che mette insieme il diverso, l'opposto (Gesù perfetta immagine di Dio e piena immagine dell'uomo).

    Luoghi e modi di irradiazione della bellezza di Dio

    Saranno indicati solo alcune modalità di espressione della bellezza di Dio.

    Testimonianza della santità

    Non si tratta della santità eroica, straordinaria, ma della santità a cui tutti i credenti sono chiamati. Tutti i credenti sono chiamati ad essere perfetti come il Padre, secondo modalità e forme legate alla propria vocazione.
    È una santità che non è frutto anzitutto dello sforzo umano, dell'impegno ascetico, ma dono Dio, dello Spirito che plasma l'essere e l'agire dell'uomo. Non siamo noi per primi che amiamo Dio, ma è Dio che per primo ci ama. L'attitudine fondamentale, quanto mai impegnativa, non è quella del fare, ma del lasciarsi fare, del ricevere, dell'accogliere il dono. L'accoglienza implica una profonda attività. Ci vuole più forza nel riconoscere umilmente i propri limiti che non nel dare.
    Il contenuto di questa testimonianza è espresso dall'adesione ai valori del regno, condensati nel discorso della montagna e nelle beatitudini. Nel vivere le beatitudini si rende trasparente la bellezza di Dio. Le beatitudini richiamano ad atteggiamenti di fondo che vanno poi tradotti in scelte quotidiane, ispirate a valori che sono controcorrente rispetto al modo di pensare e di vivere tutto incentrato sul potere, sul successo, sul denaro, sulla potenza. Le beatitudini proclamano la bellezza della mitezza, della povertà, della misericordia, dell'essere pacificatori...
    Tutti questi valori sono riassumibili attorno al valore dell'amore, del dono di sé, indicando la necessità di una passaggio dalla ricerca di sé ad una perdita di sé (chi cerca la vita la perde, chi perde la vita la trova). È la bellezza del perdersi, del donarsi.
    La santità come bellezza si esprime anche nel vivere secondo la logica dell' "io vi dico": non insultare il fratello (equiparato al non ucciderlo), al non opporsi al male con il male, all'amore per il nemico.
    Una comunità cristiana che rendesse testimonianza a questi valori, che si impegnasse una migliore qualità dei rapporti, che reagisse al male con il bene, che fosse in grado di far cadere le barriere tra prossimo e nemico, considerando ogni uomo prossimo, sarebbe un elemento di feconda provocazione e darebbe concretezza e respiro al desiderio diffuso di un modo diverso di vivere le relazioni.

    Il linguaggio simbolico

    Anche l'annuncio deve essere sempre più momento di trasparenza della bellezza di Dio.
    L'annuncio della bellezza ha bisogno di un proprio linguaggio, diverso da quello deduttivo. Alla bellezza pervengo per intuizione e induzione, non per deduzione.
    Il linguaggio della bellezza cioè non può essere quella della razionalità dominante, cioè della razionalità ideologica, che tende a creare un sistema totalizzante in cui includere tutto, e della razionalità strumentale di matrice tecnico-scientifica, volta al perseguimento del potere o del dominio sulla realtà, avendo come metro di misura la funzionalità.
    La tentazione di fronte a questa razionalità occidentale che tende a dominare tutto a ridurre tutto a strumento è quella di fuggire nell'irrazionale.
    Nella bellezza entrano anche le emozioni, i sentimenti, ma non in alternativa alla ragione, ma come elementi che qualificano un'altra forma di ragione, una ragione, per dirla con Lévinas che non mira alla totalità, a rinchiudere tutto in un sistema, ma all'infinito, che apre, che accosta la realtà rinviando sempre oltre verso qualcosa di mai totalmente definibile, verso l'infinito.
    Questa ragione nuova è la ragione simbolica. Il simbolo descrive la realtà, ma rinvia sempre oltre. Mette insieme anche il diverso, ma evocando qualcosa che va oltre, che non può mai essere del tutto definito.
    La razionalità simbolica è evocativa, allusiva, che piuttosto che dimostrare, mostra, indica, apre al mistero, alla trascendenza all'alterità, mentre la forma totalizzante di ragione esclude la possibilità del riconoscimento della vera alterità.
    1. Questo concetto di razionalità dovrebbe essere applicato ai momenti dell'annuncio, innanzitutto nelle omelie durante le assemblee liturgiche.
    Occorre accostarsi alla Parola lasciandola parlare, senza sovrapporsi ad essa con sterili moralismi o inutili ideologismi. Anche la parola di Dio può essere strumentalmente ridotta alle nostre tesi. In passato la tentazione era quella di leggere la Parola facendo l'applicazione immediata in senso moralistico, soprattutto nella sfera della sessualità. Oggi può esserci la tentazione dell'ideologismo, piegando la parola a precostituite letture della realtà sociale. Ma il giudizio, anche necessario su eventi sociali, deve sgorgare dalla forza evocativa originaria della Parola stessa.
    C'è troppo spesso la tendenza a dimostrare, a fare applicazioni immediate e non a sollecitare nelle coscienze dei singoli assunzioni di responsabilità e applicazioni in forza della Parola.
    I pastori delle chiese protestanti sanno predicare molto meglio dei preti, anche perché si rivolgono a persone aduse all'accostamento alla Parola e in grado di percepire più facilmente il senso dei testi, e quindi possono limitarsi a offrire chiavi di lettura molto generali...
    2. Anche i segni liturgici hanno una grande importanza. Quando i segni hanno bisogno di essere spiegati non sono più segni. Il segno deve parlare immediatamente, seppure in modo allusivo, della realtà altra a cui si riferisce.
    La riforma liturgica ha operato un grande sforzo di semplificazione di molti segni, molti dei quali però sono ancora troppo lontani dalla cultura dell'uomo di oggi. C'è ancora troppo didascalismo.
    Si è passati da una sacralità magico-superstiziosa, che avvolgeva di mistero il non conosciuto e il non capito (il latino, ecc.), ad una fredda razionalità che tutto spiega. Non si è passati dal sacro al santo, ad un linguaggio che evochi il mistero che sta nelle profondità delle cose e che rinvia all'alterità.Non si è passati dal sacro al mistico, che spinge nella direzione della apertura al non spiegabile.
    Il linguaggio evocativo è proprio delle parabole. Gesù parla in parabole "perché vedendo non vedano e udendo non odano", C'è un percepire la profondità della realtà che va oltre il vedere. E l'udire non è ascoltare. L'ascoltare come il credere è andare in profondità, significa sintonizzarsi con l'interiorità dell'altro e non il rimanere in superficie
    Gli stessi sacramenti sono l'assunzione di realtà materiali e umane già di per sé significative , che rinviano ad un senso ulteriore.
    Il bello, in quanto dimensione della profondità delle cose, trascende il bene e il vero, dà al bene e al vero una nuova carica. La bellezza è ciò che impedisce al vero di diventare verità dogmatica, verità che si chiude su se stessa, che definisce.
    E la bellezza impedisce al bene di cadere nel moralismo, di assolutizzarsi in norme e valori trascurando la creatività personale: Soltanto la carità è un valore assoluto, al servizio del quale devono essere posti tutti gli altri valori.

    La preghiera come paradigma

    La preghiera, non il recitare preghiere, ma l'attitudine del pregare, è il luogo in cui si rende trasparente la bellezza di Dio. È il pregare come modo di essere-al-mondo, caratterizzato dallo stare davanti a Dio e dal sentirsi abitati da lui.
    Lo stare davanti a Dio significa riconoscere un'alterità che mi trascende, a cui mi riferisco costantemente.
    L'essere abitati da Dio significa riconoscere che Dio è più intimo dell'intimo di me stesso, che Dio è dentro di me.
    È la bellezza come profondità delle cose e dell'essere personale. Vuol dire sentire Dio come compagni di viaggio, ma anche come colui che non si sostituisce alle mie responsabilità nel mondo e mi rinvia al mio impegno intramondano.
    Il senso del pregare è fare esperienza di Dio nella storia (il Dio cristiano è nella storia) e fare esperienza della storia in Dio, riconoscendo che la storia è una storia aperta, dentro cui si manifestano i segni di liberazione, segni del Regno che viene.
    La preghiera non è tanto un atto dell'uomo che tende a dialogare con Dio quanto un atto di Dio che tende a dialogare con l'uomo. "Ascolta Israele" è l'invito che emerge da tutta la tradizione ebraica. È l'invito all'ascolto, all'accoglienza, alla povertà, alla gratuità, al vivere e irradiare la bellezza di Dio.

    (Verbania Pallanza, 10 marzo 2001, sintesi della relazione)


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